Epifanie
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Info su questo ebook
Weird - racconto lungo (54 pagine) - Cinque storie apparentemente scollegate che alla fine si intrecciano in un epilogo molto particolare...
Epifanie è una storia ambientata (e scritta) a Praga e ricrea le atmosfere di Kafka e Gustav Meyrink, strizzando l'occhio anche ai poeti francesi. È divisa in cinque capitoli, con storie che si intrecciano (un uomo sconfitto dalla vita apre una porta del proprio palazzo che non deve aprire e si trova catapultato suo malgrado a Praga; un collezionista di oggetti strani mette le mani sulla Collana di Unghie citata in un racconto antico; una donna – morta ma sognante – si vendica dell'uomo che l'ha lasciata per scegliere gli abiti talari; un pittore porta la sua ispirazione e l'amata perduta dentro un quadro…) sino all'epilogo finale tutto da scoprire.
Ian Delacroix è uno scrittore ed editor professionista, specializzato nei generi weird, horror e fantastico. Ha pubblicato in Italia, in Germania, in USA e UK. Ha pubblicato la sua prima raccolta nel 2007 con Edizioni XII, Abattoir. Ha partecipato alle antologie Tarot-Ludus Hermeticus (2007) e Archetipi (2009) e ha tradotto In The Eyes of the Victim di Michael Laimo per l’antologia Carnevale (2010). Nel 2011, sempre per Edizioni XII, è uscito il suo romanzo Il Grande Notturno, finalista al Premio Italia. Nel 2020 è uscita l'edizione limitata di Il Re del Mare (Disintegration Publishing). All'estero diversi suoi racconti sono usciti in numerose antologie. Tra le varie case editrici con cui ha pubblicato ricordiamo Ulthar Press, Innsmouth Gold, Blitz-Verlag e Dinatox Industries, per la quale ha partecipato al prestigioso tributo a David Tibet accanto ad autori quali Thomas Ligotti e Sir Joseph Pulver. Nel 2020 ha esordito sul mercato americano col romanzo Catacomb Kittens per Hybrid Sequence Media.
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Anteprima del libro
Epifanie - Ian Delacroix
Media.
Se cerco un’altra parola per dire Arcano,
trovo soltanto la parola Praga.
Angelo Maria Ripellino
Mala Strana
Nostalgie di piovaschi autunnali s’inseguono negli aloni gettati dai lampioni, notti d’Ottobre intarsiano arabeschi di cenere e pietra sui muri e nelle strade infangate.
Non sono mai stato a Praga.
Eppure la scorsa notte, quando le ombre si rincorrevano sui muri di questa città, come un solitario poeta ho attraversato vicoli alchemici, ho ascoltato il sussurro dimenticato del vento, ho temuto figure ancestrali e aspirato esotiche essenze, ho inseguito spauracchi e sagome di chimere che fuggivano confondendosi con la pietra.
Tutto in una notte.
Ho intinto i ricordi nei misticismi di una città dimenticata, forse mai esistita se non nella mia mente. Eppure quella era Praga. Abbandonata, smarrita nei frammenti scomposti di un secolo scolpito nel muro del tempo.
Eterna.
Il crepuscolo scendeva lento incorniciando le figure, creando giochi di pieni e di vuoti negli occhi delle statue. Non c'era nulla di poetico attorno a me. Non era possibile scorgere perle di lirismo nel mosaico di fabbriche e cemento che si dipanava senza soluzione di continuità oltre l’orizzonte, oltre le speranze, oltre il plumbeo biancore dei pastrani e delle giacche, indossate dagli spettri che aleggiavano nei viali.
La cappa si spandeva sopra le pieghe della città industriale come nerofumo, e non bastavano certo le chiazze di luce gettate da illuminazioni artificiali, per sprofondare il viandante in suggestioni diverse. Un uomo-meccanico sfiorò il mio soprabito, urtando con le imprecisioni dei suoi contorni i pilastri fittizi del mio mondo. Non gli prestai attenzione.
Strade geometriche si susseguirono a strade geometriche; vicoli a vicoli; marciapiedi a strisce d’asfalto macchiate.
Quando salii la scalinata a spirale che conduceva all’atrio dell’edificio dai muri scuri, la porta di alluminio e plexiglas si richiuse con un lamento impersonale, esiliando il mondo all’esterno.
Percorsi il corridoio, la livida luce al neon non richiamava alla mente che spettri d’ospedale. Il tappeto scolorito dalla trama simmetrica e le pareti dall’intonaco che cadeva a pezzi erano una monotonia che si ripresentava ogni sera. I miei passi mi risuonarono estranei. Le porte scorrevano al margine del mio campo visivo, simili a immagini osservate attraverso la lente di un caleidoscopio.
L’inatteso ha i colori più improbabili.
L’ultima porta al termine del corridoio si aprì. Una densa spirale di fumo invase l’aria e danzò lieve attorno, creando volute capricciose che si smarrirono nelle appendici del soffitto. Mi arrestai, incuriosito. La porta rimase così, semiaperta, invitante come le cosce di una donna. Una musica esotica, sibillina e persistente si intuiva oltre la cortina di fumo.
Non conoscevo gli abitanti del palazzo.
Sagome simili a fantasmi che vagavano per il corridoio a orari impossibili, musica straniante che infrangeva le barriere dei muri, risate nelle ore più impensabili: questa era tutto quello che possedevo di coloro che si trovavano oltre la porta.
Un sentore acre m’invase le narici, probabilmente incenso o eliotropio, che veniva bruciato in qualche anfora clandestina in quello stabile di periferia.
Ripresi ad avanzare, superai la porta del mio appartamento e per la prima volta mi ritrovai al termine del corridoio. Faceva caldo, troppo caldo. Rallentai sin quasi ad arrestarmi e non potei esimermi dal gettare uno sguardo di sottecchi oltre lo stipite. In fondo anche Orfeo aveva commesso il mio stesso peccato, no?
Una mano comparve dal muro di fumo: mi afferrò, trascinandomi all’interno. La nebbia si diradò a poco a poco.
Mi trovavo in una camera dall’alto soffitto. Le pareti erano rivestite da una carta da parati di un’impossibile giallo, alimentata da lampade a olio che sembravano uscite da un secolo passato. Il tutto era impreziosito da tappeti orientali e cuscini di raso che colmavano il pavimento.
Si respirava un aroma esotico e lontano, quasi posticcio. Una poltrona damascata, su cui erano ricamati motivi floreali che richiamavano l’intrico della giungla, occupava un angolo della stanza. Ma era oscurata da una grossa tenda che troneggiava nell’ambiente. Figlia negletta dei tendoni da circo, arrivava a sfiorare il soffitto. Tra le sue pieghe ritrovai l’origine del sentore che aveva invaso il corridoio. Più intenso. Più selvaggio. Più mistico.
Colsi multiformi volute che si spiegavano in arabeschi. Sui tappeti dalle tinte ipnotiche c'erano tre giovani: una femmina e due maschi.
Erano nudi, a eccezione di sottili veli, zimarre o forse coperte o tessuti usciti dalle pagine de La Mille e una Notte, che coprivano in maniera in apparenza casuale i loro corpi. Tra loro vidi il giovane che mi aveva rapito e spinto nella stanza, anche se non riuscivo a capacitarmi di come potesse, ora, trovarsi sul pavimento. Mi guardarono con un sorriso ambiguo e occhi smarriti in universi dimenticati.
– Chi siete? – domandai.
Si misero a ridere, emettendo ragli simili a quelli delle capre.
– Chi siete? – ripetei.
La ragazza indicò la tenda, inclinando appena il capo; riccioli provocanti le ricaddero scomposti sul viso, poi scoppiò di nuovo a ridere. Altre voci si unirono alla sua, mentre le figure si abbandonavano in un atteggiamento lascivo, laido e grottesco. Sospirando, ma senza mai rivolgersi la parola.
Osservai la tenda, la fenditura dischiusa come le gambe di una donna ignota, ma dal fascino demoniaco. Le trame a spirale e le decorazioni del tappeto, che