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La coscienza del diavolo
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E-book254 pagine3 ore

La coscienza del diavolo

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Info su questo ebook

Germania, 1944. Un uomo, stretto nel suo cappotto e celato da un cappello, sta camminando sul ciglio di una strada di campagna, quando un gruppo di soldati delle SS, a bordo di un mezzo diretto fuori città, lo colpisce intimandogli di spostarsi, in quanto giudeo.
Pochi metri e il veicolo finisce in una scarpata, mentre Frantisek continua il suo viaggio: la sua destinazione è il campo di concentramento non lontano dalla cittadina, dove si presenterà asserendo di essere atteso. 
Dal momento del suo arrivo, eventi inspiegabili cominciano a susseguirsi, senza che nessuno riesca a comprenderne la fonte o il motivo. Una domanda, però, sovrasta tutte le altre, tormentando i responsabili del lager: chi è davvero Frantisek?

Marino Massarotti medico e neurochirurgo nato a Milano il 2 febbraio 1938, sposato e padre di tre figli ha vissuto gli ultimi quarant’anni ad Abano Terme. 
Molto appassionato di teatro, storia e arte, lui stesso pittore, regista e attore, ha scritto numerosi scritti scientifici e vari libri.
I più importanti, apprezzati e premiati sono stati: nel 2004 L’uomo che restituì la vista al Cristo e nel 2006
Il vento di Dio sulla sabbia.
È scomparso il 25 novembre 2016. Ha lasciato il suo ultimo libro, per fortuna terminato, La coscienza del diavolo.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2022
ISBN9788830667488
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    Anteprima del libro

    La coscienza del diavolo - Marino Massarotti

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di Lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Prologo

    Passo gran parte del giorno e della notte a divorare libri su libri. Credo di aver raccolto in pochi anni il capitale di conoscenza di una vita intera. Qualche giorno fa ho trovato su una bancarella di libri usati il romanzo che un russo di nome Dostoevskij ha pubblicato una trentina d’anni fa dal titolo I fratelli Karamazov. Avevo appena venduto due miei quadretti a un salumiere e così l’ho comprato. Ce l’ho qui davanti a me.

    Ora sono arrivato al punto nel quale Ivan, uomo chiuso in se stesso, ateo eppure assetato di verità, racconta al fratello Alessio, leale per natura, credente e novizio in un monastero, la trama di un suo poemetto nel quale vorrebbe esporre linee risolutive ai terribili dubbi che affliggono l’Umanità sull’esistenza di Dio, sul perché esiste il dolore, su cosa è il libero arbitrio concesso agli uomini.

    Questo scrittore, pur essendo un russo, e io non amo particolarmente i russi perché sono tutti slavi e cioè una razza ibrida di popoli inferiori, coglie tuttavia nel segno con rivelazioni che mi hanno profondamente colpito e che difficilmente potrò dimenticare. Sono esse esposte nella leggenda del Grande Inquisitore. Rileggiamo insieme i punti salienti.

    Cristo torna sulla terra nella Spagna dei tempi più feroci della Santa Inquisizione e inizia a compiere miracoli, spargendo amore e facendo tremare di beatitudine il cuore degli uomini. Il bene sembra spargersi a macchia d’olio, come un profumo di lauri e di limoni per le strade di Siviglia. Ma gli scherani del Grande Inquisitore, un vecchio sui novant’anni, alto e diritto con un volto scarno e occhi incavati da cui si sprigiona quasi una scintilla infuocata, un lucente bagliore, catturano il Cristo e lo gettano in un carcere buio e cupo in attesa di giudizio. E questo arriva implacabile e sembra essere la morte. Essa arriva nelle vesti di quell’uomo potente della Chiesa che si reca di notte a visitare il Cristo prigioniero con una grande torcia in mano.

    Qual è l’accusa? Il punto centrale della leggenda è questo! L’accusa è di non aver compreso che la maggior preoccupazione di quelle misere creature che sono gli uomini consiste nel trovare qualcuno di fronte a cui inchinarsi e farlo tutti insieme, con un culto comune e universale. E dunque si impadronirà della libertà degli uomini solo colui che saprà mettere tranquille le loro coscienze. Ma che cosa è accaduto? – continua il vecchio implacabile – invece di impossessarsi della libertà degli uomini, tu l’hai resa ancora più grande! Perché l’hai moltiplicata aggravando in eterno coi tormenti della libertà il regno spirituale dell’uomo.

    Mentre scorrono queste parole, nella mia mente si affaccia il dubbio che quello che noi chiamiamo libero arbitrio sia in realtà un terribile peso da portare, perché l’uomo ha dovuto quindi decidere nel suo cuore dove fare il bene e dove fare il male, nutrendosi di tanti insolubili problemi. Ed ecco come un fulmine la soluzione… illuminante. Il Grande Inquisitore e la legge che egli rappresenta hanno corretto finalmente nei secoli l’opera divina e alla fede nella libertà e nell’amore hanno sostituito il principio della autorità, trattando gli uomini come un gregge e sgravando i loro cuori di quel triste dono che ha provocato tante sofferenze.

    Sono insonne e continuo a pensare a queste affermazioni. Non importa come questa storia andrà a finire. Non mi importa dell’amore che può salvare il mondo. Sono cattolico, ma non mi sono più accostato da anni ad alcun sacramento, né ho più visitato alcuna chiesa. Ma quanto il russo ha scritto si è inciso dentro di me. Se l’Inquisitore ha ragione e io non dubito che sia così, l’uomo è alla disperata ricerca di qualcuno a cui inchinarsi, assieme agli altri suoi simili. Un culto comune, non la libertà, ma l’autorità fornisce certezze a quel gregge che ha sofferto per il libero arbitrio che Dio ha concesso. L’autorità decide al posto di tutti quello che è bene e quello che è male.

    La lampada a olio si sta spegnendo e lo stoppino brucerà ancora per qualche minuto. Chi sono io? Vuoi saperlo tu che mi leggi?

    Sono steso in una camerata del dormitorio pubblico maschile della città di Vienna. Di giorno dipingo acquarelli che sono vedute di alcuni dei punti più noti della città. Dal Duomo di Santo Stefano al Castello di Schönbrunn, alle rovine romane del suo parco. Ad alcuni questi miei quadretti piacciono anche se ho tentato invano di iscrivermi all’Accademia delle Arti, che mi ha rifiutato. Ma comunque qualcuno lo vendo, a turisti, negozianti, fabbricanti di mobili che li applicano, secondo la moda, allo schienale delle sedie da poco prezzo. Ho dipinto anche, a Natale, manifesti pubblicitari per alcuni bottegai, per reclamizzare candele, saponette e borotalco.

    Dicono che ho l’aspetto di uno spettro, ma a me non interessa. Io credo di sembrare piuttosto un bohèmien, perché sono di altezza media, magro e molto asciutto (con quello che mangio è tanto se non casco per terra!) e porto un cappotto nero sgualcito, lungo fino ai piedi, che non ho potuto rifiutare anche se me lo ha regalato un ebreo. In testa ho una sudicia bombetta nera che copre i miei capelli ispidi, spalmati all’ingiù sulla fronte e che dietro scendono a coprire il colletto della camicia che non è certo immacolato. Il mio viso porta assai spesso un velo di barba nericcia perché mi rado molto poco e poco, devo dire, mi lavo. Ma i miei occhi… Dicono i miei pochi compagni, i miei occhi bucano il viso come se due fari li illuminassero dal di dentro e il mio sguardo vede lontano come quello di un’aquila, che un giorno prenderò a emblema della mia grandezza.

    Perché io mi chiamo Adolf Hitler. Ricorda questo nome.

    CAPITOLO 1 - IL MONDO DEGLI UOMINI

    Su ogni cima è pace

    In ogni chioma senti appena un alito

    Nel bosco anche gli uccelli, tutto tace

    Aspetta, presto tu troverai la pace.

    Goethe

    In una tersa e freddissima notte invernale, nella stagione che solo la certezza dell’arrivo di una nuova primavera ti fa pazientemente sopportare, un piccolo uomo insignificante, come definirlo altrimenti?, camminava sullo stradone sterrato che, uscito dal paese, si inoltrava nel bosco tra colline ricoperte da uno spesso strato di neve gelata. Il fondo stradale era delimitato da grandi cumuli di neve e recava i segni del passaggio di grossi pneumatici militari in un senso e nell’altro. Lunghe lingue di luce lunare filtravano tra i rami degli alberi ai lati della strada creando una fantasmagorica ragnatela di luci e ombre che danzavano al freddo vento che veniva dall’Est. Stalattiti di ghiaccio drappeggiavano le foglie dei rami più piccoli. Ogni tanto in lontananza si sentiva l’ululato di un lupo, un grido di dolore nella notte, solitario e inesorabile. Ma l’uomo non sembrava nemmeno accorgersene. Un cappottone scuro gli cadeva addosso, sdrucito e lucido per essere stato più volte rivoltato da necessità economiche impellenti. Nelle mani portava grossi guanti di lana che lasciavano sporgere le dita ornate da lunghe unghie nerastre. Il viso aveva lineamenti marcati ancor più dall’ombra di un cappello nero a larga tesa che lasciava cadere ai lati lunghi capelli crespi neri come il carbone impastati come liquirizia. Gli occhi profondi ma animati da una luce accesa, erano sepolti da folte sopracciglia mentre il mento era sovrastato da una bocca carnosa e lucida, dove il labbro inferiore sporgeva rispetto al superiore. Il tutto sembra sostenere un naso adunco nettamente fuori misura. Con un tocco di artistica creatività colui che aveva scelto questo travestimento, perché tale era in realtà, si era chiaramente ispirato alle caricature che i rappresentanti della razza ariana spargevano nella pubblicistica di quei tempi maledetti. L’ometto avrebbe potuto scegliere qualsiasi altro mezzo per trasferire il suo corpo nello spazio, ma aveva deciso una volta tanto di assaporare il grande respiro della natura verso la quale, pur servendosene qualche volta per suscitare la sua violenza devastante, provava un sentimento di rispetto, riconoscendola come la parte migliore della creazione. Il viandante prese ai bordi della strada un piccolo blocco di neve, lo rese rotondo modificandolo con le mani e quindi lo lanciò poco lontano. La palla di neve con un piccolo tonfo leggero si schiantò contro il tronco di un albero lasciando un segno gelato. Il viaggiatore aspirò quindi con voluttà i profumi della notte, ascoltò i sommessi e furtivi rumori che le creature del bosco si scambiavano, godette della fredda brezza vivificante che veniva a folate dalle colline, assaporò con un profondo respiro la nebbiolina umida che gli entrava nella gola e nei polmoni e che sapeva di terra bagnata, di muschio e di foglie marcescenti. Un brusio più forte degli altri attirò la sua attenzione: una grossa donnola uscì velocissima dal sottobosco e attraversò la strada a pochi passi da lui, così vicina da percepire il suo tipico odore muschiato. Un lampo giallo sinistro a caccia di qualche disgraziato coniglio. In fondo alla strada di ghiaia innevata, luccicava una luce lunare e le sue scarpe scucite e assai vissute scricchiolavano con un suono ritmico e rassicurante. La materia eterna antagonista dello spirito, quanto poteva essere desiderabile! – pensò lui che di materia non era fatto e che non ne sarebbe mai stato.

    Uno sferragliante rumore improvviso ruppe il silenzio del bosco e i fari di un grosso autocarro scandagliarono la strada trasformandola in un tunnel tra i grossi alberi che sorgevano ai lati. Sul pianale del veicolo alcuni soldatacci sbraitavano in preda all’alcol e quando l’automezzo si trovò all’altezza del viandante rallentò di colpo e sterzò pericolosamente contro di lui. Un grosso braccio si sporse dalla fiancata e si abbatté con violenza contro la spalla dell’uomo facendolo ruzzolare per alcuni metri tra la neve e poi nel fossato che costeggiava la strada. Mentre il camion riprendeva velocità, sbandando vistosamente, si udì una voce arrochita che urlava: Tritt auf die seite, dumkopf!.

    Il viso grottesco del giudeo si irrigidì per la sorpresa di quanto era accaduto, ma fu un attimo ed esso si ricompose in una espressione sognante quasi estatica. Poi, raccolto il cappello che era volato poco lontano (una parte dell’abbigliamento umano che evidentemente aveva una sua indipendenza!), riprese il suo cammino. Quella violenza gratuita contro di lui lo aveva scosso dalle sue meditazioni e turbato più di quanto volesse ammettere. Fatti da parte, imbecille! gli aveva urlato quell’uomo e lo aveva colpito. E l’accaduto gliene riportava alla mente un altro così lontano nel tempo e nello spazio che però era stato di una aggressività minore e soprattutto era stato generato involontariamente da lui stesso.

    Era entrato nella parte di un modesto commerciante nel negozio di uno vecchio scrivano che, stando ai rotoli di calligrafia elegante che pendevano dalle pareti, vantava anche la qualifica di poeta. Uno di questi diceva: "Quando cammini, cammina; quando mangi, mangia; quando muori, muori. Girandosi maldestramente per guardare un’altra di quelle scritte aveva urtato un grosso calamaio; l’inchiostro sparso aveva imbrattato alcuni fogli pronti per essere usati e alcune opere già terminate. La reazione del vecchio poeta era stata immediata. Dopo averlo aspramente redarguito lo aveva colpito con uno scacciamosche ma immediatamente dopo, il vecchio si era inginocchiato davanti al visitatore e aveva battuto il capo per terra tre volte come a chiedere perdono. In quel momento il visitatore aveva avuto la certezza che il vecchio poeta Zen lo avesse riconosciuto per quello che era veramente, e gli chiese: Hai paura di me, vecchio?".

    Senza guardarlo in viso, il poeta aveva risposto: Quando noi siamo staccati dalla nostra vera natura, allora abbiamo paura. Quando intuiamo che invece siamo una cosa sola col fiume, col cielo, con l’universo, lì siamo in pace. Permettimi, o signore del nulla, che ti scriva una delle mie poesie, poi farai di me quello che vorrai.

    Il vecchio aveva allora steso sullo scrittoio un foglio di delicata carta di riso deturpato tuttavia da una macchia d’inchiostro e con rapidi movimenti sinuosi aveva scritto:

    Navigando lungo il fiume degli uomini,

    ho udito un richiamo profondo, regolare.

    Cercando ciò che avevo perduto

    trovai una schiera di santi

    Qualche corda misteriosa dell’Essere era stata toccata da quella specie di oscura profezia e così chiese: Perché hai usato la carta che avevo maldestramente macchiato prima per scrivere il mio dono?.

    Il poeta alzò gli occhi e osò guardarlo in viso, anche se sapeva quanto era grande il pericolo.

    Perché volevo che tu ricordassi che niente e nessuno è perfetto. Nemmeno un dono.

    Il Lui-commerciante lo aveva allora compitamente ringraziato ed era uscito dalla bottega.

    Ora, in questo momento, l’uomo si trovava a soppesare le due diverse situazioni e decise che anche l’esito doveva essere diverso. Anche se non aveva voluto, la fiamma della vendetta ardeva ormai dentro di lui in modo incontenibile. Per un attimo i suoi occhi divennero due laghi oscuri e profondi, senza luce e senza speranza, perché aveva deciso di punire in qualche modo gli uomini malvagi.

    Poco dopo un rumore di ferraglie contorte lo distrasse da ogni ulteriore considerazione perché la sua decisione era stata presa. La luce dei due fari aveva lasciato la strada e sembrava rotolare sempre più a valle in modo rapido e disordinato, poi si era arrestata puntando verso il cielo e infine si era spenta lasciando il posto a lingue di fuoco giallastro. Con tutta calma il lui-giudeo proseguì per qualche centinaio di metri fino a una stretta curva; sul fondo di una ripida scarpata giacevano le lamiere contorte dell’autocarro che le fiamme lentamente avevano iniziato a consumare. Non tutti i soldati erano morti. Tre di loro giacevano poco distante e presentavano ustioni, fratture e ferite in varie parti del corpo. Erano in stato di incoscienza e si lamentavano debolmente ma sarebbero vissuti. Un quarto soldato, l’autista, giaceva invece esanime accanto al posto di guida dilaniato dal volante che gli aveva sfondato il torace. Il soldato che aveva sfidato la collera dell’innominabile era stato sbalzato lontano dall’impatto e giaceva riverso sulla schiena. Dal torace sporgeva un grosso ramo appuntito reso viscido dal sangue rutilante che macchiava la neve tutt’intorno.

    Il moribondo sentendo avvicinarsi qualcuno raccolse le sue ultime forze e aprendo gli occhi riuscì a mormorare: Hilfe… hilfe… um Gottes willen! Aber du… bist…¹

    Alla luce delle fiamme il viso del soldato si contrasse in un rictus che per un istante si trasferì alle sembianze dell’ebreo che stava chinato su di lui. Ma l’eternità li avvolgeva.

    Mi hai riconosciuto, amico mio?

    Il soldato non era un vile. Gli anni di guerra lo avevano forgiato in una materia difficile da spezzare, fatta di sangue, di dolore, di violenza che di umano aveva ormai ben poco. Fu il desiderio di ribellarsi a questa

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