La notte della grande ombra
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Info su questo ebook
Horror - racconto lungo (52 pagine) - La più terribile creatura di Lovecraft è tornata...
Francia, Gévaudan, 1788. Un villaggio è stretto nella morsa di un incubo più terrificante di quello che, quasi venticinque anni prima, colpì l’intera regione. Ma un misterioso viandante giunge in soccorso, ergendosi come estremo baluardo di difesa. Dovrà impedire l’arrivo di un’entità dai poteri inimmaginabili. In gioco c’è la salvezza del mondo.
Daniele Pisani, nato nel 1983, è un ingegnere, scrittore e pittore. È stato finalista nel 2012 del Premio Tedeschi e nel 2017 della XIII edizione del premio I sapori del Giallo del Comune di Langhirano. Ha all’attivo una ventina di e-book, pubblicati con la casa editrice Delos Digital, di vario genere: horror, fantasy, thriller, thriller storico, viaggi, fantascienza, apocrifo sherlockiano. È coautore di Ramses il Figlio del Sole, quarto libro della saga Il romanzo dei faraoni a firma del collettivo Valery Esperian, per la casa editrice Fanucci. Il racconto a esso collegato, a tema antico Egitto, intitolato Il sovrintendente, è apparso sui giornali La Sicilia e Il Cittadino. È presente sul n. 50 della Writers Magazine Italia con il racconto breve di fantascienza Big Up. Il suo racconto lungo Sherlock Holmes e l’indagine con Buffalo Bill è pubblicato in appendice al romanzo di Arthur Hall intitolato Sherlock Holmes – L’ombra della Gorgone, sul numero 60 del Giallo Mondadori Sherlock.
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Anteprima del libro
La notte della grande ombra - Daniele Pisani
9788825409086
1.
Francia, regione dello Gévaudan, febbraio 1788
Nel cielo nero, la falce di luna spiccava come un amuleto demoniaco.
Effondeva una luce spettrale, tra le nuvole del colore del ferro; nuvole che filavano rapide, simili a uno stormo di creature alate deformi, trascinate in una corsa folle. Il vento, freddo, si abbatteva ululando, e senza pietà, come la mano di un gigante, rapace e invisibile, intenta a frugare dappertutto. Per le viuzze del villaggio, spazzate da quel vento maledetto, la polvere si sollevava, i tendaggi si agitavano, le porte e le finestre vibravano. E le insegne penzolanti oscillavano, come quella dell’unica locanda.
La luce che la inondava, proveniente dall’interno, ne proiettava un’ombra distorta sul soffitto della camera del giovanissimo Tancrède, che abitava di fronte. L’insegna era a forma di gallo ma, agitandosi, il profilo proiettato cambiava di volta in volta. Ora sembrava un teschio, ora un artiglio, ora un ragno. Tancrède la fissava ipnotizzato, agitandosi nel letto. Si asciugò la fronte madida di sudore e sospirò. Distolse lo sguardo dal soffitto, in preda all’ansia, e tornò a guardare la piccola porzione di cielo notturno incorniciata dalla finestra della sua camera; finestra senza tende, con le imposte rotte. A un certo punto, sentì montare dentro, come l’alta marea, un terrore indicibile, che gli diede l’impressione di precipitare in un’oscura voragine. Si girò gemendo, tuffò la testa nel cuscino e soffocò un urlo isterico. Si tappò le orecchie, per non sentire i lamenti di sua madre, dabbasso, che aveva ripreso a piangere. Disperata come ogni sera per la morte di papà. L’orribile morte di papà. Eppure, lei non aveva visto quello che aveva visto lui. Si sforzò di dormire, ma il sonno non arrivava. Poco dopo, il terrore per quell’incubo a occhi aperti raggiunse l’apice e, annientato nel corpo e nello spirito, si augurò la morte, commiserando il proprio stato. Si commosse al pensiero di quanto fosse giovane: soltanto tredici anni. Eppure già condannato.
Condannato a un inferno di terrore abissale e dolore infinito.
Ma, forse, una speranza c’era: la follia. Pensò che sarebbe stata come una sorta di sedativo. Non avrebbe più percepito appieno il mondo reale e ne avrebbe ricevuto sollievo; poi sarebbe morto, lentamente, forse di inedia. Oppure, avrebbe commesso qualche gesto fatale senza averne piena coscienza, come per esempio gettarsi da un dirupo. Perché, in fin dei conti, era convinto che fosse questo a mancargli: il coraggio di uccidersi. Ma c’era una voce che, nei momenti di sconforto più terrificante, giungeva in suo soccorso, sussurrandogli che non poteva ancora morire.
No, prima doveva scoprire com’era morto papà.
Doveva scoprire chi o cosa lo aveva ucciso tanto orribilmente.
2.
Un rumore breve e secco fece sobbalzare Tancrède. Qualcosa aveva urtato il vetro della finestra chiusa. Pensò a un rametto trasportato dal vento. E non se ne curò. Il rumore, però, si ripeté, stavolta più forte. Poi ancora, di lì a poco, per la terza volta. Decise allora di andare a controllare. Non aprì la finestra, per tenere fuori la violenza del vento, ma, guardando in obliquo verso il basso, scorse la testa riccioluta di Jean, il suo più caro amico, figlio del locandiere.
Era stato lui: tirava sassolini alla sua finestra. Non appena quello, da giù, lo vide, gli fece segno disperatamente di aprirgli. E Tancrède scattò. Sia perché quando l’amico usava quel sistema per chiamarlo era sempre per dirgli qualcosa di urgente sia perché non voleva lasciarlo in balia del vento.
Sceso al piano inferiore, prima di andare ad aprire buttò rapidamente l’occhio nella camera di sua madre, da cui non proveniva più alcun suono: era sveglia, però, e giaceva supina sul letto, immobile. Le lenzuola stracciate, i capelli scarmigliati, lo sguardo fisso. Il petto si alzava e si abbassava, per via del respiro; unico indizio che non era morta di crepacuore. Era un’immagine, questa di sua madre prostrata dal dolore, a cui aveva fatto l’abitudine ormai, e non si impressionò.
Quando tolse il chiavistello, la potenza del vento per poco non lo travolse. L’amico prontamente si infilò nello spiraglio, poi lo aiutò a richiudere la pesante porta di legno. I due ragazzini erano adesso faccia a faccia, nella penombra. Tancrède fece segno all’amico di parlare a bassa voce, e quello annuì.
– Brrr, che tempo… – sussurrò Jean, infreddolito, sfregandosi le braccia. – Scusa per l’ora tarda ma…
– Avanti – tagliò corto Tancrède, – dimmi cosa c’è…
– Lui è qui.
– Lui chi?
– Il Viandante Nero.
– Non ci credo.
– Te lo giuro. Ha preso una camera – Jean indicò con il pollice l’esterno, intendendo la locanda di suo padre. – Secondo te, avrei rischiato di prendermi un malanno, con questo vento, per venire a dirti una bugia? Cinque minuti fa era giù nella sala comune, che sorbiva una zuppa calda. Vieni – gli fece segno di seguirlo, – fa un po’ paura, però forse ti ascolterà. Forse può aiutarti, come diceva Armand, ti ricordi?
Tancrède si convinse e scattò. Si infilò frettolosamente le