Lo specchio graffiato e il “senso” della depressione
Di Monica Bock
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Info su questo ebook
Monica Bock è nata a Camporosso (IM) il 2 settembre 1960. Maturità classica presso il Liceo-Ginnasio “G. Rossi” di Ventimiglia, città in cui vive tuttora. Nel 1988 si laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università degli Studi di Genova, dove ha conseguito anche la specializzazione in Chirurgia d’urgenza e Pronto Soccorso, il diploma di perfezionamento in Microchirurgia e, nel 2005, la laurea in Giurisprudenza (vecchio ordinamento). Nel 2021 ha conseguito la laurea magistrale in Scienze Politiche indirizzo Relazioni Internazionali presso l’Università Unicusano di Roma. È stata professore a contratto presso i Corsi di laurea in Infermieristica e Fisioterapia dell’Università di Genova. È dirigente medico in ruolo in Chirurgia generale dal 1992, dal 2013 dirigente medico responsabile delle Cure domiciliari e, da quest’anno, della Centrale Operativa Territoriale della Casa di Comunità del Distretto Sanitario Ventimigliese dell’ASL n° 1 imperiese.
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Anteprima del libro
Lo specchio graffiato e il “senso” della depressione - Monica Bock
Monica Bock
Lo specchio graffiato
e il senso
della depressione
© 2023 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma
www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com
ISBN 978-88-306-8146-0
I edizione agosto 2023
Finito di stampare nel mese di agosto 2023
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa
Lo specchio graffiato
e il senso
della depressione
Alla persona
più importante della mia vita:
la mia mamma.
Nuove Voci
Prefazione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov
.
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
Per cominciare...
«Coloro che si limitano a studiare e a trattare gli effetti della malattia sono come persone che si immaginano di poter mandar via l’inverno spazzando la neve sulla soglia della loro porta. Non è la neve che causa l’inverno, ma l’inverno che causa la neve.»
(Paracelso)
Ormai sono più di trent’anni che lavoro come medico, ed ho vissuto di persona, anche in prima linea
, pregi e difetti di questa sanità di cui non si fa che parlare, e mi sono chiesta tante volte se non ci fosse un modo per migliorare una realtà che mi ha spesso deluso.
Ho visto chiudere piccoli ospedali, tagliare
posti letto in nome di una supposta più efficiente riorganizzazione, inventare strutture semplici e complesse, impacchettarle dentro contenitori di cartone chiamati dipartimenti ospedalieri
, progenitori dei più giovani scalpitanti e intraprendenti dipartimenti interaziendali
, propagandati come toccasana di una sanità
che a me è sembrata diventare, invece, sempre più una malata
, e gravemente malata di una malattia progressivamente ingravescente.
In questi anni si sono rincorsi sulla scena nuovi modelli di politiche sanitarie con cui si sono riformate le carriere dei medici, ora non più chiamati assistenti, aiuti o primari, ma tutti diventati dirigenti di I e II livello, dottori tra infermieri-dottori, complicati ingranaggi dell’impresa-ASL, con sempre più ore passate davanti al computer che al letto dei malati.
Ho assistito ai duelli sanità privata versus sanità pubblica e sanità pubblica versus sanità privata, e c’ero anche, al Pronto Soccorso, quando è nato il numero dell’emergenza, il fatidico 118, con l’automedica che doveva risolvere il problema atavico delle code al Pronto Soccorso, sfrecciando per le vie di città e paesi, con spericolati autisti che, con il piede sull’acceleratore, presi dal sacro fuoco dell’urgenza, hanno sfondato anche qualche muro.
L’ho visto andare in tilt, quel sistema dell’emergenza, quando la corsa ai turni in automedica (troppi li volevano, all’inizio, perché pagati con sostanziosi gettoni
extra-orario di servizio) ha arruolato gente che non sapeva cosa fosse un’urgenza, e ha fatto, purtroppo anche alcune povere vittime. Ma le code al Pronto Soccorso continuavano e continuano ad aumentare, senza scampo. E i Pronto Soccorso, mutilati dei reparti indispensabili per la legittimazione ad essere Pronto Soccorso
, pagando la sola colpa di essere incastonati in ospedali considerati troppo piccoli
, sono diventati Punti di Primo Intervento
o PPI... Ora sembrano piuttosto solo punti
, in mezzo a fogli bianchi...
E che dire di giovani medici (quanti