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Il fu Mattia Pascal
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E-book290 pagine4 ore

Il fu Mattia Pascal

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Info su questo ebook

Il fu Mattia Pascal è un celebre romanzo di Luigi Pirandello che apparve dapprima a puntate sulla rivista "Nuova Antologia" nel 1904 e che fu pubblicato in volume nello stesso anno. Fu il primo grande successo di Pirandello, scritto in un momento difficile della sua vita.
Luoghi e tempi non sono molto bene specificati, in quanto la storia è un enorme flashback. Possiamo tuttavia identificare dei luoghi chiave (come la Via Ripetta a Roma, Oneglia (Imperia), Nizza e Montecarlo). Possiamo inoltre immaginare che il periodo sia a cavallo tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento (periodo in cui è vissuto Pirandello), anche se questo romanzo è incredibilmente attuale. La storia non ha una durata precisa però possiamo affermare che vi è un periodo di tempo in cui si svolge il clou della storia (cioè due anni e mezzo circa).
 
LinguaItaliano
Data di uscita29 mar 2017
ISBN9788826043883
Autore

Luigi Pirandello

Luigi Pirandello (1867-1936) was an Italian playwright, novelist, and poet. Born to a wealthy Sicilian family in the village of Cobh, Pirandello was raised in a household dedicated to the Garibaldian cause of Risorgimento. Educated at home as a child, he wrote his first tragedy at twelve before entering high school in Palermo, where he excelled in his studies and read the poets of nineteenth century Italy. After a tumultuous period at the University of Rome, Pirandello transferred to Bonn, where he immersed himself in the works of the German romantics. He began publishing his poems, plays, novels, and stories in earnest, appearing in some of Italy’s leading literary magazines and having his works staged in Rome. Six Characters in Search of an Author (1921), an experimental absurdist drama, was viciously opposed by an outraged audience on its opening night, but has since been recognized as an essential text of Italian modernist literature. During this time, Pirandello was struggling to care for his wife Antonietta, whose deteriorating mental health forced him to place her in an asylum by 1919. In 1924, Pirandello joined the National Fascist Party, and was soon aided by Mussolini in becoming the owner and director of the Teatro d’Arte di Roma. Although his identity as a Fascist was always tenuous, he never outright abandoned the party. Despite this, he maintained the admiration of readers and critics worldwide, and was awarded the 1934 Nobel Prize for Literature.

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    Il fu Mattia Pascal - Luigi Pirandello

    Il fu Mattia Pascal

    Luigi Pirandello

    Prima edizione digitale 2017 a cura di Anna Ruggieri

    I. Premessa

    II.Premessa seconda (filosofica) a mo' di scusa

    III. La casa e la talpa

    IV. Fu così

    V. Maturazione

    VI. Tac tac tac...

    VII. Cambio treno

    VIII. Adriano Meis

    IX. Un po' di nebbia

    X. Acquasantiera e portacenere

    XI. Di sera, guardando il fiume

    XII. L'occhio e Papiano

    XIII. Il lanternino

    XIV. Le prodezze di Max

    XV. Io e l'ombra mia

    XVI. Il ritratto di Minerva

    XVII. Rincarnazione

    XVIII. Il fu Mattia Pascal

    XIX. Conclusione volgarissima.

    I.Premessa

    Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certoera questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo.Ogni qual volta qualcuno de' miei amici o conoscenti dimostravad'aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualcheconsiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevogli occhi e gli rispondevo:

    - Io mi chiamo Mattia Pascal.

    - Grazie, caro. Questo lo so.

    - E ti parpoco?

    Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Maignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo,il non poter più rispondere, cioè, come prima,all'occorrenza:

    - Io mi chiamo Mattia Pascal.

    Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa così poco),immaginando l'atroce cordoglio d'un disgraziato, al quale avvengadi scoprire tutt'a un tratto che... sì, niente, insomma:né padre, né madre, né come fu o come non fu; evorrà pur bene indignarsi (costa anche meno) della corruzionedei costumi, e de' vizii, e della tristezza dei tempi, che di tantomale possono esser cagione a un povero innocente.

    Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non sitratta propriamente di questo. Potrei qui esporre, di fatti, in unalbero genealogico,l'origine e la discendenza della mia famiglia edimostrare come qualmente non solo ho conosciuto mio padre e miamadre, ma e gli antenati miei e le loro azioni, in un lungo decorsodi tempo, non tutte veramente lodevoli.

    E allora?

    Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tantodiverso e strano che mi faccio a narrarlo.

    Fui, per circa due anni, non so se più cacciatore di topiche guardiano di libri nella biblioteca che un monsignorBoccamazza, nel 1803, volle lasciar morendo al nostro Comune. E'benchiaro che questo Monsignore dovette conoscer poco l'indole e leabitudini de' suoi concittadini; o forse sperò che il suolascito dovesse col tempo e con la comodità accendere nel loroanimo l'amore per lo studio. Finora, ne posso renderetestimonianza,non si èacceso: e questo dico in lode de' mieiconcittadini: Del dono anzi il Comune si dimostrò cosìpoco grato al Boccamazza, che non volle neppure erigergli un mezzobusto pur che fosse, e i libri lasciò per molti e molti anniaccatastati in un vasto eumido magazzino, donde poi li trasse,pensate voi in quale stato, per allogarli nella chiesetta fuorimano di Santa Maria Liberale, non so per qual ragione sconsacrata.Qua li affidò, senz'alcun discernimento, a titolo dibeneficio, e come sinecura, a qualche sfaccendato ben protetto ilquale, per due lire al giorno, stando a guardarli, o anche senzaguardarli affatto, ne avesse sopportato per alcune ore il tanfodella muffa e del vecchiume.

    Tal sorte toccò anche a me; e fin dal primo giorno ioconcepii così misera stima dei libri, sieno essi a stampa omanoscritti (come alcuni antichissimi della nostra biblioteca), cheora non mi sarei mai e poi mai messo a scrivere, se, come ho detto,non stimassi davvero strano il mio caso e tale da poter servired'ammaestramento a qualche curioso lettore, che per avventura,riducendosi finalmente a effetto l'antica speranza della buon'animadi monsignor Boccamazza, capitasse in questa biblioteca, a cui iolascio questo mio manoscritto, con l'obbligo però che nessunopossa aprirlo se non cinquant'anni dopo la mia terza, ultima edefinitiva morte.

    Giacché, per il momento (e Dio sa quanto me ne duole), iosono morto, sì, già due volte, ma la prima per errore, ela seconda... sentirete.

    II.Premessa seconda (filosofica) a mo'di scusa

    L'idea o piuttosto, il consiglio di scrivere mi è venutodal mio reverendo amico don Eligio Pellegrinotto, che al presenteha in custodia i libri della Boccamazza, e al quale io affido ilmanoscritto appena sarà terminato, se mai sarà.

    Lo scrivoqua, nella chiesetta sconsacrata, al lume che mi vienedalla lanterna lassù, della cupola; qua, nell'abside riservataal bibliotecario e chiusa da una bassa cancellata di legno apilastrini, mentre don Eligio sbuffa sotto l'incarico che si èeroicamente assunto di mettere un po' d'ordine in questa verababilonia di libri. Temo che non ne verrà mai a capo. Nessunoprima di lui s'era curato di sapere, almeno all'ingrosso, dando disfuggita un'occhiata ai dorsi, che razza di libri quel Monsignoreavesse donatoal Comune: si riteneva che tutti o quasi dovesserotrattare di materie religiose. Ora il Pellegrinotto ha scoperto,per maggior sua consolazione, una varietà grandissima dimaterie nella biblioteca di Monsignore; e siccome i libri furonpresi di qua e dilà nel magazzino e accozzati così comevenivano sotto mano, la confusione è indescrivibile. Si sonostrette per la vicinanza fraquesti libri amicizie oltre ogni direspeciose: don Eligio Pellegrinotto mi ha detto, ad esempio, che hastentato non poco a staccare da un trattato molto licenziosoDell'arte di amar le donne libri tre di Anton Muzio Porro,dell'anno 1571, una Vita e morte di Faustino Materucci, Benedettinodi Polirone, che taluni chiamano beato, biografia edita a Mantovanel 1625. Per l'umidità,le legature de' due volumi si eranofraternamente appiccicate. Notare che nel libro secondo di queltrattato licenzioso si discorre a lungo della vita e delleavventure monacali.

    Molti libri curiosi e piacevolissimi don Eligio Pellegrinotto,arrampicato tutto il giorno su una scala da lampionajo, ha pescatonegli scaffali della biblioteca, Ogni qual volta ne trova uno, lolancia dall'alto, con garbo, sul tavolone che sta in mezzo; lachiesetta ne rintrona; un nugolo di polvere si leva, da cui due otre ragni scappano via spaventati: io accorro dall'abside,scavalcando la cancellata; do prima col libro stesso la caccia airagni su pe'l tavolone polveroso; poi apro il libro e mi metto aleggiucchiarlo.

    Così, a poco a poco, ho fatto il gusto a siffatte letture.Ora don Eligio mi dice che il mio libro dovrebbe esser condotto sulmodello di questi ch'egli va scovando nella biblioteca, avercioè il loro particolar sapore. Io scrollo le spalle e glirispondo che non è fatica per me. E poi altro mitrattiene.

    Tuttosudato e impolverato, don Eligio scende dalla scala e vienea prendere una boccata d'aria nell'orticello che ha trovato modo difar sorgere qui dietro l'abside, riparato giro giro da stecchi espuntoni.

    - Eh, mio reverendo amico, - gli dico io, seduto sulmurello, colmento appoggiato al pomo del bastone, mentr'egli attende alle suelattughe. - Non mi par più tempo, questo, di scriver libri,neppure per ischerzo. In considerazione anche della letteratura,come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solitoritornello: Maledetto sia Copernico!

    - Oh oh oh, che c'entra Copernico! - esclama don Eligio,levandosi su la vita, col volto infocato sotto il cappellaccio dipaglia.

    - C'entra, don Eligio. Perché, quando la Terra nongirava...

    - E dàlli! Ma se ha sempre girato!

    - Non è vero. L'uomo non lo sapeva, e dunque era come senon girasse. Per tanti, anche adesso non gira. L'ho detto l'altrogiorno a un vecchio contadino, e sapete come m'ha risposto? ch'erauna buona scusa per gli ubriachi. Del resto, anche voi scusate, nonpotete mettere in dubbio che Giosuè fermò il Sole. Malasciamo star questo. Io dico che quando la Terra non girava, el'uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva cosìbellafigura e così altamente sentiva di sé e tanto sicompiaceva della propria dignità, credo bene che potesseriuscire accetta una narrazione minuta e piena d'oziosiparticolari. Si legge o non si legge in Quintiliano, come voim'avete insegnato, che la storia doveva esser fatta per raccontaree non per provare?

    - Non nego, - risponde don Eligio, - ma è vero altresìche non si sono mai scritti libri così minuti, anzi minuziosiin tutti i più riposti particolari, come dacché, a vostrodire, la Terra s'è messa a girare.

    - E va bene! Il signor conte si levò per tempo, alleoreotto e mezzo precise... La signora contessa indossò unabito lilla con una ricca fioritura di merletti alla gola...Teresina si moriva di fame... Lucrezia spasimava d'amore... Oh,santo Dio! e che volete che me n'importi? Siamo o non siamo suun'invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su ungranellino di sabbia impazzito che gira e gita e gira, senza saperperché, senza pervenir mai a destino, come se ci provassegusto a girar così, per farci sentire ora un po' più dicaldo, ora un po' più di freddo, e per farci morire -spesso con la coscienza d'aver commesso una sequela di piccolesciocchezze - dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico,don Eligio mio ha rovinato l'umanità, irrimediabilmente. Ormainoi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezionedell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che nientenell'Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni eche valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico dellenostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità?Storie di vermucci ormai le nostre. Avete letto di quel piccolodisastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina, stanca digirare, come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto unpiccolo moto d'impazienza,e ha sbuffato un po' di fuoco per unadelle tante sue bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quellaspecie di bile. Forse la stupidità degli uomini che non sonostati mai così nojosi come adesso. Basta. Parecchie migliajadi vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parlapiù?

    Don Eligio Pellegrinotto mi fa però osservare che perquanti sforzi facciamo nel crudele intento di strappare, didistruggere le illusioni che la provvida natura ci aveva create afin di bene, non ci riusciamo. Per fortuna, l'uomo si distraefacilmente.

    Questo è vero. Il nostro Comune, in certe notti segnate nelcalendario, non fa accendere i lampioni, e spesso - se ènuvolo - ci lascia al bujo.

    Il che vuol dire, in fondo, che noi anche oggi crediamo che laluna non stia per altro nel cielo, che per farci lume di notte,come il sole di giorno, e le stelle per offrirci un magnificospettacolo. Sicuro. E dimentichiamo spesso e volentieri di essereatomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda,e siamocapaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci dicerte cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello chesiamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili.

    Ebbene, in grazia di questa distrazione provvidenziale, oltreche per la stranezza del mio caso, io parlerò di me, ma quantopiù brevemente mi sarà possibile, dando cioèsoltanto quelle notizie che stimerò necessarie.

    Alcune di esse, certo, non mi faranno molto onore; ma io mitrovo ora in una condizione così eccezionale, che possoconsiderarmi come già fuori della vita, e dunque senzaobblighi e senza scrupoli di sorta.

    Cominciamo.

    III.La casa e la talpa

    Ho detto troppo presto, in principio, che ho conosciuto miopadre. Non l'ho conosciuto. Avevo quattr'anni e mezzo quand'eglimorì. Andato con unsuo trabaccolo in Corsica, per certinegozii che vi faceva, non torno più, ucciso da unaperniciosa, in tre giorni, a trentotto anni. Lasciò tuttavianell'agiatezza la moglie e i due figli: Mattia (che sarei io, efui) e Roberto, maggiore di me di due anni.

    Qualche vecchio del paese si compiace ancora di dare a credereche la ricchezza di mio padre (la quale pure non gli dovrebbepiù dar ombra, passata com'è da un pezzo in altre mani)avesse origini - diciamo così - misteriose.

    Vogliono che se la fosseprocacciata giocando a carte, aMarsiglia, col capitano d'un vapore mercantile inglese, il quale,dopo aver perduto tutto il denaro che aveva seco, e non dovevaesser poco, si era anche giocato un grosso carico di zolfoimbarcato nella lontana Sicilia perconto d'un negoziante diLiverpool (sanno anche questo! e il nome?), d'un negoziante diLiverpool, che aveva noleggiato il vapore; quindi, perdisperazione, salpando, s'era annegato in alto mare. Così ilvapore era approdato a Liverpool, alleggerito anchedel peso delcapitano. Fortuna che aveva per zavorra la malignità de' mieicompaesani.

    Possedevamo terre e case. Sagace e avventuroso, mio padre nonebbe mai pe' suoi commerci stabile sede: sempre in giro con quelsuo trabaccolo, dove trovava meglio e piùopportunamentecomprava e subito rivendeva mercanzie d'ogni genere; e perchénon fosse tentato a imprese troppo grandi e rischiose, investiva amano a mano i guadagni in terre e case, qui,nel proprio paesello,dove presto forse contava di riposarsi negliagi faticosamenteacquistati, contento e in pace tra la moglie e i figliuoli.

    Così acquistò prima la terra delle Due Riviere riccadi olivi e di gelsi, poi il podere della Stìa anch'essoriccamente beneficato e con una bella sorgiva d'acqua, che fu presaquindi per il molino; poi tutta la poggiata dello Sperone ch'era ilmiglior vigneto della nostra contrada, e infine San Rocchino, oveedificò una villa deliziosa. In paese, oltre alla casa in cuiabitavamo, acquistò due altre case e tutto quell'isolato,oraridotto e acconciato ad arsenale.

    La sua morte quasi improvvisa fu la nostra rovina. Mia madre,inetta al governo dell'eredità, dovette affidarlo a uno che,per aver ricevuto tanti beneficii da mio padre fino a cangiar distato, stimo dovesse sentir l'obbligo di almeno un po' digratitudine, la quale, oltre lo zelo e l'onestà, non glisarebbe costata sacrifizii d'alcuna sorta, poiché eralautamente remunerato,

    Santa donna, mia madre! D'indole schiva e placidissima, avevacosì scarsa esperienza della vita edegli uomini! A sentirlaparlare, pareva una bambina. Parlava con accento nasale e ridevaanche col naso, giacché ogni volta, come si vergognasse diridere, stringeva le labbra. Gracilissima di complessione, fu, dopola morte di mio padre, sempre malfermain salute; ma non silagnò mai de' suoi mali, né credo se ne infastidisseneppure con se stessa, accettandoli, rassegnata, come unaconseguenza naturale della sua sciagura. Forse si aspettava dimorire anch'essa, dal cordoglio, e doveva dunque ringraziareIddioche la teneva in vita, pur così tapina e tribolata, per ilbene dei figliuoli.

    Aveva per noi una tenerezza addirittura morbosa, piena dipalpiti e di sgomento: ci voleva sempre vicini, quasi temesse diperderci, e spesso mandava in giro le serve perla vasta casa,appena qualcuno di noi si fosse un po' allontanato.

    Come una cieca, s'era abbandonata alla guida del marito;rimastane senza, si sentì sperduta nel mondo. E non uscìpiù di casa, tranne le domeniche, di mattina per tempo, perandare a messanella prossima chiesa, accompagnata dalle due vecchieserve, ch'ella trattava come parenti. Nella stessa casa, anzi, sirestrinse a vivere in tre camere soltanto, abbandonando le moltealtre alle scarse cure delle serve e alle nostre diavolerie.

    Spirava,in quelle stanze, da tutti i mobili d'antica foggia,dalle tende scolorite, quel tanfo speciale delle cose antiche,quasi il respiro d'un altro tempo; e ricordo che più d'unavolta io mi guardai attorno con una stranacosternazione che miveniva dalla immobilità silenziosa di quei vecchi oggetti datanti anni lì senz'uso, senza vita.

    Fra coloro che più spesso venivano a visitar la mamma erauna sorella di mio padre, zitellona bisbetica, con un pajo d'occhida furetto, bruna e fiera. Si chiamava Scolastica.Ma si tratteneva,ogni volta, pochissimo, perché tutt'a un tratto, discorrendo,s'infuriava, e scappava via senza salutare nessuno. Io, da ragazzo,ne avevo una gran paura. La guardavo con tanto d'occhi,specialmente quando la vedevo scattare in piedi su le furie e lesentivo gridare, rivolta a mia madre e pestando rabbiosamente unpiede sul pavimento:

    - Senti il vuoto? La talpa! la talpa!

    Alludeva al Malagna, all'amministratore che ci scavava soppiattola fossa sotto i piedi.

    Zia Scolastica (l'ho saputo dipoi) voleva a tutti i costi chemia madre riprendesse marito. Di solito, le cognate non hanno diqueste idee né dànno di questi consigli. Ma ella aveva unsentimento aspro e dispettoso della giustizia; e più perquesto, certo, che per nostro amore, non sapeva tollerare chequell'uomo ci rubasse così, a man salva. Ora, data l'assolutainettitudine e la cecità di mia madre, non ci vedeva altrorimedio, che un secondo marito. E lo designava anche in personad'un pover'uomo, che si chiamava Gerolamo Pomino.

    Costui era vedovo, con un figliuolo, che vive tuttora e sichiama Gerolamo come il padre: amicissimo mio, anzi più cheamico, come dirò appresso. Fin da ragazzo veniva col padre incasa nostra, ed era la disperazione mia e di mio fratelloBerto.

    Il padre, dagiovane, aveva aspirato lungamente alla mano di ziaScolastica, che non aveva voluto saperne, come non aveva volutosaperne, del resto, di alcun altro; e non già perché nonsi fosse sentita disposta ad amare, ma perché il piùlontano sospetto che l'uomo dalei amato avesse potuto anche colsolo pensiero tradirla, le avrebbe fatto commettere - diceva - undelitto. Tutti finti, per lei, gli uomini, birbanti e traditori.Anche Pomino? No, ecco: Pomino, no. Ma se n'era accorta troppotardi. Di tutti gli uominiche avevano chiesto la sua mano, e chepoi si erano ammogliati, ella era riuscita a scoprire qualchetradimento, e ne aveva ferocemente goduto. Solo di Pomino, niente;anzi il pover'uomo era stato un martire della moglie.

    E perché dunque, ora, non lo sposava lei ? Oh bella,perché era vedovo! era appartenuto a un'altra donna, allaquale forse, qualche volta, avrebbe potuto pensare. E poiperché... via! si vedeva da cento miglia lontano, nonostantela timidezza: era innamorato, era innamorato... s'intende di chi,quel povero signor Pomino!

    Figurarsi se mia madre avrebbe mai acconsentito. Le sarebbeparso un vero e proprio sacrilegio. Ma non credeva forse neppure,poverina, che zia Scolastica dicesse sul serio; e rideva in quelsuo modo particolare alle sfuriate della cognata, alle esclamazionidel povero signor Pomino, che si trovava lì presente a quellediscussioni, e al quale la zitellona scaraventava le lodi piùsperticate.

    M'immagino quante volte egli avrà esclamato, dimenandosi sula seggiola, come su unarnese di tortura:

    - Oh santo nome di Dio benedetto!

    Omino lindo, aggiustato, dagli occhietti ceruli mansueti, credoche s'incipriasse e avesse anche la debolezza di passarsi un po' dirossetto, appena appena, un velo, su le guance: certo si compiacevad'aver conservato fino alla sua età i capelli, che sipettinava con grandissima cura, a farfalla, e si rassettavacontinuamente con le mani.

    Io non so come sarebbero andati gli affari nostri, se mia madre,non certo per sé ma in considerazione dell'avveniredei suoifigliuoli, avesse seguìto il consiglio di zia Scolastica esposato il signor Pomino. E' fuor di dubbio però che peggio dicome andarono, affidati al Malagna (la talpa!), non sarebberopotuti andare.

    Quando Berto e io fummo cresciuti, gran parte degli averinostri, è vero, era andata in fumo; ma avremmo potuto almenosalvare dalle grinfie di quel ladro il resto che, se non piùagiatamente, ci avrebbe certo permesso di vivere: senza bisogni.Fummo due scioperati; non ci volemmo dar pensiero dinulla,seguitando, da grandi, a vivere come nostra madre, dapiccoli, ci aveva abituati.

    Non aveva voluto nemmeno mandarci a scuola. Un tal Pinzone fu ilnostro ajo e precettore. Il suo vero nome era Francesco, oGiovanni, Del Cinque; ma tutti lo chiamavano Pinzone, ed egli cis'era già tanto abituato che si chiamava Pinzone dasé.

    Era d'una magrezza che incuteva ribrezzo; altissimo di statura;e più alto, Dio mio, sarebbe stato, se il busto, tutt'a untratto quasi stanco di tallir gracile in sù, non gli sifossecurvato sotto la nuca in una discreta gobbetta, da cui ilcollo pareva uscisse penosamente, come quel d'un pollo spennato,con un grosso nottolino protuberante, che gli andava sù egiù. Pinzone si sforzava spesso di tener tra i denti lelabbra, come per mordere, castigare enascondere un risolinotagliente, che gli era proprio; ma lo sforzo in parte era vano,perché questo risolino, non potendo per le labbra cosìimprigionate, gli scappava per gli occhi, più acuto e beffardoche mai.

    Molte cose con quegliocchietti egli doveva vedere nella nostracasa, che né la mamma né noi vedevamo. Non parlava, forseperché non stimava dover suo parlare, o perché - com'ioritengo più probabile - ne godeva in segreto,velenosamente.

    Noi facevamo di lui tutto quello che volevamo; egli ci lasciavafare; ma poi, come se volesse stare in pace con la propriacoscienza, quando meno ce lo saremmo aspettato, ci tradiva.

    Un giorno, per esempio, la mamma gli ordinò di condurci inchiesa; era prossima la Pasqua, e dovevamo confessarci. Dopo laconfessione, una breve visitina alla moglie inferma del Malagna, esubito a casa. Figurarsi che divertimento! Ma, appena in istrada,noi due proponemmo a Pinzone una scappatella: gli avremmo pagato unbuon litro di vino, purché lui, invece che in chiesa e dalMalagna, ci avesse lasciato andare alla Stìa in cerca di nidi.Pinzone accettò felicissimo, stropicciandosi le mani, con gliocchi sfavillanti. Bevve; andammo nel podere; fece il matto con noiper circa tre ore, ajutandoci ad arrampicarci sugli alberi,arrampicandocisi egli stesso. Ma alla sera, di ritorno a casa,appena la mamma gli domandò se avevamo fatto la nostraconfessione e la visita al Malagna:

    - Ecco, le dirò... - rispose, con la faccia più tostadel mondo; e le narrò per filo e per segno quanto avevamofatto.

    Non giovavano a nulla le vendette che di questi suoi tradimentinoi ci prendevamo. Eppure ricordo che non eran da burla. Una sera,per esempio, io e Berto, sapendo che egli soleva dormire, seduto sula cassapanca, nella saletta d'ingresso, in attesa della cena,saltammo furtivamente dal letto, in cui ci avevano messo percastigo prima dell'ora solita, riuscimmo a scovare una canna distagno, da serviziale, lunga due palmi, la riempimmo d'acquasaponata nella vaschetta del bucato; e, così armati, andammocautamente a lui, gli accostammo la canna alle nari - e zifff! -.Lo vedemmo balzare fin sotto al soffitto.

    Quanto con un siffatto precettore dovessimo profittar nellostudio, non sarà difficile immaginare.

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