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Don Chisciotte della Mancia
Don Chisciotte della Mancia
Don Chisciotte della Mancia
E-book1.345 pagine25 ore

Don Chisciotte della Mancia

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Info su questo ebook

Una coppia sgangherata e in cerca di assurde e comiche avventure, in cui il sogno utopico del “cavaliere” s’accompagna alla più cruda realtà dello scudiero: il don Chisciotte racconta, difatti, il tramonto d’un epoca - il secolo d’oro - imbastita di vecchi e ingialliti ideali, nonché l’inadeguatezza della nobiltà nel far fronte al nuovo che sorge tra le ceneri d’un tempo andato. Col capolavoro di Cervantes (pubblicato in due tempi, nel 1605 e nel 1615), si dà effettivo inizio a una nuova (moderna) letteratura, in cui trova, forse per la prima volta, presa e vigore lo humor. Eppure, resta un fondo di amarezza, una presa di coscienza finale che, seppur mediante la leggerezza e il riso di avventure e obiettivi spropositati, passa dall’idalgo al lettore: il divario tra immaginazione e realtà dei fatti, tra il sogno d’un uomo e la sua difficile realizzazione. Il Don Chisciotte è un capolavoro e, come tale, racchiude in sé (a suo modo) l’essenza e la verità d’ogni uomo.
LinguaItaliano
EditoreCrescere
Data di uscita23 dic 2018
ISBN9788883378232
Autore

Miguel de Cervantes

Miguel de Cervantes (1547-1616) was a Spanish writer whose work included plays, poetry, short stories, and novels. Although much of the details of his life are a mystery, his experiences as both a soldier and as a slave in captivity are well documented; these events served as subject matter for his best-known work, Don Quixote (1605) as well as many of his short stories. Although Cervantes reached a degree of literary fame during his lifetime, he never became financially prosperous; yet his work is considered among the most influential in the development of world literature.

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    Anteprima del libro

    Don Chisciotte della Mancia - Miguel de Cervantes

    LXXII

    LIBRO I

    Prologo

    Sfaccendato lettore, potrai credermi senza che te ne faccia giuramento, ch’io vorrei che questo mio libro, come figlio del mio intelletto, fosse il più bello, il più galante ed il più ragionevole che si sia mai potuto immaginare; ma non mi fu dato d’alterare l’ordine della natura secondo la quale ogni cosa ne produce delle altre soltanto simili a sé. Che poteva mai generare lo sterile e incolto mio ingegno, se non se la storia d’un figlio secco, grossolano, fantastico e pieno di pensieri, vari fra loro, né da alcun altro immaginati finora? E ben ciò si conviene a colui che fu generato in un carcere, dove ogni disagio domina, e dove ha propria sede ogni sorta di rumore malinconico. Il riposo, un luogo delizioso, l’amenità delle campagne, la serenità dei cieli, il mormorar delle fonti, la tranquillità dello spirito, sono cose efficacissime a render feconde le più sterili Muse, affinché diano alla luce parti che riempiano il mondo di meraviglia e di gioia. Avviene, talvolta, che un padre abbia un figliuolo deforme e senza alcuna grazia, e che l’amore gli metta agli occhi una benda, sicché non ne vede i difetti, anzi li ha per frutti di buon criterio e per qualità, e ne parla con gli amici come fossero indicatori di intelligenza e di grazia . Io però, benché sembri esser padre, sono padrino di don Chisciotte, non voglio né seguir la corrente, né porgerti suppliche, quasi con le lacrime agli occhi, come fanno gli altri, o lettore carissimo, affinché tu perdoni e dissimuli le mancanze che scorgerai in questo mio figlio. E ciò tanto maggiormente perché non gli appartieni come parente o amico, ed hai un’anima tua nel corpo tuo, ed il tuo libero arbitrio come ogni altro, e te ne stai in casa tua, della quale sei padrone come un principe dei suoi tributi, e ti è noto che si dice comunemente: sotto il mio mantello io ammazzo il re. Tutto ciò ti disobbliga e ti scioglie da ogni umano ricordo, e potrai spiegar sulla mia storia il tuo sentimento senza riserva, e senza timore d’essere condannato per biasimarla, o d’averne ricompensa se la celebrerai.

    Vorrei per altro, o lettor mio, offrirtela; pulita e nuda, senza l’ornamento di un prologo, e spoglia dell’innumerabile caterva dei soliti sonetti, epigrammi, o elogi che sogliono essere posti in fronte ai libri; e ti so dire che sebbene mi sia costato qualche travaglio il comporla, nulla mi diede tanto fastidio quanto il fare questa prefazione che vai leggendo. Più volte diedi di piglio alla penna per scriverla, e più volte mi cadde di mano per non sapere come darle principio. Standomi un giorno dubbioso con la carta davanti, la penna nell’orecchio, il gomito sul tavolino, e la mano alla guancia, pensando a quello che dovessi dire, ecco entrar d’improvviso un mio amico, uomo di garbo e di fino discernimento, il quale, vedendomi tutto assorto nei miei pensieri, me ne domandò la ragione. Io non gliela tenni celata, ma gli dissi che stavo studiando il prologo da mettere in fronte alla storia di don Chisciotte, e che vi trovavo tanta difficoltà, e che m’ero deliberato di non fare il prologo, e quindi anche di non far vedere la luce del giorno alle prodezze di un così nobile cavaliere.

    «Come volete voi», aggiunsi io, che non mi confonda il pensare a tutto ciò che ne dirà quell’antico legislatore che si chiama volgo, quando vedrà che, dopo così lungo tempo da che dormo nel silenzio della dimenticanza, ora che ho tanti anni in groppa, me ne esco fuori con una leggenda secca come un giunco marino, spoglia d’invenzione, misera di stile, scarsa di concetti, mancante di ogni erudizione e dottrina, senza postille al margine, e senz’annotazioni alla fine del libro, di cui vedo ricche le altre opere, sebbene favolose e profane, e zeppe di sentenze di Aristotele, di Platone, e di tutto lo sciame dei filosofi, onde ne consegue che restano meravigliati i lettori, e tengono gli autori nel più gran conto di dottrina, di erudizione, di eloquenza? Citando la divina Scrittura si fanno credere altrettanti santi Tommasi e nuovi Dottori della Chiesa, conservando in ciò un così ingegnoso decoro che in una riga ti rappresentano un innamorato perduto, e nell’altra ti fanno un sermoncino cristiano, ch’è una consolazione l’udirli o il leggerli! Deve essere spoglio di tutto ciò il mio libro, poiché non ho che da citare nel margine, o che annotare nel finale, né so di quali autori mi valga il comporlo; e così non posso affibbiarveli, come da tutti si pratica, per le lettere dell’abbiccì, cominciando con Aristotele, e terminando con Senofonte e Zoilo o Zeusi, benché l’uno sia stato un maldicente, l’altro un pittore. Ha pure, il libro mio, da mancare di sonetti al principio, almeno di quelli composti da duchi, marchesi, conti, vescovi, dame o poeti celebratissimi; benché se pregassi di ciò due o tre miei amici bottegai, io so che me li darebbero, e tali da non poter essere superati da quelli dei più celebri della nostra Spagna. Insomma, signore e amico mio», aggiunsi, «io mi risolvo a lasciar il signor don Chisciotte sepolto negli archivi della Mancia, finché il cielo non faccia comparire chi lo adorni delle tante qualità che gli mancano, trovandomi io incapace di rimediarvi, una volta attestata la mia insufficienza e la mia scarsa erudizione, ed anche perché sono naturalmente infingardo e lento nell’indagare autori che dicano quello che so dire da me medesimo senza la lor dettatura. Di qui ha origine la sospensione e l’umore in cui mi trovaste; e ben deve bastare per mettermi a tale stato tutto ciò che da me avete inteso».

    All’udir queste cose, il mio amico si diede una palmata nella fronte, proruppe in un alto scoppio di risate, e disse: «Per bacco, fratello, oggi mi levo da un inganno in cui son vissuto da che vi conosco; giacché vi ho tenuto sempre per uomo giudizioso e prudente in tutte le vostre azioni, ed ora m’accorgo, che ne siete lontano quanto il cielo dalla terra. Com’è mai possibile che cose di così poco momento e di così facile rimedio abbiano in voi tal portata da confondere e sviare un ingegno così maturo com’è il vostro, a cui così agevole riesce il togliere e superare molto maggiori difficoltà? Ciò deriva, in fede mia, non da mancanza di abilità, ma da infingardaggine, e da poco buon raziocinio. Volete la prova di ciò? State attento e vedrete come, in un aprire e chiuder d’occhio, io svento tutte le vostre difficoltà, e vengo a rimediare a tutte le mancanze dalle quali dite di essere tenuto sospeso e avvilito per modo che vi rifiutate di dare al mondo il vostro famosissimo don Chisciotte, lume e specchio di tutta la errante cavalleria».

    «Or via», lo interruppi sentendo le sue parole, «in qual modo pensate voi di riempire il vuoto del mio timore e di ridurre a chiarezza il caos della mia confusione?» Al che, egli aggiunse: «Quanto al primo imbarazzo in cui vi trovate a ragione dei sonetti, epigrammi ed elogi che mancano in fronte al vostro libro, e ch’è di mestieri che portino i nomi di personaggi gravi e titolati, è facile il rimediare. Prendetevi voi stesso la briga di comporli; poi battezzateli voi medesimo col nome che più vi piace, attribuendoli al prete Gianni dell’India od all’imperatore di Trebisonda, i quali so essere diffusa opinione che abbiano avuto il vanto di poeti celebratissimi. Che se ciò non è vero, e sorgesse per avventura qualche pedante o baccelliere, che mordendovi le calcagna impugnasse tale verità, non per questo a voi, convinto di menzogna, taglierebbero la mano che ha segnato nomi cotanto illustri. E quanto al citare in margine libri ed autori ai quali attribuir le sentenze e i detti che vi piacesse d’inserire nella vostra storia, basta che voi vi facciate piacere alcune sentenze che sapete a memoria, o che vi costi poca fatica il cercarle. Per esempio, trattando di libertà e schiavitù:

    Non bene pro toto libertas venditur auro;

    ed al margine citate Orazio, o chi l’ha detto. Se, invece, parlerete del potere della morte:

    Pallida mors æquo pulsat pede

    Pauperum tabernas regumque turres.

    Se dell’amicizia, o dell’amore che il Signore comanda di portare ai nemici, eccovi la divina Scrittura che vi somministra le parole di Dio stesso:

    Ego autem dico vobis: Diligite inimicos vestros.

    Trattando de’ cattivi pensieri, ricorrete al Vangelo:

    De corde exeunt cogitationes malæ.

    Se dell’incostanza degli amici, Catone vi somministrerà il suo distico:

    Donec eris felix, multos numerabis amicos;

    Tempora si fuerint nubila, solus eris.

    E latinizzando in tal maniera, od in tal altra, sarete tenuto per grammatico, ciò che procura, oggigiorno, non poco onore e guadagno. Per ciò che spetta alle annotazioni da porsi al fine del libro, potete sbarazzarvene a questo modo. Se nominate nella vostra opera qualche gigante, supponetelo il gigante Golia: questo solo (che poco vi costa) v’apre il campo ad un’ampia annotazione dicendo:

    Il Gigante Golia fu un Filisteo il quale venne ucciso con un gran colpo di pietra dal pastore Davide nella valle di Tèrebinto, secondo ciò che si legge nel libro dei Re nel capitolo ove vedrete che questo sta scritto.

    Per mostrarvi, poi, uomo erudito nelle umane lettere, ed anche cosmografo, fate in modo che nella vostra storia si nomini il fiume Tago, e qui si aprirà il campo ad un’altra famosa annotazione dicendo:

    Al fiume Tago diede il nome un re delle Spagne, nasce nel tal luogo, e muore nel mare Oceano, bagnando le mura della famosa città di Lisbona, e si crede abbia le arene d’oro, ecc.

    Dovendo parlar di ladroni, vi dirò la storia di tanti, ma celebrati dal maggior numero: che se tanto vi riuscirà di farlo, non avrete conseguito poco».

    Io me ne stavo ascoltando con profondo silenzio ciò che mi dicea l'amico, e tanto poterono sopra di me le sue ragioni che, senza altro dire, gliele menai tutte buone: anzi le feci servire di fondamento a questo prologo, nel quale riscontrerai, o delicato lettore, il retto discernimento dell’amico mio, e la buona ventura nell’essermi a questi tempi avvenuto in un così utile consigliere quando mi trovavo irrisoluto e indeciso. Tu n’avrai certo gran compiacenza nel leggere, così ingenua e così pura, la storia del famoso don Chisciotte della Mancia, il quale, per la fama che corre fra tutti gli abitanti del distretto del Campo di Montiello, fu l’innamorato più casto, ed il più valente cavaliere, che da tanti anni in qua comparisse in que’ dintorni; né io voglio esagerarti il servigio che ti fo nel darti a conoscere sì celebre e onorato campione. Bramo però d’incontrare il tuo gradimento per la conoscenza che ti farò fare anche del famoso Sancio Panza suo scudiere, nel quale, a mio avviso, troverai congiunte tutte le disgrazie scudierili che s’incontrano sparse nella caterva degli inutili libri di cavalleria. Dio ti conservi in salute, e non mi porre in dimenticanza. Sta’ sano.

    CAPITOLO I

    Della condizione e delle operazioni del rinomato idalgo don Chisciotte della Mancia

    Viveva, non molto lontano, in una terra della Mancia che non voglio ricordare , un idalgo, di quelli che tengono lance nella rastrelliera, targhe antiche, un magro ronzino e un cane da caccia. Egli consumava i tre quarti della sua rendita per mangiare piuttosto bue che castrato, carne con salsa il più delle sere, il sabato minuzzoli di pecore mal capitate, lenticchie il venerdì, con l’aggiunta di qualche piccioncino nelle domeniche. Consumava il resto per ornarsi, nei giorni di festa, con un saio di lana scelta, calzoni di velluto e pantofole pur sempre di velluto; e, nel rimanente della settimana, faceva il grazioso portando un vestito di rascia della più fine.

    Una serva, d’oltre quarant’anni, ed una nipote che venti non ne compiva convivevano con lui, ed anche un servitore da città e da campagna, che sapeva così bene sellare il cavallo come potare le viti. Toccava egli l’età di cinquant’anni; forte di aspetto, robusto, asciutto di viso; si alzava di buon mattino, ed era amico della caccia. Vogliono alcuni che portasse il soprannome di Chisciada o Chesada, nella qual cosa discordano gli autori che trattarono delle sue imprese; ma per verosimili congetture si può presupporre che fosse denominato Chisciana; il che poco cambia il nostro proposito; e basta soltanto che nella relazione delle sue gesta non ci scostiamo un punto dal vero.

    Importa, bensì, di sapere che negli intervalli di tempo nei quali era ozioso (ch’erano il più dell’anno), si applicava alla lettura dei libri di cavalleria con una predilezione così dichiarata e così grande compiacenza che obliò quasi interamente l’esercizio della caccia ed anche il governo delle domestiche cose: anzi la curiosità sua, giunta alla mania d’erudirsi compiutamente in tale istituzione, lo indusse a espropriarsi di non pochi dei suoi poderi a fine di comperare e di leggere libri di cavalleria. Di questi ne recò egli a casa sua quanti gli vennero alle mani; ma nessuno gli parve tanto degno d’essere apprezzato quanto quelli composti dal famoso Feliciano de Silva; la nitidezza della sua prosa e le sue artificiose orazioni gli sembravano altrettante perle, soprattutto, poi, quando s’imbatteva in certe svenevolezze amorose, o cartelli di sfida, in molti dei quali trovava scritto: La ragione della nessuna ragione che alla mia ragione vien fatta, rende così debole la mia ragione che con ragione mi dolgo della vostra bellezza.

    E similmente allorché leggeva: Gli alti cieli che la divinità vostra vanno divinamente fortificando coi loro influssi, vi fanno meritevole del merito che meritatamente attribuito viene alla vostra grandezza.

    Con questi e simili ragionamenti il povero cavaliere usciva di senno. Più non dormiva per condursi a penetrarne il significato che lo stesso Aristotele non avrebbe mai potuto decifrare, se a tale unico oggetto fosse ritornato tra i vivi. Non gli andavano affatto a sangue le ferite che dava e riceveva don Belianigi, pensando che di buon diritto nella faccia e in tutta la persona avessero ad essergli rimaste impresse e vestigia e cicatrici, per quanto accuratamente foss’egli stato guarito; ma nondimeno lodava altamente l’autore perché chiudeva il suo libro con la promessa di quella interminabile avventura. Fu anche stimolato, le molte volte, dal desiderio di dar di piglio alla penna per compiere quella promessa; e senz’altro l’avrebbe fatto giungendo allo scopo propostosi dal suo modello; se distratto non l’avessero più gravi ed incessanti pensieri. Ebbe a questionar più volte col curato della sua terra (uomo di lettere e addottorato in Siguenza) qual fosse stato miglior cavaliere o Palmerino d’Inghilterra, o Amadigi di Gaula; era peraltro d’avviso mastro Nicolò, barbiere di quel paese, che niuno al mondo contender potesse il primato al cavaliere del Febo, e che se qualcuno poteva competer con lui, questi era solo don Galeorre fratello di Amadigi di Gaula, da che nulla fu mai d’inciampo alle sue ardite imprese; e non era sì permaloso e piagnone come il fratello, a cui poi non cedeva sicuramente in valore. In sostanza quella sua lettura lo portò siffattamente all’entusiasmo da non distinguere più la notte dal dì, il dì dalla notte; di modo che per il troppo leggere e per il poco dormire gli s’indebolì il cervello, e addio buon giudizio. Altro non si presentava alla sua immaginazione che incantamenti, contese, battaglie, disfide, ferite, concetti affettuosi, amori, affanni ed impossibili avvenimenti: e a tal eccesso pervenne lo stravolgimento della fantasia, che nessuna storia del mondo gli pareva più vera di quelle ideate invenzioni che andava leggendo. Sosteneva egli che il Cid Ruy Diaz era stato bensì valente cavaliere, ma che doveva ceder la palma all’altro dall’ardente spada, il quale d’un solo manrovescio aveva tagliati a metà due feroci e smisurati giganti. Più gli piaceva Bernardo del Carpio per aver egli ucciso a Roncisvalle l’incantato Roldano, valendosi dell’astuzia d’Ercole allorché soffocò fra le sue braccia Anteo, figlio della Terra. Celebrava, poi, il gigante Morgante, perché discendendo egli da quella gigantesca genealogia, che non dà che scostumati e superbi, pure egli si porgeva solo affabile e assai ben creato. Dava però a Rinaldo di Montalbano, sopra ad ogni altro, la preferenza, e segnatamente quando lo vedeva uscire dal suo castello, a far man bassa, di quanto gli capitasse tra le mani, ad esempio, derubando in Aglienda quell’idolo di Maometto che era tutto d’oro ( secondo che riferisce la sua storia). Avrebbe egli sacrificata la sua serva, e di vantaggio pur la nipote, alla smania che teneva d’ammaccare a furia di calci il traditor Ganelone.

    Infine, perduto del tutto il giudizio, si ridusse al più strano ragionamento che si sia giammai dato al mondo. Gli parve conveniente e necessario per l’esaltamento del proprio onore e per il servizio della sua repubblica di farsi cavaliere errante, e con armi proprie e cavallo scorrere tutto il mondo cercando avventure, ed occupandosi negli esercizi tutti dei quali aveva fatto lettura. Il riparare qualunque genere di torti, e l’esporre sé stesso ad ogni maniera di pericoli per condursi a glorioso fine, dovevano eternare fastosamente il suo nome; e figuravasi il pover’uomo d’essere coronato per lo meno imperatore di Trebisonda, in merito del valore del suo braccio. Immerso in tali deliziosi pensieri, e alzato all’estasi dalla straordinaria soddisfazione che vi trovava, si diede la più gran fretta onde porli a esecuzione. Si applicò, prima di tutto, a far lucenti alcune armi di cui si erano valsi i bisavoli suoi, e che coperte di ruggine giacevano dimenticate in un cantone: le ripulì e le pose in assetto il meglio che gli fu possibile; poi s’accorse ch’era in esse una essenziale mancanza, perché, invece della celata con visiera, vi era solo un morione; ma supplì a ciò la sua industria, facendo di cartone una mezza celata, che unita al morione pigliò l’apparenza di celata intera. Egli è vero che per metterne a prova la solidità trasse la spada, e vi diede due colpi, col primo dei quali, in un momento solo, distrusse il lavoro che l’aveva tenuto occupato una settimana; né gli andò allora a grado la facilità con cui la ridusse in pezzi; ma ad oggetto che non si rinnovasse un tale disastro, la rifece, consolidandola interiormente con cerchietti di ferro, e restò così soddisfatto della sua doppiezza che, senza metterla a nuovo cimento rinnovando la prova di prima, la ebbe in conto di celata con visiera di finissima tempra.

    Si recò, da poi, a visitare il suo ronzino e, benché avesse più quarti assai d’un popone e più malanni che il cavallo del Gonella – che tantum pellis et ossa fuit – gli parve che non gli si eguagliassero né il Babieca el Cid, né il Bucefalo di Alessandro. Impiegò quattro giorni nell’immaginare con qual nome dovesse chiamarlo, e diceva egli a sé stesso che fosse troppo sconveniente che un cavallo di cavaliere sì celebre non portasse un nome famoso; e andava perciò ruminando per trovarne uno che spiegasse ciò che era stato prima di servire a un cavaliere errante, e quello che andava a diventare. Era ben ragionevole che cambiando stato il padrone, mutasse nome anche la bestia, e che gliene andasse applicato uno celebre e sonoro; e quindi dopo aver molto fra sé proposto, cancellato, levato, aggiunto, disfatto e tornato a rifare sempre fantasticando, stabilì finalmente di chiamarlo Ronzinante, nome, a quanto gli parve, elevato e pieno di una sonorità che indicava il passato esser suo ronzino, e ciò ch’era per diventare, vale a dire, il più cospicuo tra tutti i ronzini del mondo.

    Stabilito con tanta sua soddisfazione il nome al cavallo, s’applicò fervorosamente a determinare il proprio, nel che spese altri otto giorni, a capo dei quali si chiamò don Chisciotte. Da ciò, come fu detto già prima, trassero argomento gli autori di questa verissima storia, che debba essa chiamarsi indubitabilmente Chisciada e non Chesada, come ad altri piacque denominarla. Si risovvenne il nostro futuro eroe che il valoroso Amadigi non si era limitato a chiamarsi Amadigi semplicemente, ma che affibbiato vi aveva il nome del regno e della patria, per sua più grande celebrità, chiamandosi Amadigi di Gaula. Dietro sì autorevole esempio, come buon cavaliere, decise d’accoppiare al proprio nome quello pur della patria, e chiamarsi don Chisciotte della Mancia, con che, a parer suo, spiegava più a vivo il lignaggio e la patria, e le dava onore col prendere da lei il soprannome.

    Rese di già lucide l’arme sue, fatta del morione una celata, stabilito il nome al ronzino, e confermato il proprio, si persuase che altro a lui non mancasse se non se una dama di cui dichiararsi amoroso. Il cavaliere errante senza innamoramento è come un albero spoglio di fronde e privo di frutta; è come un corpo senz’anima, andava dicendo egli a sé stesso. Se, per castigo de’ miei peccati, o per mia buona ventura, m’avvengo in qualche gigante, come d’ordinario intraviene ai cavalieri erranti, ed io lo fo balzare a primo scontro fuori di sella, o lo taglio per mezzo, o vinto lo costringo ad arrendersi, non sarà egli bene d’avere a cui farne un presente? Laonde, poi, egli entri e, ginocchioni dinanzi alla mia dolce signora, così s’esprima colla voce supplichevole dell’uomo domato:

    Io, signora, sono il gigante Caraculiambro, dominatore dell’isola Malindrania, vinto in singolar tenzone dal non mai abbastanza celebrato cavaliere don Chisciotte della Mancia, da cui ebbi comando di presentarmi dinanzi alla signoria vostra, affinché la grandezza vostra disponga di me a suo talento.

    Oh! come si rallegrò il nostro buon cavaliere all’essersi così espresso! Ma, oh, quanto più si compiacque, poi, nell’avere trovato a chi dovesse concedere il nome di sua dama!

    Soggiornava in un paese, per quanto si crede, vicino al suo, una giovane contadina di bell’aspetto, della quale egli era stato già amante senza ch’ella lo sapesse, né se ne fosse avvista giammai, e si chiamava Aldolza Lorenzo; e questa gli parve opportuno chiamar signora de’ suoi pensieri. Poi cercando un nome che non discordasse gran fatto dal suo, e che potesse in certo modo indicarla principessa e signora, la chiamò Dulcinea del Toboso perché del Toboso appunto era nativa. Questo nome gli sembrò armonioso, peregrino ed espressivo, a somiglianza di quelli che allora aveva posti a sé stesso e alle cose sue.

    CAPITOLO II

    Della prima partita che fece l'ingegnoso don Chisciotte dalla sua terra

    Fatti questi apparecchiamenti, non volle differire più oltre dal dar esecuzione al suo proponimento, affrettandolo a ciò la persuasione che il suo indugio lasciasse un gran male nel mondo; sì numerose erano le ingiurie che pensava di dover vendicare, i torti da raddrizzare, le ingiustizie da togliere, gli abusi da correggere, i debiti da soddisfare. Senza dunque far parola a persona di quanto avesse divisato, e senza essere veduto da alcuno, una mattina del primo giorno (che fu uno dei più ardenti) del mese di luglio, armato di tutte le sue armi salì sopra Ronzinante, si adattò la sua malcomposta celata, imbracciò la targa, prese la lancia, e per la segreta porta di una corticella uscì alla campagna, ebro di gioia al vedere con quanta facilità aveva dato principio al suo nobile desiderio. Ma, non appena si vide all’aperto, gli sopravvenne un terribile pensiero, che per poco non lo fece desistere dalla cominciata impresa; risovvenendosi allora ch’egli non era armato cavaliere, e che quindi, conformemente alle leggi di cavalleria, né poteva né doveva condursi a battaglia contro alcun cavaliere di questo mondo: oltre di che, quand’anche già fosse stato cavaliere novizio, avrebbe dovuto portare armi bianche, senza impresa nello scudo, finché non la guadagnasse col proprio valore. Questi pensieri lo fecero titubante nel suo proposito; ma più d’ogni ragione, potendo in lui la pazzia, propose sé stesso di farsi armar cavaliere dal primo in cui s’imbattesse, a imitazione di molti altri, che di tal guisa si regolarono, come aveva letto nei libri che a tale lo avevano condotto. Quanto alla bianchezza dell’arme pensò di forbirle al primo villaggio per modo che vincessero l’ermellino; e con questo s’acquetò e proseguì il suo viaggio senza calcar altra via che quella ove fosse piaciuto al suo cavallo di condurlo, tenendo per fermo che in ciò consistesse la forza delle avventure.

    Così camminando, il nostro novello venturiero parlava fra sé e diceva: «Chi può dubitare che nei tempi avvenire quand’esca alla luce la vera storia delle famose mie gesta, il savio che la scriverà, accingendosi a dar conto di questa mia prima uscita così di buon’ora, non cominci in questa maniera?» Aveva appena per l’ampia e spaziosa terra il rubicondo Apollo stese le dorate fila dei suoi vaghi capelli, e appena i piccoli dipinti augelli con le canore lor lingue avevano salutato con dolce melliflua armonia lo spuntare della rosea Aurora, la quale abbandonando le morbide piume del geloso marito si mostrava per le porte e finestre del Mancego orizzonte a’ mortali, quando il famoso don Chisciotte della Mancia, lasciate le oziose piume, salì sul famoso suo cavallo Ronzinante, e cominciò a scorrere l’antica e celebre campagna di Montiello (ed era il vero, da che batteva quella strada… poi aggiunse esclamando: «Oh età fortunata, o secolo venturoso in cui vedranno la luce le famose mie imprese, degne di essere incise in bronzi, scolpite in marmi, e dipinte in tele per eterna memoria alla posterità! O tu savio incantatore, chiunque tu sia per essere, a cui sarà dato in sorte d’essere il cronista di questa peregrina storia, ti prego di non dimenticare il mio buon Ronzinante, perpetuo compagno in ogni mio viaggio e vicenda». Talora prorompeva come se fosse stato innamorato da vero: «Ah principessa Dulcinea, signora di questo prigioniero mio cuore, gran torto mi avete fatto col darmi commiato comandandomi altresì ch’io non osi mai più comparire al cospetto della vostra singolare bellezza. Vi scongiuro, signora mia, di rammentarvi di questo cuore che v’è schiavo, e che tanto soffre per amor vostro!» Andava egli a questi infilzando altri spropositi, alla maniera di quelli che aveva appresi dai suoi libri imitandone a tutta sua possa il linguaggio; e, intanto, procedeva sì lento, e il sole, alzandosi, mandava un ardor così cocente, che avrebbe potuto diseccargli il cervello, se pur gliene fosse rimasto alcun poco.

    A questo modo, viaggiò tutto quel giorno senza che gli avvenisse cosa degna d’essere ricordata; del che si disperava, bramando avidamente che gli si offrisse occasione da cimentare il valor del suo braccio.

    Alcuni autori affermano che la prima sua avventura fu quella del Porto Lapice: altri dicono quella dei mulini da vento: quello però che ho potuto riconoscere, e che trovai scritto negli annali della Mancia, si è ch’egli andò errando per tutto l’intero giorno e che, all’avvicinarsi della notte, sì egli come il suo ronzino, si trovarono spossati e morti di fame. Che girando l’occhio per ogni parte per vedere se gli venisse scoperto qualche castello o abitazione pastorale dove ricoverarsi e trovar di che rimediare a’ suoi molti bisogni, vide, non lungi dal cammino pel quale andava, un’osteria, che gli fu come vedere una stella che lo guidasse alla soglia, se non alla reggia, della felicità. Affrettò il passo, e vi giunse appunto sul tramontare del giorno. Stavano, a caso, sulla porta, due giovani di quelle che si chiamano da partito, le quali andavano a Siviglia con alcuni vetturali che avevano deciso di passarvi la notte. Siccome tutto ciò che pensava o vedeva o fantasticava il nostro avventuriere, tutto dentro di lui pigliava forma e sembianza della pazzia che le sue letture gli avevano fitta in capo; così appena scorse l’osteria, gli fu d’avviso di vedere un castello colle sue quattro torri, con capitelli di lucido argento, con ponte levatoio sovrastante a profondo fosso, e fornito di tutte quelle altre appartenenze che sogliono essere attribuite a siffatte abitazioni. Avviatosi dunque all’osteria o castello, secondo che a lui pareva, e giuntovi da vicino, raccolse le briglie e fermò Ronzinante, attendendo che qualche nano si facesse dai merli a dar segno colla tromba che arrivava al castello un cavaliere. Ma vedendo poi che tardavano, e che Ronzinante smaniava di far capo nella stalla, s’accostò alla porta dell’osteria sulla quale stavano le due mal costumate ragazze, che a lui sembrarono due molto vaghe donzelle, ovvero due galanti signore che vagassero a bel diporto.

    Avvenne che un porcaio per raccozzare un branco di porci (che con sopportazione così appunto si chiamano) suonò un corno al cui segnale tutti son usi di unirsi; e questo fece pago il desiderio di don Chisciotte, immaginandosi egli che un nano annunziasse così la sua venuta. Con gioia ineffabile s’accostò quindi alla porta e alle signore, le quali vedendo avvicinarsi un uomo armato a quel modo con lancia e targa, spaventate, si volsero per cacciarsi nell’osteria. Ma don Chisciotte, arguendo dalla lor fuga la paura che le incalzava, alzò la sua visiera di cartone, e facendo vedere la sua secca e polverosa faccia, disse loro con gentil modo e con voce tranquilla:

    «Non fuggano le signorie vostre, né paventino d’oltraggio alcuno, da che l’ordine cavalleresco da me professato vieta di far torti a chicchessia, massimamente poi a donzelle d’alto lignaggio, quali la presenza vostra vi fa conoscere».

    Le due giovani lo andavano osservando, e cercavano di vedergli bene la faccia, che poco si scopriva di sotto alla trista visiera; ma, quando s’intesero chiamar donzelle, nome sì opposto alla loro professione, non poterono contenersi dal ridere, in modo che don Chisciotte se ne risentì, e disse loro: «Quanto un dignitoso contegno s’addice alle belle, tanto sta male che prorompano per lieve cagione in tali risate; non per questo ve ne rimprovero, ma ciò vi dico solo per desiderio che siate di animo benigno verso di me, ché il mio è tutta volontà di servirvi». Il linguaggio non inteso dalle donne e la trista figura del nostro cavaliere accrescevano in esse le rise e in lui la collera; e la cosa sarebbe andata oltre, se in quel momento non usciva l’oste, che per essere molto grasso era anche molto pacifico. Il quale al vedere quella contraffatta figura, armata d’armi tra loro così discordanti, com’erano le staffe lunghe, la lancia, la targa ed il corsaletto, fu per mettersi a ridere anch’egli non meno delle due giovani; ma tenendolo in qualche rispetto come una macchina fornita di tante munizioni, pensò di parlargli garbatamente e gli disse:

    «Se la signoria vostra, signor cavaliere, domanda di essere alloggiata, dal letto in fuori (ché non ve n’ha pur uno in questa osteria) troverà in tutto di che soddisfarsi abbondevolmente».

    Vedendo la gentilezza del governatore della fortezza, don Chisciotte (che tale a lui rassembrarono e l’oste e l’osteria) rispose: «A me, signor castellano, ogni cosa mi basta, perché miei arredi son l’armi, e mio riposo il combattere». L’oste s’immaginò che don Chisciotte gli avesse dato il nome di castellano per averlo creduto un semplice castigliano, mentre era invece di Andalusia, e di quelli della riviera di Sanlùcar, non dissimile a Caco nei ladronecci, e non meno intrigatore d’uno studente o d’un paggio: e quindi gli rispose in questo modo: «A quanto dice la signoria vostra, i suoi letti devono essere dure pietre, e il suo dormire una continua veglia: e se così è, ella abbia pure per certo che qui troverà le più opportune occasioni da non poter chiuder occhio per un anno intero, non che per una sola notte».

    Detto ciò, si avvicinò per tenere la staffa a don Chisciotte, che smontò con grande impaccio e fatica, dal momento che era stato tutto il giorno a digiuno.

    Raccomandò subito all’oste d’avere la più gran cura del suo cavallo che era la miglior bestia che fosse al mondo. L’oste lo squadrò, e non gli parve, in realtà, quella gran cosa che don Chisciotte aveva appena detto , però, portatolo nella stalla, si recò subito a ricevere i comandi del suo ospite .

    Questi, intanto, si lasciava disarmare dalle donzelle, già riconciliate con lui e, benché gli avessero tolto di dosso la corazza e gli spallacci, non lo convinsero né ad aprirgli la goletta, né a levargli l’artificiosa celata, che teneva stretta con un laccio verde e che, volendogliela levare, bisognava scioglierne i nodi; ma don Chisciotte si rifiutò risolutamente. Se ne rimase, pertanto, tutta quella notte con la celata: la cosa appariva ancor più ridicola e strana di quanto si possa immaginare. Mentre poi lo andavano disarmando (immaginando che quelle femmine fossero principali signore o dame di quel castello) disse loro con singolar gentilezza:

    «Mai vi è stato cavaliere

    dalle donne ben servito

    come il prode don Chisciotte

    quando uscì dal suol natio.

    Fu curato da donzelle,

    principesse ebbe il ronzino!

    o piuttosto Ronzinante; perché questo, signore, è il nome del mio cavallo, mentre il mio è don Chisciotte della Mancia. Io, in verità, avevo deciso di non svelare la mia identità se non mediante qualche impresa condotta a vostro servizio ; ma, la necessità di adattare al presente la vecchia romanza di Lancillotto, fece sì che voi lo sappiate fin d’ora. Verrà il tempo in cui le signorie vostre mi comanderanno, e io obbedirò loro; e sarà allora che il valore del mio braccio sarà prova del desiderio che ho di servirvi.»

    Le allegre giovani, non avvezze a simili ragionamenti, non risposero alcuna parola, ma gli domandarono solamente se desiderava mangiar qualche cosa. «Qualunque cosa,» rispose don Chisciotte, «giacché mi pare che ne sia ben tempo».

    Avvenne che, per essere venerdì, non vi era nulla in quell’osteria, se non qualche pezzo di un pesce chiamato Abadescio in Castiglia, Merluzzo in Italia, nell’Andalusia Baccagliao, e altrove Curadiglio e Trucciola, né altro v'era da potergli dare.

    «Se vi sono molte trucciuole», disse don Chisciotte, «potranno servire in luogo di una truccia grande, poiché a me tanto fanno otto reali quanto una pezza da otto, e potrebbe anche darsi che queste trucciole siano come il vitello, ch’è migliore della vacca, e il capretto che è più saporito del caprone: sia però come si voglia, e me le mi si porti subito , perché la fatica e il peso dell’arme non si possono sostenere quando il ventre non è ben governato».

    Gli fu posta la tavola presso la porta dell’osteria, al fresco, e l’oste gli recò una porzione del merluzzo peggio ammollato e cotto, e un pane tanto nero e ammuffito quanto le sue armi. Il vederlo mangiare fu motivo di grandi risate; poiché, avendo tuttavia la celata e alzata la visiera, nulla poteva mettersi in bocca colle proprie mani, se da altri non gli era porto, e perciò una di quelle sue dame si mise a eseguire quell’ufficio. Ma in quanto al dargli da bevere, non fu possibile, né avrebbe bevuto mai, se l’oste non avesse bucata una canna e, postagliene in bocca una delle estremità, non gli avesse versato il vino per l’altra; ed egli sopportò tutto questo pazientemente, purché non gli si rompessero i legacci della celata.

    In quel momento, giunse, per caso, all’osteria un castratore di maiali , che, al suo arrivare, suonò uno zuffolo di canna per ben quattro o cinque volte. Allora, don Chisciotte finì proprio di persuadersi che si trovava in qualche famoso castello, ove era servito addirittura con musica; che i pezzi di merluzzo erano, in realtà, trote; che il pane era bianchissimo; che quelle femmine di partito erano proprio dame; l’oste, il governatore del castello: e, quindi, chiamava la sua risoluzione e il suo viaggio ben ponderati. Però, lo angustiava il non essere stato ancora armato cavaliere, sembrandogli di non potersi esporre giuridicamente ad alcuna avventura, senza avere, dapprima, con la dovuta forma, aver ricevuto l’ordine della cavalleria.

    CAPITOLO III

    Dove si racconta in che modo divertente don Chisciotte fu armato cavaliere

    Afflitto da questo pensiero, accelerò la cena modesta che quella taverna gli aveva servito; poi, chiamato a sé l’oste, si chiuse con lui nella stalla, e, qui, buttandoglisi ai piedi , gli disse: «Non mi leverò mai di qua, o valoroso cavaliere, se prima io non ottengo dalla vostra cortesia il dono che voglio chiederle, e che tornerà a vostra gloria e a vantaggio del genere umano.»

    L’oste, che vide l’ospite ai suoi piedi e udì questo discorso sciocco , se ne stava confuso, guardandolo senza saper che fare o che dire; né lo convinse ad alzarsi, finché non promise che avrebbe, effettivamente, fatto quanto da lui chiestogli.

    «Non meno mi attendevo dalla vostra magnificenza, o mio signore», riprese don Chisciotte; e ora vi dico che il dono che intendo chiedervi, e che già mi vien concesso dalla vostra liberalità , è che domani mattina mi armiate cavaliere. Questa notte, io veglierò le armi nella chiesetta di questo vostro castello; e domani mattina, come ho detto, daremo, finalmente, compimento a quello che tanto desidero, affinché mi sia lecito scorrere le quattro parti del mondo, cercando avventure in favore dei bisognosi, com’è d’uopo alla cavalleria e ai cavalieri erranti qual io sono , e volgendo, difatti, a ciò ogni mia inclinazione.»

    L’oste, il quale, come si è detto, era volpe vecchia, e aveva già qualche sospetto che all’ospite suo gli avesse dato di volta il cervello, a questo punto, se ne convinse del tutto : e, per farsi due risate, decise di assecondarlo. Gli disse, pertanto, che quel suo progetto era indizio di più alta nobiltà, e che una tale inclinazione era tipica dei cavalieri di una certa portata, e che egli mostrava di essere, e di cui faceva testimonianza la sua galante presenza; quindi, aggiunse che egli stesso, nei primi anni della sua giovinezza, si era dedicato a quell’esercizio onorevole, recandosi a tal fine in varie parti del mondo, cercando avventure, e visitando Perceli di Malaga, l’isola di Riarano, il Compasso di Siviglia, l’Azzoghescio di Segovia, l’Oliviera di Valenza, Rondigli di Granata, la spiaggia di San Lucar, il porto di Cordova, le Ventiglie di Toledo, e molti altri paesi. Che qui egli aveva esercitato la leggerezza dei suoi piedi e l’agilità delle sue mani, occupandosi in ogni maniera di ribalderie; facendo cioè continui torti, seducendo molte vedove, svergognando non poche donzelle, ingannando molti orfanelli, e finalmente rendendosi noto a quante curie e tribunali ha la Spagna; da ultimo poi si era ritirato in quel castello, dove viveva colla roba propria e altrui, prestando ricovero a tutti i cavalieri erranti (d’ogni qualità e condizione), unicamente per la molta affezione che ad essi portava, e per la speranza che nel prender commiato, dovessero dividere con lui ciò che avevano, in ricambio delle sue buone intenzioni. Aggiunse poi che in quel castello non c’era chiesetta in cui vegliar le armi, giacché l’aveva demolita per rifabbricarla di nuovo, ma che sapeva benissimo che, in caso di necessità, si poteva far quell’ufficio dove si preferisse, e che quindi poteva quella notte vegliarle in un andito del castello; e la mattina, col favore del cielo, si sarebbero compiute le debite cerimonie, di maniera che egli si trovasse armato cavaliere, e un cavaliere senza eguali. Gli domandò inoltre se aveva denari con sé: ma don Chisciotte rispose di non aver nemmeno un quattrino, non avendo mai letto che alcun cavaliere errante portasse denari con sé. A ciò l’oste rispose che egli si sbagliava, poiché, anche ammettendo che di ciò non si facesse alcuna menzione nelle storie, gli scrittori l’avevano omesso, ritenendo che non fosse necessario sottolineare l’ovvio. ; e non si doveva, dunque, dubitare sul fatto che fossero ben provvisti. Dato, quindi, per certo che tutti i cavalieri erranti, dei quali son pieni i libri, portassero con sé una borsa ben provvista di tutto quello che potesse essere loro necessario (e che inoltre recavano con sé la biancheria, ed una cassettina piena d’unguenti per le ferite che ricevevano) , poiché nei campi e nei deserti, dov’essi combattevano e rimanevano feriti, non si trovava sempre chi all’istante ne avesse cura (a meno che non avessero qualche mago amico che li soccorresse facendo giungere a volo per l’aria, in una nube, o una donzella o un nano con una tazza piena d’acqua di tal virtù, che a gustarne per una goccia guarivano dalle piaghe e dalle ferite come se non avessero mai avuto alcun male), i cavalieri antichi trovarono sempre indispensabile che i loro scudieri avessero con sé dei denari, ed altre cose indispensabili , come a dire bende e unguenti per medicarsi; e quelli che mancavano di scudieri (cosa che avveniva assai di rado) portavano loro stessi tali cose in bisacce tanto sottili che quasi non si scorgevano, mettendole sulla groppa del cavallo come se fossero oggetti di grande importanza; giacché, a parte questi casi di necessità assoluta, non stava bene che i cavalieri erranti portassero con sé delle bisacce. Perciò, gli consigliava caldamente, benché glielo avesse potuto comandare come a un suo figlioccio quale stava per diventare , per avvenire di non viaggiare mai senza denari e senza le precauzioni suggerite, poiché, quando meno se lo sarebbe aspettato, gli sarebbero state utili. Don Chisciotte promise di fare quanto gli era stato consigliato, dopo di che fu deciso ch’egli vegliasse le armi in un vasto cortile che stava a lato di quella stessa osteria.

    Una volta che le ebbe raccolte tutte, le pose sopra una pila che giaceva accanto a un pozzo, e imbracciata la targa e presa la lancia, si mise a passeggiargli dinanzi con nobile portamento, mentre la notte cominciava a fare il suo corso.

    L’oste, intanto, informò quanti alloggiavano nel suo albergo della pazzia di quel suo ospite , della veglia che faceva alle armi e dell’ investitura che aspettava. Stuzzicati da quell’insolita pazzia, e messisi in un punto in cui potevano spiarlo, , videro che talora passeggiava con passo solenne, e talvolta, appoggiato alla sua lancia, teneva l’occhio fisso alle sue armi, senza levarlo per un lungo lasso di tempo. Si fece poi notte del tutto, ma la luna mandava così gran luce, da poter quasi gareggiare col sole che gliela prestava tutta; in questo modo, ciascuno vedeva benissimo ciò che il novello cavaliere andava facendo.

    A quel punto, a uno dei vetturali che stavano nell’osteria saltò in capo di abbeverare i suoi muli, e perciò di levare dalla pila le armi di don Chisciotte; questi, allora, vedendolo , esclamò ad alta voce: «Oh tu, chiunque tu sia, ardito cavaliere, che osi toccare le armi del più valoroso errante che abbia mai cinto spade, fai attenzione a quello che fai, e non toccarle, se non vuoi pagare con la vita il prezzo del tuo ardire. »

    Il vetturale non si curò affatto di quelle chiacchiere (e ciò fu non poco negativo per lui e per la sua salute) e, prendendo le cinghie dell’armatura, la scagliò molto lontano da sé. Quando don Chisciotte vide ciò, levò gli occhi al cielo, e volto il pensiero, per quanto parve, a Dulcinea sua signora, disse: «Soccorretemi, mia signora , nel primo ostacolo che si presenta a questo mio petto, vostro vassallo ; deh, non mi manchi, in questo primo incontro, il vostro favore e la vostra difesa!»

    Proferendo queste e altre tali filastrocche, deposto lo scudo , alzò a due mani la lancia e, dato con essa un gran colpo sulla testa a quel vetturale, lo stramazzò al suolo così malconcio, che se gliene avesse inferto un altro, non avrebbe più avuto bisogno di un medico che lo guarisse Fatto ciò, raccolse le sue armi e ricominciò a passeggiare con la stessa tranquillità di prima.

    Di lì a non molto, essendo ignaro del fatto, sopravvenne un altro mulattiere che, come il primo (che ancora giaceva privo di sensi), voleva abbeverare i suoi muli. Anche costui tolse le armi per svuotare la pila; allora, don Chisciotte indispettito, senza proferire parola o chiedere favore , gettò via una seconda volta lo scudo e, alzata la lancia, senza romperla, della testa del vetturale ne fece più di tre, giacché la spaccò in quattro parti. Accorse, al fragore, tutta la gente che si trovava nell’osteria e, con loro, anche l’oste. Come don Chisciotte li vide, imbracciò lo scudo e, posto mano alla spada, così cominciò a dire: «O donna di beltà, vigore e sostegno del mio cuore affievolito, ora è il tempo che tu rivolga gli occhi della tua grandezza a questo cavaliere, tuo servo , per il quale è imminente una così pericolosa avventura!»

    E tanto lo accese il fervore con cui pronunziò queste parole che non l’avrebbero fatto retrocedere nemmeno tutti i vetturali del mondo. I compagni dei feriti, intanto, vedendoli pestasti a quel modo, cominciarono, da lontano, a mandare una pioggia di pietre sopra don Chisciotte che, proteggendosi alla meglio con lo scudo, non osava scostarsi dalla pila per non abbandonare le armi. L’oste gridava forte che non lo maltrattassero, aveva già fatto saper loro ch’era un pazzo, e che, quindi, l’avrebbe fatta franca anche se li avesse ammazzati tutti. Don Chisciotte, dal canto suo, con voce più alta li chiamava tutti codardi e traditori, aggiungendo che il signore del castello era un cavaliere un vile e malnato , dacché tollerava che si trattassero a quel modo i cavalieri erranti; e buon per lui ch’egli non era già stato armato cavaliere, altrimenti gli avrebbe fatto pagare il suo tradimento. « A voi poi, ribalda e bassa canaglia, non faccio caso : scagliate, accostatevi, oltraggiatemi quanto potete, che ben avrete la ricompensa che si conviene alla vostra stolida audacia». Proferì queste parole d’un modo così risoluto e così franco che mise uno spavento terribile negli assalitori, i quali, un po’ per questo, un po’ per le persuasioni dell’oste, cessarono di colpirlo e, così, si trattenne egli pure dal tentar di ferire, tornando alla veglia delle sue armi con la stessa tranquillità e con la stessa attenzione di prima.

    All’oste, però, non piacquero affatto quelle follie del suo ospite e, quindi, si decise a porre fine a quel suo insano desiderio e a nominarlo cavaliere, , prima che potesse avvenire di peggio. Accostatosi a lui, pertanto, si discolpò per quanto gli era stato fatto da quella gente vile, che a sua insaputa era arrivata a tali eccessi, e lo assicurò che a suo tempo ne avrebbero pagato lo scotto . Gli ripeté, come gli aveva detto già prima, che in quel castello non c’era una cappella (che per altro non era necessaria), ma che ciò che importava per essere armato cavaliere consisteva nella collata e nella piattonata, per quanto egli sapeva del cerimoniale dell’ordine, e che ciò poteva farsi anche in mezzo ad una campagna. Aggiunse, poi, che egli aveva adempito già all’obbligo di vegliar le armi, giacché bastavano due ore sole, ed egli ne aveva vegliate già più di quattro. Don Chisciotte se ne persuase e gli disse ch’era pronto ad obbedirlo, e che s’affrettasse a compiere ogni cosa colla maggior fretta possibile: perché se fosse stato assalito un’altra volta quand’egli si fosse trovato già armato cavaliere, aveva deciso di non lasciar in quel castello persona viva, tranne coloro che da lui stesso avesse ricevuto ordine di rispettare, ai quali per amor suo avrebbe risparmiato la vita. Il castellano, impaurito da tale protesta e da quanto aveva veduto, andò subito a prendere un libro in cui registrava il fieno e l’orzo che dava ai vetturali e, facendosi recare da un ragazzo un pezzo di candela, seguito dalle due già dette donzelle, venne alla volta di don Chisciotte.

    Gli comandò, allora, di mettersi in ginocchio e, leggendo il suo manuale, come se recitasse un’orazione sacra, a metà lettura alzò la mano, e gli diede un grosso scappellotto e poi, una delicata piattonata con la sua stessa spada , sempre mormorando fra i denti come uno che recitasse qualche preghiera. Fatto ciò, comandò a una di quelle dame che gli cingesse la spada: ella eseguì con molta disinvoltura e buon garbo, al punto che veramente era difficile contenersi dal ridere a ogni passo della cerimonia, ma le prodezze che avevano veduto eseguire dal novello cavaliere mettevano freno agli scherzi. Nel cingergli la spada, la buona signora gli disse: «Dio faccia che la signoria vostra riesca il più fortunato de’ cavalieri, e ch’abbia gloria in ogni impresa».

    Don Chisciotte, allora, le richiese il nome, per sapere a chi era debitore del dono ricevuto, e, pensando di dedicarle un po’ dell’onore che si sarebbe meritato col valore del suo braccio. La donna rispose, con molta modestia, che si chiamava la Tolosa, figliuola d’un ciabattino originario di Toledo, il quale faceva il suo mestiere nelle bottegucce di Sancio Bienaya, e che lo avrebbe servito e tenuto per signore dovunque fosse. Don Chisciotte, allora, le chiese il favore, per l’avvenire, di assumere il don, chiamandosi donna Tolosa; ed ella glielo promise.

    Lo stesso colloquio tenne con l’altra donzella, che gli mise lo sperone; le domandò del suo nome, ed ella rispose che si chiamava Molinara, e ch’era figliuola d’un onorato mugnaio d’Antequera. A questa pure domandò don Chisciotte il favore che si facesse chiamare donna Molinara, offrendole ogni suo servigio e favore.

    Compiute, poi, in gran fretta, le cerimonie mai viste prima d’allora, don Chisciotte non volle tardare oltre a mettersi a cavallo per andare in cerca di avventure. Posta quindi, senza indugio, la sella a Ronzinante, vi salì sopra e, abbracciando il suo albergatore, gli disse le cose più strane del mondo (ringraziandolo senza fine del favore di averlo armato cavaliere) e tali che non sarebbe possibile riferirle a dovere.

    L’oste, oltremodo voglioso di vederlo fuori dall’osteria, rispose con non minore artificiosità, ma con più brevi parole, e senza nemmeno chiedergli di pagare l’alloggio, lo lasciò andare alla sua buon’ora.

    CAPITOLO IV

    Di ciò che accadde al nostro cavaliere quando uscì dall'osteria

    Stava spuntando l’alba, quando don Chisciotte uscì dall’osteria, contento e vispo, e tanto gioioso nel vedersi già armato cavaliere che il giubilo si diffondeva sino ai finimenti del suo cavallo. Ma, tornandogli in mente i consigli dell’oste, ossia di fornirsi quantomeno delle cose necessarie, soprattutto di danari e di biancherie, decise di tornare a casa per equipaggiarsi di quelle e di uno scudiere, scegliendo di valersi, a tale scopo, di un contadino suo vicino, povero e con famiglia a carico , ma, secondo lui, perfetto per quell’incarico. Con questa intenzione, dunque, avviò Ronzinante verso il proprio paese: la buona bestia, come se avesse già fiutato la stalla, si mise ad andare così rapidamente che pareva non toccare la terra con gli zoccoli.

    Non aveva ancora fatto molto cammino, quando dal folto di un bosco, che stava sulla destra, gli parve di sentire delle voci: come di qualcuno che si lamentava . Non appena le ebbe sentite disse: «Sia lode alla sorte che mi concede così presto l’occasione di esercitare i doveri della mia professione e di cogliere il frutto dei buoni miei desideri. Senza dubbio, tali voci partono da qualcuno, o da qualcuna, che ha bisogno del mio soccorso e del mio favore».

    Pertanto, volgendo le redini, guidò Ronzinante verso quella parte da cui gli pareva che venissero le voci e, inoltratosi di pochi passi nel bosco, vide una cavalla legata a una quercia, e un ragazzo di circa quindici anni, che, spogliato nudo dal mezzo busto in su e legato a un grande albero, emetteva proprio quei lamenti da lui sentiti. E, in effetti, ne aveva motivo, perché un vigoroso contadino lo stava percuotendo con una cintura di cuoio, e accompagnava ogni colpo con un rimprovero e con un consiglio, dicendogli: «Modera la tua lingua, e non ti perdere in sciocchezze ». Il ragazzo rispondeva: "Non lo farò più, mio signore, ve lo giuro per la passione di nostro Signore, non lo farò più, e vi prometto che, d’ora innanzi, avrò sempre gran cura del vostro bestiame».

    Don Chisciotte, a tal vista, gridò con voce sdegnata: «Scortese cavaliere! È gran vergogna prendersela con chi non è in grado di difendersi; monta sul tuo cavallo, prendi la lancia (ce n’era una appoggiata alla quercia proprio dov’era legata la cavalla) ch é io ti farò conoscere qual codardia sia quella che stai commettendo».

    Il contadino, che si vide addosso quella figura carica di armi e che già gli faceva balenare quasi la lancia sulla faccia, si considerò già morto, e gli rispose con parole sommesse: «Signor cavaliere, questo ragazzo che sto castigando è un mio garzone, incaricato di guardare un branco di pecore che tengo in questi dintorni; ma è a tal punto disattento che ne viene perduta una ogni giorno; e quando io lo punisco della sua trascurataggine o della sua furfanteria, egli mi calunnia dicendo che così lo tratto per avarizia e per defraudarlo del suo salario: ma giuro al cielo e sull’anima mia che egli mente».

    «Mente dinanzi a me? Malvagio villano!» disse don Chisciotte. «Per il sole che ci illumina, prima che ti trapassi da parte a parte con questa lancia: pagalo sul fatto e senza osare replicare, o giuro per Dio che ti polverizzo qui sui due piedi! Scioglilo immediatamente!»

    Il contadino chinò la testa e senza proferir parole sciolse il ragazzo, a cui don Chisciotte domandò quanto gli doveva il suo padrone; e questi gli rispose che gli era debitore di nove mesi in ragione di sette reali per mese. Don Chisciotte fece il conto, e trovò che il credito del ragazzo ammontava a settantatré reali; disse, allora, al villano che glieli sborsasse al momento se non voleva morire per la sua mala fede. Il contadino, tutto impaurito, rispose, allora, che, data la situazione in cui si trovava e per il giuramento già fatto (e si noti che, in realtà, non aveva ancora giurato), non ammontava a tanto quel credito, dovendosi scalare da esso tre paia di scarpe che egli stesso aveva dato al garzone, e un reale da lui speso per fargli fare due salassi mentre era ammalato.

    «Tutto questo», soggiunse don Chisciotte, «va bene, ma la spesa delle scarpe e dei salassi servirà a compensarlo delle frustate che senza sua colpa gli hai date; che se egli ruppe il cuoio delle scarpe che gli pagasti, tu gli hai levata la pelle del corpo; e se hai pagato un barbiere che gli cavasse sangue quando era infermo, tu glielo cavasti poi sano, però egli non ti è debitore di nulla».

    «Il male è, signor cavaliere, che non ho danari con me», rispose il villano; «ma se Andrea verrà a casa mia, gli pagherò tutto, un reale sopra l’altro».

    «Io andarmene con lui?» disse il giovine. «Sarei pure un pazzo! Neppure per sogno! se mi avesse da solo, mi scorticherebbe come san Bartolomeo».

    «Non lo farà, no», replicò don Chisciotte; «basta che io glielo comandi ed egli mi obbedirà, e basterà che lo giuri sulla legge della cavalleria di cui è insignito, io lo lascerò andar libero, e tu verrai pagato».

    «Vossignoria badi bene a quello che dice, perché il mio padrone non è affatto un cavaliere, né ha ricevuto mai alcun ordine di cavalleria, ma è Giovanni Gonna, un ricco, abitante di Quintanar».

    «Non importa», rispose don Chisciotte; «anche i Gonna possono essere cavalieri; e, poi, ciascuno è figlio delle proprie opere ».

    «E ciò è incontrastabile», soggiunse Andrea; «Ma questo mio padrone di quali opere è figlio, negando, com’egli fa, il guadagno delle mie fatiche e dei miei sudori?»

    «Non mi rifiuto di soddisfarti, no, fratello Andrea, ripigliò il contadino; compiaciti di seguirmi, e ti giuro, per tutti gli ordini di cavalleria ch’esistono al mondo, di pagarti, come ho proposto, e profumatamente, reale sopra reale».

    «Non servono profumi», disse don Chisciotte, «pagagli i reali che gli devi, e ciò mi basta; e bada bene di mantenere quanto hai giurato, perché in caso diverso, ti giuro in fede del giuramento medesimo, tornerò per punirti, e saprò ben ritrovarti, quand’anche ti nascondessi sottoterra meglio di una lucertola. E se vuoi sapere chi sia colui che te lo comanda, affinché più ti prema il dovere dell’obbedienza, sappi che io sono il valoroso don Chisciotte della Mancia, disfacitore dei torti e punitore dei soprusi . Addio, non ti cada di mente la più rigorosa esecuzione di quanto hai promesso e giurato sotto pena del pronunciato castigo».

    Ciò detto, spronò Ronzinante, e in breve scomparve dalla loro vista.

    Il contadino lo seguì con gli occhi e, quando fu uscito dal bosco di modo che più non lo vedesse , si volse di nuovo al suo garzone Andrea, e gli disse: «Venite, figlio mio, ché voglio pagarvi ciò che vi debbo, e come mi ha imposto quel disfacitore di torti».

    «Oh quanto farà bene vossignoria ad obbedire i comandi di quel buon cavaliere, a cui auguro mille anni di vita, perché, in fede mia, egli è tale da tornare, e da farvi mantenere la parola se vi saltasse in capo di venirle meno».

    «Ed io giuro di nuovo di volergli obbedire», disse il villano; «ma, per l’amore che ti porto, voglio accrescere il debito mio verso di te, e pagarti, poi, una somma maggiore».

    E, così, presolo per un braccio, lo legò di nuovo alla quercia, e lo caricò di tante frustate, che lo lasciò quasi morto.

    «Chiama, signor Andrea mio», diceva allora il contadino, «chiama il disfacitore dei torti e vedrai se potrà disfar questo: benché non mi pare di averlo compiuto, e mi vien proprio voglia di scorticarti vivo come temevi».

    All’ultimo non di meno lo slegò, e gli diede licenza d’andare in cerca del suo giudice, affinché eseguisse la sentenza da lui proferita. Andrea partì di là in lacrime , giurando che sarebbe andato in cerca del valoroso don Chisciotte della Mancia per informarlo a puntino di ciò ch’era realmente successo, affinché gliela facesse pagar molto cara; ma, alla fine, il giovine se ne andò piangendo, e il padrone ne rise di vero gusto.

    E così disfece quel torto il valoroso don Chisciotte, il quale, soddisfattissimo dell’avvenuto, e sembrandogli d’aver dato felicissimo cominciamento al suo operato da cavaliere , andava camminando verso la propria terra, pienamente contento di sé; e diceva, a bassa voce: «A ben dire ti puoi chiamare fortunata rispetto a quante vivono sulla terra, o sopra le belle, bella Dulcinea del Toboso, dal momento che ti è toccato in sorte di avere soggetto a te e ai tuoi voleri un così valoroso e celebre cavaliere com’è e sarà don Chisciotte della Mancia; il quale (e ne vola già fama per il mondo) ha ricevuto l’ordine di cavalleria, ed oggi ha già posto fine al più gran torto che mai sia stato immaginato dalla giustizia, e compiuto dalla crudeltà! Oggi ho io tolta di mano la frusta ad un nemico spietato che senza alcun motivo picchiava un fragile fanciullo!».

    Intanto, giunse a un quadrivio, e, subito, gli vennero in mente quei crocicchi dove i cavalieri erranti erano soliti pensare per quale via dovessero proseguire. Per imitarli, stette un poco fermo, ma poi , dopo aver ben riflettuto, lasciò andare la briglia a Ronzinante, abbandonando la sua alla volontà del cavallo, che, subito, si indirizzò alla volta della propria stalla.

    Compite due miglia all’incirca, don Chisciotte scoprì una gran folla di gente: erano dei mercanti di Toledo (come si seppe poi), che andavano a Murcia per comperare la seta. Erano sei, ognuno col suo parasole; a loro volta, avevano dietro quattro servitori a cavallo e tre vetturali a piedi. Non appena li vide, don Chisciotte si immaginò di avere tra le mani una nuova avventura e, voglioso com’era d’imitare pienamente i casi letti nei libri, volle cogliere quella buona occasione per applicarne un altro che sembrava perfetto per quella situazione. Con bel garbo, dunque, si strinse bene nelle staffe, impugnò la lancia, si avvicinò lo scudo al petto e, piantatosi nel mezzo della strada, stette in attesa che quei cavalieri erranti, com’egli li giudicava, arrivassero. E quando gli si furono avvicinati , alzò la voce, e con grande coraggio cominciò a dire: «Fermi tutti, nessuno si muova, se prima non confessa che non vi è nell’universo una donzella più bella dell’imperatrice della Mancia, dell’ineguagliabile Dulcinea del Toboso».

    Al suono di queste parole ed alla vista della strana figura che le proferiva, quei mercanti si fermarono, e subito si accorsero della loro insensatezza, ma vollero star a vedere in cosa consistesse quell’affermazione Perciò, uno di loro, il più spiritoso, gli rispose: «Signor cavaliere, noi non conosciamo questa celebre signora da voi menzionata; fate che la vediamo e, se ella porterà realmente

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