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L'ultima nata dell'isola di Roa - Le porte di Eterna Vol. 4
L'ultima nata dell'isola di Roa - Le porte di Eterna Vol. 4
L'ultima nata dell'isola di Roa - Le porte di Eterna Vol. 4
E-book912 pagine12 ore

L'ultima nata dell'isola di Roa - Le porte di Eterna Vol. 4

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Info su questo ebook

La mossa finale di una partita millenaria è compiuta.
Eterna deve cadere, ma tre singole esistenze, mosse da mani antiche, si ergeranno a influenzare l’esito della partita.
Mèlas Dracòntos, perduta ogni cosa, conoscerà quel che non ha mai posseduto: l’amore.
Luscinia, sua nemica, riavrà le ali che la Guerra dei Mille Anni le aveva strappato, e Saphina Rò di Roa incontrerà il Maestro da cui era stata convocata prima che tutto iniziasse.
Legati da odio e amore, i membri recalcitranti della compagnia dell’Erede verranno usati e diretti verso il pericolo.
Il principe del Drago, la figlia di Raya e l’ultima nata dell’isola di Roa potranno sopravvivere alla missione a cui sono stati vincolati prima della loro stessa nascita?

Attenzione: Questo volume è da intendersi come quarto. 

In ordine, sempre della stessa autrice:

- Il principe del drago (parte I)
- Il principe del drago (parte II)
- La compagnia dell'erede
LinguaItaliano
Data di uscita1 set 2017
ISBN9788898585595
L'ultima nata dell'isola di Roa - Le porte di Eterna Vol. 4

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    Anteprima del libro

    L'ultima nata dell'isola di Roa - Le porte di Eterna Vol. 4 - Chiara Piunno

    riguardava.

    Capitolo 2

    La tempesta

    Il lampo scavò il nero del cielo e lo tinse di blu violento.

    Luscinia spalancò gli occhi e l’acqua che si rovesciò dalle nubi la inondò.

    La ragazza tossì, soffiò la pioggia dal naso, nascose il volto tra le dita, invano.

    In tralice, nel controluce creato dai lampi, rimirò la forma familiare delle mani. Formicolavano.

    Le sembrò strano averle di nuovo, dopo le ali… Erano ridicole e piccole.

    Mentre il tuono esplodeva, vicinissimo, Luscinia lasciò cadere il capo all’indietro e scoppiò in una risata ansimante, isterica, frutto dell’adrenalina che ancora pompava nelle vene.

    Dio… com’è bello volare! pensò, stordita.

    Non avrebbe mai immaginato che quella sensazione le sarebbe mancata tanto. Come una droga inodore e incolore. Sentiva ancora ogni fibra dei muscoli immensi contrarsi, vibrare, il suono e la pressione delle correnti furiose che aveva cavalcato…

    La sua seconda natura perduta.

    Il dopo era straniante: il cuore batteva come se dovesse ancora portare sangue alle ali e resistere ai vuoti che il suo organismo fragile non avrebbe tollerato.

    Ebbe una vertigine.

    Staccarsi, ritrarsi nel proprio corpo di ragazza sembrò quasi osceno.

    Non riusciva ad alzarsi dopo un simile sforzo, come non sapesse più riconoscere il suo vero io.

    Era una scheggia impazzita in una massa insensibile.

    Fradicia sotto il nubifragio, abbandonata a terra, Luscinia iniziò a tremare forte.

    Era il contraccolpo dei seiynnes. E il vento gelido che soffiava, ululando su dal mare, non aiutava. Tentò alcune volte di sollevarsi, ma senza successo all’inizio. Aveva volato per un giorno, una notte e un altro giorno, imbrigliata dalla Rièn ustionante di Flòx, e – forse – era per questo che la sua non si era esaurita. Uno sforzo simile, normalmente, l’avrebbe uccisa. Del viaggio ricordava l’emozione ritrovata, la beatitudine e la sensazione di… informità: per quanto si sforzasse, Luscinia non riusciva a richiamare alla mente né le terre e l’acqua sorvolati, né il proprio aspetto durante il volo.

    Non era stato il rapace bianco a sorgere dalla scogliera di Syr-inà-mehee: di questo soltanto era certa. Così come era certa che non fosse stata solo la sua Volontà a spingerla contro i cannibali che stavano facendo a pezzi Neromanto. Ma, oltre, Luscinia ricordava poco.

    Aveva volato nella tempesta, con il vento contrario che si tagliava e apriva in due sulla ampie ali, tanto tese da produrre un sibilo, come il canto tetro di uno spirito.

    Non era stata la sua Rièn a spingerla avanti, sempre verso Öder, nel fuoco rosso del tramonto.

    Ora capiva come il drago del nero cacciatore avesse compiuto quelle evoluzioni per distruggere il mostro di nebbia e il leewgh: era stata l’Erede a muoverlo, proprio come aveva mosso lei.

    Quanto doveva essere vasta la Rièn di quella bambina per ottenere un simile controllo? Una Satwàr tale da risultare incalcolabile.

    Ma non abbastanza da guidare le sue ali in un atterraggio morbido.

    L’arrivo era stato uno schianto.

    Non peggiore di tanti, ma sempre uno schianto.

    Annaspando sotto le sferzate pungenti della pioggia, Luscinia riprovò a sollevarsi, ma si sentiva così impacciata che le venne da ridere ancora una volta e ricadde all’indietro, ubriaca di fatica e vento.

    Doveva aver perso i sensi per un po’ dopo l’impatto: protetta dai seiynnes, non si era fatta un graffio. Quando la sagoma plumbea dell’isola era comparsa, sul mare agitato, color acciaio come il cielo, doveva esserci ancora luce da qualche parte oltre le nubi. Ora era piena notte.

    E siamo a Draco… finalmente!

    Come lo sapesse si sommò alle altre domande.

    Le venne un nodo alla gola, che ingoiò.

    Instupidita dalla debolezza, la giovane ricordò solo allora di avere dei compagni di viaggio.

    Puntellò i gomiti dietro la schiena.

    Per quanto il nubifragio la accecasse, quell’abisso nero che si spalancava a pochi passi era di sicuro il ciglio di una scogliera. Per ironia della sorte – o dell’Erede – sembrava che non si fossero mai mossi dal punto di partenza.

    La ragazza sbatté le palpebre per togliere la pioggia.

    Dove sono gli altri?

    Era sola? Agghiacciò, con una fitta al cuore, mentre immaginava di averli lasciati cadere oltre quel baratro durante l’atterraggio fortunoso. Si guardò attorno, con orrore crescente. Infine vide qualcuno. Era appena una sagoma, più scura delle altre in quella cortina d’acqua scrosciante. Annegava come tutte. Si muoveva, schiacciata dal peso della notte, ma l’ennesimo lampo ne illuminò le forme, riflettendosi sulla patina lucida che gli colava di dosso.

    Il busto e le spalle ben fatte si sollevarono dalla linea scura del suolo, ma il capo ciondolava come se non avesse la forza di sostenerlo. Il velo liquido dei lunghi capelli gli ricadeva davanti.

    Ed erano inconfondibilmente neri.

    Sembrava la stessa tempesta di quella notte.

    La stessa in cui aveva iniziato a uccidere coloro che – in molti modi – erano stati gli assassini della sua famiglia… ma non lo era. Il posto, il tempo e la stagione erano diversi. Tutto, ormai, era diverso.

    Tranne l’odore di sangue, che aleggiava insistente mentre usciva dalle ferite. Faticavano a rimarginarsi. E il sangue, stavolta, era il suo.

    Il gusto che, respirando, gli scivolava nella gola, non differiva poi molto da quello che Nücteus Dracòntos, ultimo re della Stirpe del Drago, aveva asperso sul suo talamo sterile.

    Anzi, era in parte lo stesso.

    Un tuono squarciò l’aria turbinosa e la furia della pioggia crebbe; alla semplice acqua, si mescolarono cristalli di ghiaccio grossi come uova di lucertola. Due folgori, intrecciandosi, s’inabissarono nel mare. Le gocce divennero feroci colpi di scudiscio.

    Mentre l’ennesimo tuono rotolava via, assordante, Mèlas sollevò gli occhi tra le ciocche filacciose dei capelli. Non sapeva dove fosse, ma l’intuiva.

    Ricordava il volo. O forse lo aveva sognato?

    Quando il sibilo del vento e la luce bianca accecante lo avevano fatto riaffiorare dal nulla, per un istante aveva creduto di essere impazzito.

    Il suono vibrante d’ali spiegate, il cuore che accelerava, la leggerezza del vuoto turbinoso, i brividi formicolanti su guance e braccia… Per un istante aveva dimenticato che Melamàndys non esisteva più.

    Per un solo pietoso istante aveva creduto di essere al sicuro tra i suoi artigli.

    Poi, il dolore si era avvinghiato a lui di nuovo, con forza. Il nero sguardo spento era annegato nel mare e, durante i due giorni di delirio, la vaga coscienza che Mèlas stringeva a sé aveva maledetto gli dei in ogni lingua conosciuta. Li aveva maledetti con la mente e con il cuore.

    Malamàndys era morto.

    Lui, ormai, aveva perso ogni cosa.

    Restava, beffarda, la cosa che odiava con ogni briciola del pensiero e dell’anima: la propria vita.

    A cosa gli serviva?

    Quale fottuta divinità l’aveva condannato a essere immortale? E per quali scopi?

    Per divertirsi a dilaniargli il petto quando coloro che amava scomparivano?

    Annegando sotto il nubifragio, Mèlas affondò le unghie nel fango e volse gli occhi verso la vastità scura del mare. Avrebbe voluto gridare la rabbia immensa che provava in faccia alla furia degli elementi, maledicendo anche loro. Avrebbe voluto sollevarsi in piedi, a braccia aperte, per sfidare il cielo a folgorarlo.

    … Salvato dalla folgore…

    Che sia, allora! urlò.

    Ma era troppo debole e ricadde pesantemente al suolo. Riuscì solo a raccogliere le braccia sotto il petto per appoggiarvi il viso.

    Privato di tutto, anche dell’orgoglio – finito chissà dove in quel tormento – iniziò a singhiozzare piano.

    Da involontaria spettatrice, Luscinia rimase muta sotto la pioggia battente. In silenzio, vide ciò che non avrebbe mai creduto; pudicamente abbassò lo sguardo, per ritrarsi da quella sofferenza non sua. Era davvero quello il mostro spietato che l’aveva quasi uccisa due anni prima?

    La risposta, ora, non le sembrava così ovvia.

    Attese, poi si alzò, sbattendo gli occhi sotto la pioggia, stordita, senza riuscire a smettere di fissare quel giovane sconosciuto, prostrato dal dolore. Non ce la faceva a ignorarlo.

    Il nero cacciatore non gli faceva più paura.

    Non in quel momento.

    La pietà era il solo sentire che le ispirava. Fu tanto intensa da scavalcare l’odio con cui lo identificava da ben due anni.

    Non lo avrebbe perdonato. Non lo avrebbe mai fatto.

    Ma, dopo quanto accaduto, non lo considerava più un mostro.

    A piccoli passi, incespicando tra fango ed erba, gli si avvicinò. Non aveva un preciso motivo per farlo, ma non esisteva più nemmeno un motivo valido per non farlo.

    Intanto si guardava attorno in cerca di Saphina e di Flòx.

    I fulmini continuavano a cadere.

    La giovane s’accucciò d’istinto e vide, nel luccichio violetto, che la terra beveva piano ampie chiazze di sangue.

    Lu’!

    Luscinia si volse e, dopo un attimo d’incertezza, mentre barcollava tra le raffiche di vento, sgranò gli occhi. Incredula.

    Comparsa da un punto imprecisato del lieve pendio che precedeva il salto della scogliera, Saphina si affrettava a raggiungerla, slittando in equilibrio precario mentre, con la destra, reggeva un ampio ombrello a scatto, di quelli con la stoffa divisa in spicchi di colori diversi, e nella sinistra, impacciata, brandiva una torcia elettrica da campeggio.

    Luscinia sarebbe rimasta meno annichilita se avesse visto uno sbarco alieno. Ma non era un’allucinazione. Colpita dal raggio ballonzolante, sbatté le palpebre senza riuscire a sanare l’incongruenza palese di quella scena.

    Io… Io devo aver sbattuto la testa mormorò fra sé. Passò una mano gelata sugli occhi.

    Stava sognando? Del resto di stranezze ne erano successe.

    Forse l’intero volo e tutto il resto erano solo un sogno da cui non si destava. Ma, quando abbassò le dita, la luce, l’ombrello e Saphina esistevano ancora, erano solo più vicini.

    Abbagliata, si difese gli occhi voltandosi.

    Quasi per caso, li abbassò a terra, dove fino a un momento prima era steso il ragazzo Avràya.

    Di lui restavano solo una scia d’erba schiacciata e tanto sangue, appena visibile nella luminosità incerta della torcia.

    Cadde un fulmine da qualche parte sulla terraferma e la notte sbiancò.

    Luscinia si tappò le orecchie.

    Per una frazione di secondo fissò, senza capire, una sagoma nera stagliarsi sul ciglio dell’abisso.

    Il vento furioso le strappò via dalle orecchie il grido incomprensibile di Saphina.

    Finalmente capì.

    Luscinia vide buio.

    Prese coscienza di ciò che faceva solo all’urto sul terreno viscido; dalla spalla, riverberò facendole sbattere i denti come nacchere, mentre si avvinghiava con le braccia e con le gambe al corpo consumato dello strano ragazzo. Del resto era così piccola che non aveva scelta.

    Pesava troppo poco per rischiare: una reazione opposta, e lui l’avrebbe trascinata nel vuoto.

    Lo immobilizzò, e la pioggia scrosciava ancora, da tutte le direzioni. Era come annegare.

    Pesta, spaventata, gelata, fradicia, consumata dalla fame prodotta dai seiynnes, sporca di sangue e fango, Luscinia trascinò, rotolando, il nero cacciatore lontano dal vuoto.

    Stringendolo con una presa disperata attorno alla gola, lo trattenne nella speranza che Saphina arrivasse subito a darle aiuto, prima che quello decidesse di opporle resistenza.

    Tremando di rabbia, gli sibilò: Non provarci di nuovo, o giuro su Dio che ti ammazzo io!

    Un’affermazione ridicola sotto molti punti di vista, ma ormai anche lei – in tutto – era arrivata al limite. O qualcuno si decideva a salvarli entrambi, o si sarebbe gettata di sotto con lui solo per uscire da quell’incubo.

    Dei Celesti, grazie!

    Un’esclamazione soffocata, un tonfo, e Saphina rispose alle sue preghiere.

    Il fascio di luce della torcia mulinava nel buio come una falena impazzita. La Guaritrice si occupò prima di lei, districandola dal resto.

    Lu’, stai bene?

    Lei strisciò nel fango, ritraendosi. Scrollò il capo. Dov’è Flòx? ansimò.

    Al sicuro, credo. Oh, Lu’, da quando siamo qui non ci capisco più nulla! È un luogo stregato! e così dicendo, teneva in bilico la torcia con la punta delle dita come se non si fidasse a stringerla.

    Trascinandosi in piedi, con le gambe che appena la reggevano, Luscinia le strappò l’oggetto di mano.

    Andiamo… biascicò.

    Non le importava neanche sapere dove: le bastava mettersi al riparo da quell’inferno d’acqua.

    Risalirono il pendio da cui era giunta Saphina, e lo fecero trascinando Mèlas che non si oppose in alcun modo, ma neanche le aiutò.

    Pur non essendo incosciente, il giovane non poteva neppure dirsi pienamente in sé, quindi il suo peso gravava sulle lunghe gambe della Guaritrice e su quelle sottili della figlia di Raya. Dopo l’iniziale rigidità della manovra per issarlo, il nero cacciatore ferito si arrese alla determinazione di entrambe. Incespicando un passo dopo l’altro, le seguì nella tempesta.

    Il vento, le raffiche di pioggia, il buio e il terreno che slittava sotto i loro piedi trasformarono il tragitto in una gara contro gli elementi.

    Malgrado lo sforzo eccessivo, le due ragazze non si arresero, né del resto potevano, perché se anche fossero corse avanti a chiedere aiuto ai misteriosi abitanti dell’isola, era probabile che al loro ritorno di Mèlas avrebbero trovato solo una scia d’erba schiacciata che conduceva al mare, al vuoto. E questo, né Saphina, né Luscinia – per motivi che nessuna di loro avrebbe condiviso con l’altra – lo avrebbero permesso.

    Chi hai visto nella casa? cercava intanto di scoprire Luscinia, rosa dalla curiosità.

    Ogni volta che gli occhi le cadevano sulla torcia, sentiva lo stomaco contrarsi per l’emozione.

    La speranza.

    Forse era giunta infine nel posto giusto!

    Non ho visto nessuno, eppure era abitata: illuminata, asciutta e con un bel focolare acceso cercava di spiegare Saphina, mentre batteva i denti e sputava pioggia. "Mi ci ha condotto Flòx appena dopo lo schian… ehm, l’atterraggio. Dei Celesti, Lu’: chi s’immaginava che tu fossi… Be’, la piccola mi è entrata nella mente per farmi tornare lucida e ci è riuscita, accidenti a lei! Non mi ha dato tempo di vedere come stavate. Ha detto: Insieme sono al sicuro e mi ha supplicata di sbrigarmi a portarla all’asciutto, o la tempesta l’avrebbe uccisa. Era debolissima. Abbiamo fatto appena in tempo. Varcavo la soglia aperta quando è caduta la prima goccia. Io avevo paura di quel posto; lei si è comportata come fosse la sua casa. E che casa! Incredibile! Flòx mi ha dato questo e scrollò l’ombrello, e quello!"

    Indicò la torcia con timore reverenziale. Era evidente che li riteneva oggetti magici.

    "Vai a prenderli, ora ha detto. Così ho fatto".

    Luscinia, a un soffio dal tracollo, annuì e basta. Non aveva la forza di fare altro.

    Risalito il pendio, il terreno era pianeggiante e ancora più esposto al vento. La corrente turbinosa per poco non li fece ruzzolare di nuovo giù verso la scogliera. Malgrado ciò, continuarono a trascinarsi avanti a forza quella deprimente, disperata processione perché, proprio di fronte a loro, alla fine di un sentiero, aggrappata a un gomito della scogliera, c’era la casetta illuminata a giorno. Apparsa dal nulla, immota nella tempesta, a Luscinia ricordò l’aura calda di un presepe.

    Alimentate dalla tenacia dello stremo, le ragazze puntarono senza indugi a quella méta di salvezza.

    Varcarono la soglia, e la quiete e il silenzio le accolsero.

    La porta sembrava tracciare un confine invalicabile tra il fuori e il dentro. A sesto acuto, bassa, restava spalancata sul buio della notte con il battente trattenuto da una pietra levigata, scolpita in modo grottesco perché somigliasse a una rana dai grandi occhi sporgenti. Non uno schizzo di pioggia o un sospiro di vento entrava oltre la soglia: ciò che i tre giovani si erano lasciati dietro, rimase relegato all’esterno, escluso dal tepore e dalla luce dorata.

    Lo sconcerto e il sollievo furono totali.

    Luscinia sentì uno strappo nella Rièn, ancora connessa ai seiynnes. Il loro influsso rimase fuori, con la pioggia. Le cedettero le ginocchia di colpo sotto il peso aggiuntivo, e con lei persero l’equilibrio i compagni di viaggio: crollarono tutti sul pavimento di cotto, in una pozza viscida di acqua, fango e sangue. Le ferite di Mèlas, malgrado il frettoloso tentativo della Guaritrice per tamponarle, non accennavano a richiudersi.

    Il nero cacciatore, infatti, rimase prostrato a terra e respirava appena, mentre Saphina e la ragazza minuta di Raya si sollevavano sui gomiti per contemplare, a bocca socchiusa, l’interno della casa.

    Sembrava una tana.

    Il soffitto basso, a volta, era ruvido e dipinto di calce bianca; come un tralcio ritorto di vite, un filo elettrico, partendo da una sorgente imprecisata dietro una nicchia – colma di scaffali e libri –, strisciava fino al centro della stanza, punto in cui penzolava un lampadario fatto a mano. Nulla di più di una lampadina a basso consumo, coperta da un tendaggio grazioso di conchiglie e perle colorate su una gabbia di fil di ferro. Qua e là, nella stanza circolare, spuntavano altre fonti di luce: talvolta si trattava di vecchie lampade a olio con stoppino, arrugginite e incrostate di mitili, come resti di un relitto, altre, invece, erano lucerne o semplici portacandele di ceramica traforata che qualcuno aveva disposto ovunque ci fosse spazio. Un camino grande come uno stanzino occupava buona parte di quella planimetria a groviera; le fiamme crepitavano con la violenza di un incendio e nulla, né alari, né parafuochi, proteggeva il tappeto di canapa intessuta e i cuscini disposti a terra. Libri aperti, giornali e pergamene erano gettati alla rinfusa sulla tavola che troneggiava al centro, insieme a un assortimento di pastelli, un calamaio, un antico compasso d’ottone, una bussola e una squadra di plastica.

    Sulla curva della parete opposta al camino, differenti tipi di orologio occupavano la superficie, tutti fermi in ore diverse. A ticchettare piano, con un dignitoso ronzio d’ingranaggi, era solo un vecchio pendolo, anche lui segnato dalle conseguenze di un naufragio. Una boccia tonda con un pesce rosso perplesso resisteva, in equilibrio, sulla sua sommità. Ai lati, in ombra, scaffalature pericolanti erano stipate di libri e dischi in vinile. Gechi di pallido rosa si attardavano fra i cartigli, fissando i nuovi, stralunati ospiti con sguardo altrettanto allibito.

    Quando Luscinia, in preda a un vago senso di nausea, adocchiò una radio degli anni ’20, disposta a terra, fra casse e bauli sprangati a fatica, proprio accanto al grammofono, riuscì solo a emetter un flebile Oh! Inginocchiata alla sua destra, Saphina gocciolava assieme all’ombrello che non sapeva chiudere e che, quindi, teneva sospeso a mezz’aria. Il suo stupore, malgrado fosse grande, non era di certo paragonabile a quello della fanciulla di Raya perché, a differenza di lei, non afferrava la stranezza degli oggetti alieni ammassati là: non aveva la chiave di lettura adatta per restarne annichilita. Per lei, quelle cianfrusaglie non significavano niente… Non ne intuiva neppure l’uso che, tuttavia, doveva essere strabiliante. Se non magico: come il tubo di luce che Luscinia aveva fatto cadere a terra appena entrata.

    Ossa di drago, che disastro!

    La voce roca, graffiante, ruggì alle loro spalle, affiorando dal nulla oltre la porta aperta.

    Saltando sul posto quasi in sincrono, le due giovani si voltarono di scatto per fronteggiare… un vecchio.

    Basso quasi quanto un bambino ma massiccio a giudicare da come gli si tendevano gli abiti addosso, aveva capelli ricci lunghissimi, ricci come viticci e completamente bianchi. Senza barba, il suo volto squadrato era un reticolo di rughe simili ad arabeschi su cui, però, spiccavano – incastonati sotto sopracciglia compatte – due occhi fatti d’oro fuso e fuoco, tanto intensi che si rischiava di bruciare i propri indugiandovi troppo a lungo.

    Saphina e Luscinia rincularono scompostamente.

    Quell’ometto che le scrutava, arcigno, le aveva terrorizzate all’istante malgrado in lui non ci fosse nulla di minaccioso. Anzi, a uno sguardo superficiale risultava perfino ridicolo perché, sopra la tunica grezza da eremita, aveva infilato una mantella cerata da pescatore con tanto di cappello spiovente e galosce di gomma alte fino al ginocchio.

    Se, come sembrava, quell’individuo misterioso era appena tornato da una camminata sotto la tempesta, era palesemente assurdo che fosse asciutto.

    Grattandosi la folta chioma ricciuta da sotto il cappello, l’uomo assunse un’aria seccata e perplessa.

    Ossa di drago… continuava a brontolare, osservando con sguardo sconsolato il pavimento allagato e sporco di fango e sangue, Stavo venendo a prendervi proprio per evitare questo.

    La sua contrarietà durò un lampo, quindi si dissolse.

    Notando lo sguardo atterrito delle fanciulle, sorrise.

    Un sorriso da rettile.

    Ce l’avete fatta ad arrivare. Bene.

    Detto questo, senza porre indugi o inutili chiacchiere, si chinò sul corpo inerte di Mèlas e, mentre Saphina tratteneva il respiro, posò la mano ruvida, tesa, sulle ferite. Quando la ritrasse, chiusa a pugno, grugnì soddisfatto, quindi gettò a terra con noncuranza due proiettili di piombo viscidi di sangue, che sfrigolarono fino a dissolversi sul cotto, lasciando un alone nero.

    Fatto ciò, il vecchio sollevò il giovane ferito fra le braccia come fosse un bambino e, passando in mezzo alle due spettatrici allibite, attraversò la stanza, diretto a un tendaggio fatto di sfere di legno infilate in modo da comporre un motivo geometrico. Lo scostò, rivelando un passaggio in salita, con gradini alti due palmi. Posato un piede inguainato nella gomma sul primo, rivolse un’ultima occhiata alle ospiti.

    Chiudete la porta. Subito ordinò, ruvido. Sparì oltre con il suo carico.

    Tornò giù dopo poco, spogliandosi della mantella. La porta era stata chiusa e la rana di pietra rotolata su un fianco, ma le due ragazze erano dove le aveva lasciate.

    Seccato, inarcò le sopracciglia.

    Toglietevi, devo pulire.

    Indicò il camino.

    Sedete.

    Ma…

    Il vecchio dagli occhi d’oro posò il mantello sull’appendiabiti, poi concesse la propria attenzione a Luscinia, che impallidì. Oppressa dall’attenzione silenziosa di quello sguardo, iniziò a balbettare.

    Lei… Lei è il sagus?

    Ovvio. Togliti di lì, ragazza, e asciugati. Anche tu! disse, scoccando un’occhiata gelida a Saphina. Vi ricordavo con più spirito d’iniziativa. Bah!

    Continuando a brontolare, prese da chissà dove secchio e ramazza, lo mulinò verso le due giovani per sfarle spostare, quindi pulì la pozza all’ingresso.

    Confuse, le due incespicarono fino al focolare. Non era solo la futile minaccia a sospingerle, ma una sorta di aura ardente che esalava dall’uomo. Sembrava assurdo, eppure la sua vicinanza trasudava calore quanto il camino stesso.

    Tolto il grosso dello sporco, il vecchio toccò il pavimento con un dito e l’acqua rimasta evaporò in uno sbuffo.

    Attraversata da una sorta di scossa, Saphina trattenne il respiro.

    L’anziano strofinò le mani nodose sulla tunica con evidente soddisfazione; grugnì ancora una volta, quindi fronteggiò le ospiti che ricambiarono a occhi sgranati, incerte se scegliere di sentirsi sollevate, o propense alla fuga.

    Il sagus intrecciò le braccia al petto.

    Ebbene, le apostrofò, chiedete.

    Sebbene ci fossero mille e una domande da porre in merito a… tutto, né Luscinia, né Saphina, dopo essersi scambiate una rapida occhiata, riuscirono ad articolare parola.

    Il vecchio socchiuse le palpebre su quei terribili occhi di fuoco e sogghignò, divertito.

    Sì, siete su Draco fece segno con il capo verso la fanciulla di Roa, e sì: l’Erede sta bene e riposa. Rivolse il medesimo gesto verso Raya.

    Aveva letto loro nel pensiero.

    Grazie per aver riportato la mia Ewrèd ammiccò, con uno scintillio dorato, ma adesso è ora che vi mostri dove alloggerete. Dovete riposare, prima. Il resto può attendere il lusso di una notte ancora.

    Detto ciò, le costrinse su per la ripida, bassa scala dov’era scomparso assieme a Mélas.

    Scavata nella roccia come fosse stata plasmata ad artigliate, saliva fino a una sala circolare su cui si aprivano quattro porte. Nemmeno là, nel punto più vicino al tetto, si udiva un suono della tempesta che infuriava all’esterno.

    Le stanze attorno non erano chiuse da vere porte, piuttosto da tende fatte di fibre vegetali. Pitture arcane e conchiglie decoravano il tutto.

    Il sagus spalancò per loro quella di sinistra. Lo spazio interno era imbottito come un nido da cova: coperte, cuscini e un piccolo assortimento di abiti di ricambio dai colori eccentrici completavano l’atmosfera. Sul soffitto, incastonati nelle nicchie, teschi levigati di rettile illuminavano l’ambiente chiudendo tra le mandibole piccoli lumi. Prima di spingerle dentro con una decisa pressione sui sederi infangati, il vecchio indicò loro la porta accanto.

    È il bagno. Non latrina: bagno! Luscinia Linaioli sa di cosa parlo soggiunse, a beneficio dello sguardo allibito di Saphina.

    Poi, con uno schiocco delle dita, spense tutti i lumi, tranne uno.

    Potete dormire o non farlo. Per il cibo provvederò io. Domani parleremo. Scendete quando volete, ma non pretendete che vi aspetti l’intero giorno. Buonanotte.

    Detto ciò, chiuse la tenda sulle loro espressioni allibite e le lasciò da sole, con lo stupore, la stanchezza e i dubbi stampati sui volti pallidi.

    Capitolo 3

    Le Porte di Eterna

    Le dita bramose di Hescana gli percorsero le braccia, poi la schiena per l’intera lunghezza; indugiarono, maliziose, sui fianchi, quindi accarezzarono i glutei con la certezza di avere potere assoluto su quel terreno caldo e vivo.

    Nell’impeto dell’abbraccio, il fruscio della paglia lamentò l’irruenza dei due corpi che vi rotolarono, nudi, abbandonati nel pizzicore fragrante.

    Le dita artigliavano carne come cercassero di penetrarla.

    Immersi l’uno nell’altra con il trasposto naturale, ineluttabile di un fiume che si mescola al mare, i due amanti non riuscirono a staccare le labbra umide, premute con forza quasi disperata finché, ansanti, non si separarono di nuovo per riprendere fiato prima di annegare insieme ancora nei rispettivi corpi.

    Le mani della donna sotto di lui lo cingevano, intrecciate dietro la nuca, e non volevano lasciarlo andare. Né ora, né dopo, né mai.

    Mèlas si staccò di colpo, inarcando il dorso.

    Le dita di Hescana riemersero dai suoi capelli neri, strappandone alcuni fili. Ma lui, in ascolto, non vi badò. Aveva sentito…

    Mèlas…

    Il mormorio languido di Hescana, il movimento lento, accogliente del suo ventre attorno al proprio fece defluire e ammutolire quella parte cosciente che lo aveva distolto.

    La mani, dolcemente screpolate dal lavoro, graffiavano la pelle del collo, del mento, delle guance, attirandolo.

    Aspetta… ancora un poco…

    Mèlas rispose al suo movimento e alla giovane sfuggì un gemito di piacere. Chinandosi, la sommerse sotto i lunghi capelli. Perfino a lui sfuggì un sospiro.

    Era venuto a salutarla… solo a salutarla.

    All’alba sarebbe partito per un ingaggio ad Árista.

    Hescana lo aveva… trattenuto.

    Lei voleva sempre trattenerlo, per qualsiasi viaggio, breve o lungo che fosse; diceva che lui era la sua famiglia, la sua casa, il suo cuore… e il suo unico terrore era l’idea di vederlo partire per non tornare mai più. Non le importava cosa avrebbe fatto mentre era lontano, né con chi avrebbe diviso una coperta quand’era di strada, purché tornasse.

    E Mèlas lo aveva sempre fatto.

    Fino a quel giorno.

    Il suo lavoro, la sua vita, il suo stesso essere non erano che un’esca staccata dall’amo, in balia della piena.

    Bagnato del loro sudore, Mèlas accelerò il ritmo degli affondi con la cautela di chi conosce bene la portata devastante della propria forza.

    Hescana gli piantò le unghie nella schiena.

    Lei era un miracolo.

    Il ragazzo la baciò, leccando il sapore dolce della vita che – inconsapevolmente – Hescana aspergeva come un fiore al tempo della Vergine. E, a quello scambio, avvolto in quel languido marasma, il miracolo avvenne: la barriera d’apatica indifferenza s’infranse, le sensazioni assursero alla dignità di emozioni primitive e, per il breve, totale, estatico momento dell’apice, Mèlas si sentì vivo.

    Vivo.

    Quell’istante vibrò a ondate roventi, fino alla mente: un’alba improvvisa che si ritrasse rapida, e alla luce subentrò il mare nero del nulla.

    Avvolti dal reciproco calore, i due giovani si strinsero forte e piano, senza osare sciogliersi. Mormorando canti infantili a labbra socchiuse, Hescana cullò il capo reclinato di Mèlas mentre il suo respiro sottile le riscaldava il petto.

    Il miracolo era compiuto.

    Non lasciarmi sola, amore sussurrò Hescana, accarezzandogli la tempia bagnata e i capelli sciolti sul volto umido. Le parole, stillate dal cuore, scivolarono sopra la dura corazza d’indifferenza in cui il dolore e il lutto avevano chiuso Mèlas da quattro anni. La sua anima era fuggita lontano e il cuore continuava a battere solo per inerzia, alterato di poco dagli istinti del corpo che voleva vivere. Con o senza il suo consenso.

    Dall’esterno della capanna echeggiò il richiamo rabbioso di una voce familiare. La collina su cui sorgeva risuonò dei passi di una persona.

    Mèlas si staccò da Hescana e si affrettò a recuperare gli abiti sparsi attorno.

    Avvilita, la giovane donna beveva con gli occhi ogni suo gesto.

    Alla fine, quando lui ebbe chiuso il laccio dei pugnali ricurvi fatti con gli artigli d’Ôzlas, trovò il coraggio per dirlo.

    Voglio un figlio da te.

    Mèlas si volse, immerso nella solita indifferenza.

    In silenzio, scosse il capo, negandole quell’unica consolazione alla propria solitudine.

    Persa e pietosamente fragile nella nudità disfatta del proprio corpo, invecchiato in modo precoce, Hescana sembrò avvizzire.

    Ne avevano già discusso. Lui era sterile, o avrebbe già concepito. Così le altre donne che gli si erano concesse. Perché insistere in quell’assurda speranza?

    La voce familiare, ora vicina, spinse Mèlas ad affrettarsi.

    Volse le spalle.

    Voglio un Erede per la mia stirpe.

    La mano protesa sulla porta si raggelò.

    La voce proveniva dalla donna, ma non era la sua…

    Con il cuore che martellava nel petto, il giovane tornò a guardarsi alle spalle. Fu allora che la capanna prese a tremare con violenza, minacciando di rovesciarsi come sotto un forte vento… o un battito d’ali.

    Il sogno si dissolse e un’ombra immensa cancellò ogni cosa, sovrapponendosi con voce innaturale ai ricordi.

    Un Erede…

    Ansimando nell’oscurità della stanza senza finestre, Mèlas spalancò gli occhi di scatto. Era sdraiato, supino, su un giaciglio morbido e tutto ciò che lo attorniava esalava un odore ferino, selvaggio; se non fosse stato per l’eccellente vista notturna, che gli mostrò l’arredamento inusuale del luogo, l’istinto lo avrebbe convinto di trovarsi nella tana di un animale.

    Un grosso animale.

    Un rettile.

    Un drago.

    Rammentava poco di come fosse giunto lì, solo sprazzi di brutale coscienza, alternati a gentile oblio.

    Chiuse le palpebre.

    Le riaprì.

    Si sentiva spossato, ma sano.

    Con le dita tremanti a causa dello strano incubo, cercò sotto i vestiti umidi e incrostati i bordi richiusi di due fori nel corpo.

    Chiunque l’avesse deposto lì, non si era curato di spogliarlo, né di tamponare l’emorragia, così ora l’intero giaciglio puzzava di sangue e fango.

    Dopo aver indugiato ancora qualche istante nell’immobilità, Mèlas prese a sciogliere i lacci delle vesti e a sfilarsele di dosso, continuando a restare sdraiato.

    Tolse tutto meccanicamente e rimase gettato dov’era, nudo.

    La pelle bruciava.

    Che fosse febbre?

    Se così, ne subiva l’effetto per la prima volta da quando esisteva. Notò, con un certo imbarazzo, che i fili vischiosi del sogno con Hescana avevano lasciato tracce. Anche quello, unito all’insolito desiderio di coprire tutto, era una prima volta da anni. Credeva di essersi lasciato alle spalle il pudore.

    Abiti puliti erano piegati sul bordo del giaciglio. Ne prese uno a caso e lo infilò dalla testa. Gli arrivava fino al ginocchio ed era di un rosso tanto cupo da sembrare nero. Era seta filata e cucita ad arte, in modo da non apparire nulla di più che una semplice camicia, stretta sullo scollo e ai polsi con dei lacci.

    Mèlas non ce la faceva a sollevarsi; voleva lavarsi.

    Rimase a fissare il soffitto basso: se si fosse messo in piedi, sarebbe stato costretto a rimanere piegato a metà. Anche per questo, di solito, odiava i luoghi chiusi. Ma non quel giorno. Nel suo stato era l’istinto stesso a spingerlo a restarsene rintanato al buio.

    Fissò la crosta ruvida della calce per ore, senza muoversi, in attesa che il corpo smettesse di bruciare, in attesa che il tremendo sconvolgimento che il sogno gli aveva instillato nel petto si dissipasse.

    Non voleva chiudere gli occhi nel timore che riapparisse. Eppure non voleva restare cosciente, perché la morsa soffocante della perdita di Melamàndys lo torturava. Vivere quell’ennesima sensazione di perdita era intollerabile

    Avrebbe potuto trovare sollievo… donarsi oblio.

    Accarezzò la dirtsà, che vibrava sottopelle.

    Non provarci di nuovo!

    Mèlas respirò piano: aveva sognato anche quel momento, o era avvenuto realmente?

    La voce di Raya esplose da qualche parte nella casa, seguita da altre esclamazioni femminili. Probabile fosse Saphina.

    Mèlas sbatté le palpebre: doveva essere l’alba. Fiutò piano, dilatando le narici.

    No, era quasi giorno fatto.

    Non si mosse.

    Smise di accarezzare la dirtsà.

    Non voleva altro che restare annidato nel buio, fino… fino alla fine.

    Decise di ignorare la vita che vibrava appena oltre quella ridicola tenda.

    Non lo riguardava più.

    Lui la rinnegava.

    Si fece cullare dal pulsare lento, sempre più lento del cuore, annegando nel proprio dolore.

    Saphina strillò quando le finì della schiuma negli occhi. Ormai la sua scorta colorita di imprecazioni dell’isola natale si era esaurita. Con l’esperienza derivatale dai numerosi bagnetti fatti alla sorella minore, Luscinia tamponò l’asciugamano sull’occhio offeso, quindi sollevò la cipolla della doccia.

    Sciacqua consigliò, pratica.

    Profondamente affascinata dal misterioso espediente che permetteva di attingere acqua da un luogo ignoto e averla a comando calda o fredda, la ragazza di Roa dimenticò il dolore e obbedì.

    Il profumo dolce di sapone alla frutta permeò l’ambiente stretto del bagno. Trovare una cabina per la doccia – di vetro piombato colorato, residuo dei rifiuti gettati in spiaggia dal mare – e un set completo di servizi igienici, con tanto di catenella e rotolo di carta, era stata una sorpresa tale per Luscinia da farla saltare di gioia.

    E pensare che il risveglio le era sembrato tremendo.

    Ogni singola parte del corpo doleva e tirava come se l’avessero rimontata nottetempo, in fretta e furia; il freddo e l’ansia le avevano concesso solo un paio d’ore di vero sonno: per il resto, il lavorio ininterrotto della mente l’aveva tenuta a occhi sbarrati e febbrili, tesi a cogliere il primo chiarore oltre la porta. Voleva che il mattino giungesse presto per parlare con il sagus. Era troppo eccitata e terrorizzata per aspettare. Temeva che, se avesse aspettato, anche quell’occasione di tornare nel suo mondo si sarebbe disfatta.

    Alla fine di tutto quel rimuginare, però, le esigenze fisiche avevano ottenuto l’ultima parola.

    Si era alzata, cercando a tentoni una latrina o un pitale, invece, aperta la porta, una luce elettrica a sensore le aveva dato il benvenuto, scintillando sull’enorme specchio a parete. Luscinia aveva quasi urlato di spavento, viste le condizioni del suo aspetto, poi, superato lo choc del volto smagrito e livido, e dei capelli ingarbugliati, aveva gridato, ma di gioia. Con tutto quel chiasso, Saphina l’aveva raggiunta subito dopo, destata di soprassalto.

    Anche lei aveva storto la bocca davanti al proprio riflesso.

    Sembriamo due selvagge commentò.

    Decidere di lavarsi immediatamente era stata una scelta unanime.

    Questa roba è pericolosa! brontolò la ragazza di Roa, strofinando gli occhi arrossati. Sicura che vada usata così?

    Era l’ennesima volta che lo chiedeva.

    Luscinia le tolse la schiuma con acqua fin troppo calda, poi fece lo stesso con se stessa. Sbirciò Saphina, seduta su uno sgabello da bagno. Ormai non c’era più motivo di avere pudore: dopo quanto condiviso, sembrava naturale anche confrontarsi sulle rispettive nudità.

    Con un sospiro d’invidia per le forme generose e aggraziate della compagna, nonché per la linea slanciata del corpo, Luscinia si massaggiò distrattamente la cicatrice sul petto e offrì il cipollotto della doccia all’altra. Avevano allagato il bagno, ma almeno erano pulite.

    Con un briciolo assonnato di curiosità, Luscinia si chiese dove finisse il vapore che usciva da una sorta di cappa, quindi prese il telo per asciugarsi e si avvolse.

    Come ti sei procurata quella cicatrice?

    La domanda improvvisa di Saphina la prese alla gola: non si era neppure accorta che lei la stava osservando da un po’.

    La risposta fu un sorriso mesto. Aveva senso tenere ancora segreta quella verità?

    Durante la Battaglia del Crocevia, Verdiana la Negromante assoldò un cacciatore di mostri per abbattere Raya… e lui riuscì, quasi, nell’impresa.

    Gli occhi asimmetrici di Saphina non la lasciavano.

    Tu sei Raya.

    Continuando a sorridere, ma senza gioia, Luscinia si arrese all’evidenza con un cenno.

    E quel cacciatore è Mèlas.

    Luscinia strinse le labbra, pur continuando a sorridere.

    Gli occhi bicolore si abbassarono per celare sorpresa e dolore.

    Perché io solo ne ero all’oscuro? Perché sono sempre stata all’oscuro della sua vera natura?

    Le si incrinò la voce.

    Perché tu guardi con il cuore, ed è un dono invidiabile.

    Sorpresa, la giovane dai capelli rossi guardò la compagna, così minuscola rispetto a lei, eppure, ora che iniziava a conoscerla davvero, così… grande. Ora comprendeva la paura che doveva aver subito per giorni, e il suo silenzio coraggioso.

    Come hai sopportato di dover viaggiare assieme al tuo assassino? chiese.

    Luscinia corrugò la fronte, ma poi la distese e scrollò le spalle. Non aveva risposta.

    Anche tu hai un cuore grande.

    La replica timida, sorridente di Saphina la fece arrossire. Poi lo stomaco di Luscinia brontolò, e lei arrossì ancora di più.

    Vado a vestirmi.

    Una scusa per battere in ritirata. Arraffò gli indumenti macchiati dal viaggio. Forse sarebbe stato meglio buttarli via. Ebbe un’esitazione prima di uscire.

    Strano…, mormorò, credevo di avere il ciclo, invece è scomparso.

    Un peso in meno.

    Saphina chiuse il rubinetto e si avvolse nel telo gocciolante.

    Se usi un Potere, la tua fertilità si interrompe disse. Se lo fai troppo a lungo, non tornerà più.

    Perplessa, Luscinia guardò le chiazze marroncine si sangue vecchio. Se così era, tutto si chiariva.

    Come lo sai?

    Ma Saphina scosse il capo e non proferì parola sull’argomento.

    Dato lo stato d’usura dei propri abiti, le ragazze non si fecero scrupoli nell’approfittare di quelli offerti dall’ospitalità del sagus.

    Discesero al piano inferiore della casa, ma con cautela, quasi in punta di piedi. Non sapevano, infatti, cosa aspettarsi.

    Luscinia si era intrecciata di capelli ancora umidi; indossava una canotta di seta sottile, di limpido color lavanda, e una gonna lunga, chiusa alla maniera orientale, di fine cotone bianco. Ai piedi, calzava solo dei semplici sandali in cuoio.

    Avvolta di seta verde ruggine, Saphina si era infilata in una veste a collo alto, abbottonata sul davanti con asole di lucido filo intrecciato. Era scalza.

    La stanza le accolse silenziosa e illuminata. Non aveva finestre.

    Esposta a Üsla, la porta spalancata ingoiava il primo sole estivo, mentre sull’altra parete era il camino a dissipare le ombre.

    La tempesta si era esaurita con le stelle.

    Raya! Chèza!

    Affiorando da un mucchio informe di cuscini, la piccola Flòx saltò in piedi e corse ad aggrapparsi alle loro gonne, felice di ricongiungersi alle compagne di viaggio. Indossava un’elaborata tunica di maglia sottilissima dal disegno mutevole. Al tatto, si capiva che il tessuto era fatto di metallo.

    Ci fu un momento di imbarazzata commozione nel ritrovarsi e accertarsi reciprocamente di essere vive e in salute.

    Alla fine, però, la morbosa curiosità di Luscinia ebbe la precedenza.

    Flòx, il vecchio che ci ha accolti ieri è davvero il sagus?

    E chi altro dovrei essere?

    Il ringhio basso della voce del sagus le colse ancora di sorpresa. Come la sera prima, l’uomo comparve oltre la porta, carico di sacche da viaggio. Le gettò accanto al fermaporta a rana con noncuranza.

    Il vostro bagaglio. Nella fretta lo avete dimenticato sotto il nubifragio, Vi consiglio di disfarlo e disporre il contenuto davanti al fuoco. Alcune cose vanno maneggiate con più cura.

    Flòx si staccò dalle ragazze e corse tra le gambe del vecchio. Non ci furono effusioni, ma era palese la soddisfazione dell’anziano personaggio nel vedersela trotterellare alle calcagna mentre attraversava la stanza per scomparire dietro una porticina che Luscinia aveva scambiato per un armadio.

    La colazione è quasi pronta ruggì la voce del vecchio, ovattata.

    Perplesse, le due giovani non fecero nulla per seguirlo, ma presero a occuparsi dei bagagli allagati.

    Di tutto ciò che disposero ad asciugare, Saphina trattenne solo la lettera di convocazione dell’Imperatrice giacché, grazie alla Ivhlèn dell’Incoronata, non una goccia era filtrata a macchiarla.

    Luscinia riabbracciò l’örhègan di Élberis come un amico ritrovato, sentendosi in colpa per averlo dimenticato nelle intemperie.

    Restava gettata in un angolo solo la borsa da sella del nero cacciatore, e nessuna delle due giovani, per motivi diversi, osò toccarla o sbirciare al suo interno.

    Il sagus tornò preceduto dall’odore intenso del caffè, mentre Flòx, con un sorriso da caimano, reggeva un vassoio di croissant in una mano e una tavoletta di cioccolata da un chilo nell’altra. Tazze e tovagliette comparvero dopo.

    Sgombrate il tavolo fu l’ordine perentorio del sagus alle ospiti. Provvidero con rapidità.

    Di fronte a tutto quel ben di Dio, Luscinia stava per scoppiare in lacrime.

    Sì, ormai ne era certa: su Draco c’era la Porta che conduceva al suo mondo… Magari era nascosta in quella stessa casa.

    Sedettero tutti e quattro a tavola, ma solo le Rayènses si gettarono sulla colazione con entusiasmo. Flòx finse di giocherellare con zucchero e molliche, ma l’anziano sagus posò i gomiti sul tavolo, unì la punta delle dita di fronte al volto e, abbassate le palpebre, attese.

    Dopo due giorni di digiuno, Saphina non si fece problemi di fronte a cibo per lei così esotico: assaggiò più porzioni di tutto. Quanto a Luscinia, rischiò di strozzarsi almeno tre volte, perché aveva un nodo alla gola che, oltre la fretta, la ostacolava a deglutire.

    Se si fosse fermata troppo a pensare sarebbe scoppiata in lacrime isteriche tant’era forte la nostalgia del suo mondo.

    Quando fu chiaro che le ospiti non sarebbero più riuscite a ingoiare uno spillo, il vecchio spalancò quei terribili occhi d’oro; bastò il gesto perché ottenesse la completa attenzione dei presenti.

    Questa è la mia ospitalità disse in modo fin troppo grave per un’affermazione così semplice. La casa è vostra.

    Perplesse, le ragazze si scambiarono un’occhiata.

    Oggi stesso, entro il tramonto, lascerò Draco.

    Cosa!? fu la protesta unanime.

    La mia prigionia qui è durata fin troppo: durante queste due interminabili stagioni, atti irreparabili sono stati consumati. Ora che il Sigillo che mi legava all’isola e all’esilio è stato infranto, devo destreggiarmi a salvare il salvabile. Oh, non che io sia stato uno spettatore inerte. Ho fatto sì che voi salvaste la piccola Erede, scortandola fin qui. Ma è stato poco, troppo poco.

    Luscinia si alzò: non ci stava capendo nulla, ma l’orribile sospetto che stesse per perdere quest’ultima occasione di tornare a casa la spinse a opporsi.

    Ma noi siamo venuti a cercare aiuto! esclamò, sconvolta.

    No la contraddisse il sagus, calmo. Tu sei venuta a cercare una Porta. Saphina Rò di Roa è arrivata per essere istruita da me. Quanto a Mèlas Mixòmbrotos Dracòntos è venuto a servire. Siediti, dunque, e ascolta.

    Luscinia, non potendo fare altro, obbedì.

    Il mio nome è Arèju, e di certo avrete udito parlare di me come primo Imperatore di Eterna.

    Saphina sgranò gli occhi, ma non proferì verbo.

    Non sono famoso per la mia pazienza, quindi cercherò di essere chiaro: voi non siete qui per vostra scelta, non siete qui perché il vostro animo o i vostri motivi personali vi hanno spinto a dare aiuto a una debole creatura bisognosa.

    Flòx ammiccò.

    "Voi siete qui perché io vi ho voluti a Draco. Occorreva che qualcuno mi liberasse dal Sigillo riportandomi l’Erede e ho usato voi. Ora, la mia intenzione è quella di usarvi ancora. La grande guerra che tu, ragazzina di Raya, ti sei illusa di aver fermato, sta riaffiorando perché ha solo cambiato forma. Eventi grandi e terribili accadranno. Era previsto, e io, assieme alla mia gente, non potremo che tentare di deviarli dal loro corso più devastante. Finora siamo riusciti a modificare una parte; se falliremo il resto, Eterna cesserà di esistere e anche parte di Raya verrà coinvolta nel collasso".

    Luscinia sbiancò: i suoi enormi occhi viola, ora lucidi, cercarono nel terribile sguardo del sagus la traccia di un inganno, ma non ne trovarono.

    Impossibile… sussurrò.

    Il vecchio si rivolse a Saphina, anche lei tinta di un pallore che poco aveva a che fare con la carnagione avorio.

    Tu sei vissuta a Roa, vicino al confine. Sai cos’è la Barriera?

    Lei deglutì.

    Gli anziani, parlandone, la descrivevano coma una grande magia di luce dei tempi antichi… Dicevano che oltre c’è la fine del mondo e il regno degli Dei.

    Il ghigno feroce del sagus la raggelò.

    Saggi i tuoi piccoli anziani, Guaritrice.

    Detto ciò, allontanò la sedia a si diresse verso la porta spalancata. Poggiò la schiena allo stipite.

    Venite e guardate le invitò.

    Quasi spaventate, le ragazze obbedirono. La prima ad affacciarsi fu Luscinia. Scrutò, incerta su cosa cercare, poi mise a fuoco una stranezza, una distorsione dell’orizzonte, simile all’effetto ottico prodotto dalla calura sulle distese di sabbia, solo molto più vasto.

    Per poco non barcollò all’indietro.

    Oltre la porta, oltre i fiori del prato rorido spazzato dal vento marino, oltre la bassa collina sopra cui volavano, apparendo e scomparendo tra i vapori, creature rosso fuoco immense, del tutto simili a draghi, invece del cielo c’era una nuda parete di… nulla.

    Sbattendo le palpebre, Saphina osò uscire dalla protezione della casa per vedere meglio, e allora la corrente furiosa di magia che affluiva e defluiva da quel muro di nulla le fece accapponare la pelle e sanguinare il naso.

    Oh!

    Incespicando, con le dita strette a fermare l’emorragia, tornò dentro. La sensazione svanì, ma lei non smise di fissare la cosa a occhi sbarrati.

    Fatto di riflesso, distorto e cangiante come seta impregnata di sapone, la muraglia occupava l’intero orizzonte, da Calione a Dèsar.

    Luscinia la fissava, straniata, fino a perderla in una o nell’altra direzione.

    Imponente, vero? Peccato che tagli Draco a metà.

    Vuoi dire che dall’altra parte… balbettò Saphina.

    Il sagus le indicò di andarsi a sedere, badando a tenere la testa sollevata.

    Esatto. Oltre la Barriera c’è il resto del mondo e la fine del nostro: Eterna è come Draco, un’isola leggendaria tagliata fuori dalla vista di tutti. Da secoli. Ma anche se noi non vediamo nulla, non significa che nulla esista. C’è vita in Ánvolit e vi posso assicurare che loro non si sono dimenticati di noi.

    Luscinia sedette, sconvolta.

    Sapeva della Barriera, ma vedersela incombere addosso era troppo.

    Loro? mormorò, d’istinto. Però conosceva la risposta.

    Ciò che è Obliato spiegò, seria, Flòx, con il mento appoggiato al bordo del tavolo e i ricci dorati a coprirle gli occhi.

    Loro vogliono ingoiarci da sempre riprese il sagus, provvedendo a versare con noncuranza della tisana alle ospiti provate. Quando, al tempo del mio trono, decisi di tagliare fuori un intero pianeta per salvare il mio Impero, sapevo che sarebbe stata una soluzione provvisoria, perché un giorno qualcuno avrebbe provato a superarla o a distruggerla. Quel giorno, dopo molti laboriosi tentativi, è arrivato. E, a questo punto, ho l’assoluta necessità di servirmi di voi.

    Saphina smise di sanguinare e fissò accigliata il vecchio, che sorrise.

    C’è un lavoretto da fare, e io non posso provvedere. Al momento, nessun altro può. I ruoli non possono essere trascurati dalla mia gente. Restate voi.

    Il ticchettio del pendolo scandì il silenzio assordante.

    Luscinia strinse i pugni, sudati.

    Ovvero?

    Voglio percorriate Eterna in lungo e in largo, troviate le Porte che la collegano a Raya e le distruggiate prima che vengano aperte e distruggano noi spiegò, con un ghigno feroce.

    Il colpo tramortì Luscinia.

    Mai! ringhiò.

    Per nulla impressionato, il sagus si strinse nelle spalle.

    Lo farete minimizzò.

    E perché mai dovremmo? azzardò Saphina, che si sentiva meno coinvolta, quindi desiderava ancora capire le intenzioni di colui che, forse, sarebbe diventato suo maestro.

    Perché Sara non ce la fa più! piagnucolò Flòx, oltre il bordo troppo alto del tavolo.

    L’Imperatrice è stata ingannata, intrappolata e torturata. Da mesi dura la sua agonia e finora la Rièn che la sorregge ci ha salvati dal disastro, ma è certo che cederà. E a breve.

    Coprendosi la bocca con la mano, Luscinia celò un singulto d’orrore.

    La Corona… Sara!

    Esatto annuì il sagus. È ancora incerto se cadrà prima la Corona o la sua Rièn provata. Nel primo caso, la tua bella Raya sarà distrutta. Le Ombre da secoli si annidano nel tuo mondo in attesa di poter strisciare qui tramite le Porte, scavalcando la Barriera che non riescono ad abbattere. Hanno un’Erede fantoccio e il Libro che la legittima. Alexàndra Eliotropos prenderà la Corona e farà quanto le Ombre ordinano, aprendo le Porte per farle passare. Se, invece, verrà meno la Rièn della nostra iphèis… ebbene, sarà lei stessa a consegnarci alle Ombre, abbattendo la Barriera e le Porte in un solo atto. Obliatho sommergerà l’isola felice di Eterna perché non c’è nulla qui che possa opporsi.

    A quel punto, anche Saphina cominciò a sudare freddo.

    E se liberassi Sara, invece di distruggere le Porte? propose Luscinia, disperata.

    Il vecchio scosse il capo.

    Fallirete. È già stata vagliata questa Via e nessun esito ha condotto alla salvezza. Non sta a voi liberarla disse. Gli intrecci di molte vite tra le più notevoli confluiranno laggiù, alla fine di tutto, e allora, anche se ciascuno avrà svolto il proprio ruolo, nulla andrà come ci si aspettava.

    In pratica ci stai dicendo che falliremo comunque! esclamò Luscinia. Non ho intenzione di distruggere le Porte. Io voglio tornare a casa!

    Se le Porte verranno violate e aperte tutte insieme, non ti assicuro che avrai una casa a cui tornare la minacciò. L’ancestrale Ivhlèn di chi squarciò Spazio e Tempo per giungere su Raya è potente. Immaginala come un vento impetuoso. Ora, visualizza due stanze con molte finestre. Se apriamo la porta che le unisce, non accade nulla; ma se invece spalanchiamo tutte le finestre oltre alla porta, lasciando che il vento fluisca… qualunque cosa ci sia in queste due stanze verrà travolta o cancellata e, in tutta onestà, io non auguro a nessuno di assistere a un simile scempio. Neppure a un essere tanto egoista da anteporre i propri capricci al bene di due mondi.

    Ferita, Luscinia arrossì e abbassò lo sguardo, sconvolta.

    Quanto tempo abbiamo per… Per fare quello che va’ fatto? chiese Saphina, spaventata ma padrona di sé.

    Sarò io a dirvi quando giungerà il momento opportuno. Prima dovrete essere preparati e istruiti.

    Il sagus le fissò intensamente.

    Tutti e tre: è necessario che siate anche un gruppo affiatato. Questa missione non sarà una passeggiata di piacere e la vostra sopravvivenza dipenderà interamente dalla collaborazione. Un’esitazione, e non ne vedrete la fine.

    Saphina abbassò gli occhi.

    Allora, forse, siamo le persone sbagliate mormorò, rigida.

    Il sagus inarcò un sopracciglio. Davvero?

    Siamo estranei, finiti insieme per caso strada facendo… sbottò, cupa.

    Falso la contraddisse, secco, l’anziano Imperatore. Nulla di quanto vi è accaduto è stato un caso, né casuali sono stati i modi e i tempi.

    Sospirò, esalando un sibilo tra i denti.

    Anche tu sei dello stesso parere, figlia di Raya? chiese, gettando uno sguardo severo su Luscinia, che si ritrasse dalla sedia. Perché chiedeva, se ascoltava i pensieri?

    I pensieri, non il cuore. Allora?

    Io…

    L’idea di riprendere il viaggio – un viaggio così orribile e disperato – al seguito di una ragazza sconosciuta e del proprio assassino le galleggiò nella mente come un macigno insostenibile.

    Lo penso anche io.

    Perché? insistette il sagus. Il tono era quello di un maestro che voglia far comprendere agli allievi stolti la loro stupidità.

    Con imbarazzo reciproco, le due fanciulle cercarono rifugio con lo sguardo in grembo, tra le mani strette sugli abiti estranei.

    Non affiderò la mia vita a chi ha cercato di togliermela sussurrò Luscinia, dopo poco.

    Il sagus grugnì. Si volse a Saphina. La giovane parlò in modo più chiaro.

    Io l’ho fatto, ammise, ma ora non mi fido più di lui, signore. Ho amato una persona che non mi ha mai mostrato chi è in realtà, e ne ho paura.

    Lo ammise candidamente, ma di tanto in tanto un tremito la incalzava.

    Il vecchio non disse nulla.

    Non si mosse: pareva diventato di pietra.

    Dopo una lunga pausa, parlò a voce molto bassa.

    "Paura e tradimento. Si dice: diffida di chi ti inganna o di chi ti usa. Tra la mia gente esiste una filosofia diversa, con una diversa capacità di percepire le cose.

    Guarda negli occhi il nemico

    e vedrai i tuoi riflessi;

    fiuta l’olezzo dell’avversario,

    e sentirai il tuo odore;

    tocca la pelle di chi ti è ostile

    e sfiorerai la tua;

    ascolta il suo grido

    e udrai la tua voce

    che parla per entrambi.

    Paura e tradimento: ciò che voi pensate possa dividervi, in realtà è il legame solido che vi accomuna. Meglio: vi rende pari, compagni che sanno riconoscersi. Non esiste unione più forte del condividere la medesima mancanza. Ho vissuto in ere dimenticate da voi Rayènses, ma in ciascuna ho veduto mille e mille volte la comunione di anime rese affini dall’aver sperimentato la stessa sofferenza, o il medesimo orrore".

    Luscinia e Saphina ascoltavano, perplesse. E seccate: il nero cacciatore era un punto dolente per entrambe.

    Non vi vedo convinte. Dopo tanto isolamento devo essere diventato un oratore davvero mediocre… brontolò il sagus, alzandosi. Stretti i pugni dietro la schiena, sotto il manto folto dei ricci, rivolse attenzione al fuoco che ardeva con vigore innaturale.

    Voglio narrarvi una storia.

    Flòx sogghignò e andò a gettarsi fra i cuscini a terra per meglio ascoltare, ma le due ragazze non si mossero.

    Risale a molto prima della mia venuta come Imperatore di Eterna spiegò, rivolto alle fiamme. Di certo a creature giovani come voi sembrerà eccessivo risalire a fatti tanto immemori…

    Appunto brontolò Luscinia.

    Senza voltarsi, il sagus sospirò in modo solenne.

    Nulla accade per caso, e tutto, a ogni atto, consegue. Ormai dovreste averlo imparato. Per capire, occorre sapere… ed è giusto questo il momento per farlo.

    Finalmente si volse: nel riverbero intenso del fuoco, le rughe sembravano fili arroventati.

    C’era una volta una terra verde di basse colline da cui, se rivolti a Calione, da qualsiasi punto si poteva sempre scorgere il mare sogghignò, facendo il verso al modo di narrare le fiabe. "Il reame adagiato su queste lande fertili si chiamava – e si chiama ancor oggi - Xènia. La buona gente di quel posto nasceva e moriva sotto l’ala benedetta della Casata del Drago, una stirpe sorta agli albori dei primi coloni di Raya con infuse tutte le benedizioni di un’antica divinità marina. Tutto nel reame era prosperità e pace: il basilèus, dal Nido del Drago, dispensava Legge e Giustizia e nella sua stirpe non v’era macchia. Ma un giorno, come sempre accade nelle storie, venne la guerra. All’epoca non esisteva la Barriera e le Libere Genti che avevano giurato l’Antica Alleanza erano periodicamente flagellate da ciò che si annida oltre le perdute Montagne Orientali, ovvero ciò che è Obliato. Essendo figli di un popolo orgoglioso, gli Xèniani accorsero a Üsla per prendere parte al conflitto lungo la frontiera, nella convinzione che valore e coraggio avrebbero concesso loro la vittoria. Ma gli anni passavano, i guerrieri più forti morivano senza onore lontani dalla loro terra e la disperazione prendeva posto nel cuore dello stesso Re del Drago, perché aveva perso laggiù i suoi quattro figli maschi. Il fronte avanzava, minacciando di ingoiarli a breve com’era accaduto già alle altre terre. Le Ombre strisciavano verso le Lande e nulla sembrava capace di fermarle. Allora il basilèus, memore dell’antica benedizione del dio marino, pregò giorno e notte perché nella sua stirpe venisse infuso più potere, abbastanza per superare un simile orrore. Fu saggio, e stolto: dimenticava che le suppliche agli dei sono esaudite, sì, ma secondo interpretazioni che gli occhi mortali non possono vedere; pertanto, quando la realizzazione giunse, egli non la comprese e anzi la combatté come una nuova disgrazia.

    In quegli anni, la sacra stirpe dei Brèthian abitava ancora questo continente. Essi avevano fatto retrocedere le Ombre in una grande guerra del passato, poi erano rimasti a vegliare i confini per secoli. Il nuovo conflitto iniziò perché la loro Gente era ormai in via di estinzione; gli ultimi stavano varando navi per tornare alla loro terra di ghiacci eterni, a Ero Müllit, perché i Rayènses si erano moltiplicati, sottraendo loro ogni cosa. Tra i pochi che esitavano ad andare, due gemelli, Ülith e Thülith, erano i maggiori per virtù e benedizioni della loro razza. Essendo nati qui, non conoscevano le terre degli Avi, così continuavano a percorrere le regioni dell’Antica Alleanza per difenderle, ove occorreva. Una vita errabonda, in un mondo dove non c’era posto per loro. Un giorno Thülith morì, ucciso da un’emanazione di Obliatho. Folle di dolore, il fratello inseguì quell’entità per giorni in una caccia spietata. Infine, ebbe la sua vendetta: trovò la creatura annidata nella stalla di un palazzo. Era il Nido del Drago.

    Ülith lo uccise, ma venne ferito.

    A soccorrerlo fu l’ultima Erede ancora in vita del Re del Drago: il suo nome era Cynèdoron, principessa di Xènia.

    Le ballate canterebbero il loro amore, che sbocciò a prima vista, se la Casata reale da allora, e per i secoli a venire, non avesse celato l’evento come una vergogna. E un tabù.

    Allora, come oggi, non esisteva per le stirpi Rayan abominio peggiore di una mescolanza fra generi diversi di umanità. Ma né il re, né il promesso sposo della principessa, Niktèus, poterono fare nulla, poiché temevano i poteri sovrannaturali dei Brèthian, considerati – non a torto – divinità.

    Disperato, il basilèus ricorse a uno stratagemma: convocò Ùlith e gli promise in sposa Cynèdoron con ogni onore. Non avrebbe rinnegato l’unica figlia, scacciandola come una vergogna, ma anzi avrebbe riconosciuto e benedetto l’unione, figlio sbagliatosolo a patto che lui tornasse a combattere e che la guerra finisse.

    Era una trappola mortale, a cui il Brèth non si sarebbe mai sottratto perché la lotta era parte della sua natura. Con la morte nel cuore, i due amanti si separarono, ma si concessero l’uno all’altro per evitare che lei fosse data in sposa ad altri durante la sua assenza".

    Lo sguardo del sagus si perse tra le fiamme; non un sospiro esalava da chi lo ascoltava.

    "La guerra terminò cinque anni dopo, quando io divenni Imperatore e creai Eterna con la Barriera. Una sconfitta nella vittoria. Ùlith tornò a Xènia, unico fra coloro che combatterono ai confini fino all’ultimo, ma Cynèdoron non esisteva più. Era morta dando alla luce il loro bambino, che non somigliava in nulla al padre e quindi il re, ormai vecchio, lo aveva preso come Erede.

    Ùlith perse la propria anima per il dolore. Raggiunse la tomba di Cynèdoron e lì fu trafitto a morte con la sua stessa spada – una dirtsà – da Niktèus, che aveva riconosciuto il figlio ibrido come suo e, privato della sposa, non avrebbe permesso che gli fosse sottratto l’Erede. Celò la verità nel sangue. Nulla di quanto accaduto fu tramandato.

    Il figlio di Ùlith e Cynèdoron crebbe nella convinzione di essere figlio di Niktèus; si sposò, fu re ed ebbe figli. Fu allora che la verità rinnegata divenne maledizione. Il secondogenito, dato alla luce con grande affanno dalla regina, era un Brèth. Occhi neri, obliqui, capelli del lucido colore dell’ossidiana, pelle candida come madreperla… Certo che la moglie lo avesse tradito, il re impugnò la dirtsà che aveva ucciso il suo vero padre e trucidò madre e neonato, Quindi maledisse il sangue corrotto: quello che, concesso come una benedizione di forza, era stato invece accolto al pari di una blasfemia.

    Da allora dieci secoli sono trascorsi, e in quest’arco di tempo, ogni due generazioni, nasce nella Casata del Drago un’Avràya dai tratti Brèth. Parallelamente si rinnova la vera maledizione della stirpe, quella invocata dal figlio di Ùlith: infatti, non un solo re di Xènia da allora è morto nel suo letto, di vecchiaia, ma sempre ucciso da un consanguineo. E così sarà finché la dirtsà, simbolo della colpa, non verrà consacrata nell’antica stirpe".

    Saphina fece una smorfia e si agitò insofferente sulla sedia. Il sagus la fissò.

    "Eppure otto anni fa la profezia stava per realizzarsi.

    Ma andiamo con ordine.

    Erano gli ultimi anni del dominio di Hìsicol il Tiranno, quando nacque per l’ennesima volta un neonato Brèth come Erede del basilèus di Xènia. All’epoca, il Nido del Drago era guidato da un giovane, Mixòmbrotos. Saggio, energico, sembrava che il suo regno fosse giunto nei migliori auspici. Eppure, in breve, le grandi aspettative che la gente di Xènia nutriva verso di lui si dissiparono, perché il suo primogenito maschio nacque ibrido. La vergogna fu ben maggiore, poiché il re rifiutò di annegare il neonato.

    Egli amava molto la sua regina e la supplica della madre fermò la mano che avrebbe dovuto annegare quella piccola vita. Mixòmbrotos inorridì all’idea di distruggere il frutto del loro amore, così lo salvò e, malgrado ogni pregiudizio, trasmise al figlio

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