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Meriavan
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E-book362 pagine5 ore

Meriavan

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Info su questo ebook

Meriavan è un insieme di suggestioni che ti catapulterà in un mondo meraviglioso e anche un tantino fuori dall’ordinario. Un mondo fatto di magie, animali parlanti, segreti rimossi, un eroe-ragazzino e anche una bella storia d’amore. Meriavan è un mix magico e intrigante che ti terrà inchiodato dalla prima all’ultima pagina.
La storia è senz’altro originale... un’epica lotta tra il bene e il male vista dagli occhi di un ragazzo, come pure i nomi dei personaggi e le creature fantastiche.
I personaggi hanno un carattere forte e lampante, ognuno con la propria storia, ognuno legato a suo modo all’altro. Di essi si conosce la storia e la “vivrai” con gli occhi del protagonista, ne conoscerai il carattere e riconoscerai i pregi e i difetti; persino il “cattivo” avrebbe qualcosa per cui poter sembrarti simpatico!
In Meriavan troverai molti animali che aiuteranno il protagonista. Ci sono cavalli, uccelli, pesci e soprattutto gatti, una folta colonia di gatti intraprendenti e imprevedibili. Scoprirai che gli animali magici sono ovunque a Meriavan e che puoi fidarti più di loro che dei tuoi simili.
LinguaItaliano
Data di uscita27 gen 2014
ISBN9788868855437
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    Anteprima del libro

    Meriavan - Fabio Marsella

    L'incontro

    Capitolo Primo

    Zebian

    Sembrava un giorno come tutti gli altri, però c’era un vento più intenso del solito che soffiava, quasi ringhiava, senza sosta. Un uomo anziano era seduto ad un tavolo e tra le mani aveva un libro antico; seguitava in una lettura lenta intrapresa da tempo e ogni tanto la interrompeva per riportare veloci appunti su un immancabile pezzo di carta. Con il passare delle ore il vento aumentava d’intensità mentre il vecchio provava un crescente stato di ansia che non gli permetteva di concentrarsi come aveva fatto sempre. Quel vento, conosciuto gelido e incessante, catturava la sua attenzione ad ogni percettibile vibrazione. Così, ad intervalli regolari, l’uomo rivolgeva lo sguardo fuori della finestra, in direzione nord, per ascoltarlo attentamente e sondare una ad una le raffiche sibilanti tra gli alberi e le case del paese. E ogni volta che tornava a concentrarsi cercava una determinazione più decisa, lanciando fugaci occhiate ad un angolo del tavolo dove teneva due oggetti a lui particolarmente cari. In un certo senso teneva d’occhio e d’orecchio il vento, studiava il suo antico libro e cercava conforto dagli oggetti: il vecchio sapeva che a quel punto nulla doveva sfuggirgli poiché quasi tutto stava per coincidere.

    Tre colpi alla porta, veloci, lo distolsero improvvisamente dai suoi pensieri e lo costrinsero ad alzarsi lentamente e con altrettanta lentezza ad andare verso la porta. Sull'uscio c'era un ragazzo:

    « Entra amico, stai tremando! », disse il vecchio preoccupato.

    « Grazie …oggi fa più freddo del solito », rispose il ragazzo e aggiunse:

    « ho riportato il tuo libro ».

    Facendo pochi passi, si avvicinò quasi al tavolo lasciandosi alle spalle la finestra e, dopo aver sbottonato la giacca, si rivolse nuovamente al vecchio come se volesse porgere delle scuse:

    « Sai, dovendo essere sincero, non ho capito molto di quello che ho letto ».

    Il vecchio si rivolse al ragazzo con in viso un’espressione benevola e rispose:

    « Vedi... non è importante capire subito il significato di un'esperienza, è invece importante viverla. Con il tempo ti accorgerai che in situazioni nuove o davanti a problemi ritenuti insolubili saprai già come comportarti. Dalla memoria risaliranno le esperienze appropriate alle situazioni e troverai due risposte, una antica e una nuova, nello stesso tempo; questo ti procurerà un dolce e duplice appagamento… non ti devi preoccupare.

    Adesso avvicinati… siedi qui! Ho una lunga storia da raccontarti e dovrai ascoltarmi bene ».

    Il vecchio e il ragazzo stavano in quella stanza, avvolta dalla penombra, quasi in silenzio. La poca luce che arrivava dall'esterno lasciava intuire che il pallido sole aveva già iniziato la sua discesa verso ovest. Il ragazzo si era accomodato dove gli era stato indicato e teneva appoggiato un avambraccio alla scrivania mentre con il braccio si reggeva la testa. I suoi occhi erano quasi luminescenti per l'eccitazione e la curiosità, adorava ascoltare ed era capace di farlo nel massimo silenzio. Il vecchio, invece, già in due occasioni aveva mostrato l’intenzione di principiare il suo racconto ma ancora si concedeva una lunga pausa per riorganizzarsi. Fu con la solita calma che alzò lo sguardo sino ad incontrare gli occhi del ragazzo dopodiché lente parole antiche come il libro che custodiva gli affiorarono sulle labbra. La voce cambiò divenendo armoniosa lasciando intuire che i pensieri stavano riemergendo da un dolce angolo della sua memoria. Appagato iniziò a raccontare:

    « Molto tempo è passato e rimane ben poco, quasi nulla, di un regno che fu felice, dove le giornate trascorrevano tutte piene di gioia con feste, grandi tornei di cavalli, e ogni sera il ballo a Palazzo. Molta gente andava e veniva da quel luogo incontaminato dove la felicità era tangibile, dove ogni cosa si svolgeva in armonia con la natura e con il prossimo, dove le giornate erano dedicate al lavoro, con serena umiltà di tutti, e al divertimento come puro piacere di stare insieme. Soprattutto era molto sentita la consuetudine di tramandarsi, attraverso i racconti, la tradizione poiché la memoria di tutti doveva essere salvaguardata come un immenso patrimonio e chiunque ne era coinvolto. Per questi motivi nessun altro regno poteva essere paragonato ad esso, a Meriavan: il regno meraviglioso.

    Era ormai prossima la Festa dell'Autunno, i preparativi fervevano, e tutte le persone erano sopraffatte dall’entusiasmo. Girava voce che quella sarebbe divenuta la più bella festa fra tutte poiché la terra aveva dato un raccolto abbondante e anche il nostro re, l'amato e sventurato re Beregor, avrebbe voluto essere generoso.

    Così arrivarono i saltimbanco, i giocolieri, una compagnia di attori ed anche un cantastorie, ma l'evento straordinario sarebbe stato l'arrivo dei Sette Cavalieri; l'attesa era diventata palpabile e coinvolgeva ogni abitante del reame.

    I Sette Cavalieri erano uomini fuori del comune, il coraggio era la qualità più ammirata e le loro gesta venivano raccontate nelle osterie e decantate in tutte le piazze. I cavalieri si stavano recando presso il regno d’Alcogar quando un emissario del re li raggiunse con un invito ufficiale. Essi pensarono che sarebbe stato scortese rifiutare l'invito del re e che Alcogar avrebbe potuto attendere un giorno di più.

    I Sette Cavalieri erano i depositari di un’antica disciplina equestre, infatti, erano stati educati da un grande cavaliere – ormai non più in vita – di nome Congar, e di questi insegnamenti non è rimasta alcuna traccia scritta. La tradizione e la riflessione erano, per loro, potenti armi spirituali, da tenere affilate costantemente, di giorno in giorno. Insieme a queste pratiche osservavano un rigoroso allenamento fisico, quotidiano: erano quasi perfetti, dentro e fuori. La loro maestria con le spade era diventata leggendaria, infatti, maneggiavano con incredibile destrezza il risultato di una forgiatura molto sapiente. Diversi chili di ferro componevano le loro spade e tutte e sette avevano le impugnature di oro scintillante, con cesellati i loro nomi: Chidir, Tolin, Shiren, Oledan, Idhirat, Heridh e Mozen. Ognuna delle spade portava un particolare riconoscimento, infatti, ciascuno di loro aveva scelto un animale e l'effigie di questo era stata incastonata sull'impugnatura vicino al nome: per Chidir un salmone, per Tolin una serpe, per Shiren un'aquila, per Oledan un procione, per Idhirat un lupo, per Heridh un gufo e per Mozen un orso.

    I Sette Cavalieri apparivano austeri ma quando si presentava l'occasione di un festeggiamento erano subito pronti. Con serena allegria sapevano accendere gli animi e in poco tempo un clima di festa s’impadroniva dei presenti. Il loro carisma era molto forte ».

    Il vecchio si interruppe per riposare ma anche per sondare il livello di attenzione del ragazzo che non dava alcun segno di cedimento. Rincuorato seguitò con tranquillità:

    « L’arrivo imminente dei Sette Cavalieri elettrizzò tutti, anche me; i preparativi della festa erano stati ultimati velocemente cosicché una gioiosa agitazione permeava ogni angolo della città. Il palco per i teatranti era stato allestito e, dal retroscena, provenivano le voci degli attori che ripassavano le parti. Il percorso per il torneo a cavallo era stato tracciato e i cavalieri si sfidavano con gli sguardi, molte erano le rivincite che si promettevano gli uni con gli altri, e la gente si radunava attorno ai loro beniamini per infondere loro coraggio; quella della Festa d'Autunno costituiva una vittoria importante.

    I giocolieri e i saltimbanco apparivano ovunque con le loro evoluzioni. Tre uomini compivano esercizi di prontezza che dovevano aver richiesto molto allenamento e abilità: due di loro si disponevano a circa due o tre metri di distanza fra loro ed un terzo volteggiava dalle spalle di uno a quelle di un altro con incredibile destrezza. Un odore di bruciato si sentiva nell'aria a causa di un uomo molto peloso che lanciava lingue di fuoco dalla bocca. I bambini erano i più attratti e gli adulti si fermavano con la scusa dei bambini. Ad ogni angolo delle strade si trovavano meravigliose tavole imbandite di squisite vivande: carni arrostite, pesci alla griglia; ogni sorta di dolce era stato preparato con gran sfoggio di fantasia: torte di panna, di cioccolato, di crema e poi crostate, budini, ciambelle, frittelle. Molte qualità di frutta arricchivano lo spettacolo con contrasti di colori bellissimi; tutti sarebbero stati soddisfatto. In quel giorno era palpabile un clima di serena baldoria, tutta la gente cantava, ballava, e i bambini correvano spensierati, giocando come solo loro sanno fare. Per tutti sarebbe stata una festa indimenticabile.

    Ma ricordo, in maniera particolare, che molta della gente giunta in città si era radunata nei pressi del vecchio Colonnato per ascoltare il cantastorie. Dopo una lunga e ingiustificata attesa costui arrivò e la sua non fu né una bella storia né tanto meno divertente. Raccontò di regni disperati ridotti alla fame; di gente che moriva inspiegabilmente; di bambini svaniti non si sa dove; di raccolti distrutti dalle forze della natura. Raccontò anche di una gran povertà che regnava ovunque e di un vento, gelido ed incessante, che soffiava per tutti i regni senza l'intenzione di placarsi. Disse che a queste situazioni non c’era alcun rimedio e neppure i Sette Cavalieri potevano qualcosa: di loro non si sapeva più nulla. Quella storia fu così triste che molti iniziarono ad allontanarsi poiché non avevano mai provato quello stato d'animo e il gelo iniziò a impossessarsi di loro; quel sentimento sconosciuto fece la sua comparsa, per la prima volta, a Meriavan.

    Qualcosa stava accadendo ma la gente non si rendeva conto. Fu così che il cantastorie rimase solo e, quando l’ultima persona gli voltò le spalle, egli trattenne a stento una risata. Sul viso aveva impressa un’espressione compiaciuta accompagnata da un sorriso ironico ma, soprattutto, aveva l’aria di colui che sapeva di aver compiuto un buon lavoro, in fondo sembrava, a tutti gli effetti, un cantastorie d’esperienza che sapeva suonare con maestria le corde dei sentimenti e delle emozioni di coloro che lo ascoltavano. Così ripose con delicatezza la chitarra nella sacca ed io riuscii a leggere velocemente una parola, forse il suo nome: Dhacis. Dopo aver riposto lo strumento, sistemò con accortezza il bavero della giacca e una lunga sciarpa che aveva con sé. Mise a tracolla la sacca e con passo svelto, scomposto, quasi ridicolo, s’indirizzò verso nord e di lui non si seppe più nulla.

    Venne la sera e i Sette Cavalieri non arrivarono in città, come non arrivarono mai a Meriavan e ad Alcogar, di loro non si ebbe più notizia ma la festa andò avanti lo stesso, con uno spirito diverso però. Improvvisamente si levò un forte vento e al contempo il cielo diventò scuro, quasi nero. La gente stupita si guardava attorno, cercava riparo mentre tutto era gettato a terra e quel vento gelido non dava l'impressione di placarsi. Quel vento, il Mobiur infatti non si placò, non si è mai placato, esso è tuttora tra noi, è ovunque. Qui a Meriavan, ormai… viviamo così da moltissimo tempo ed io solo ricordo come si viveva allora. Tu stenti a credere al vecchio Zebian, hai sempre vissuto così, per te questa è la normalità, ma ti mostrerò alcune cose e lascerò che tu rifletta, Semiur, perché » , il vecchio fece una breve pausa fissando il suo ospite dritto negli occhi e aggiunse, « sapevo che saresti venuto. Sei solo un ragazzo ma non un ragazzo comune. »

    Con queste parole Zebian concluse il racconto congedandosi in fretta.

    E così il vecchio aveva finalmente preso, con sofferenza, la decisione di raccontare tutto e solo lui sapeva quanto aveva atteso il ragazzo insieme a quel momento. Negli occhi del giovane, da tempo, egli aveva notato la curiosità ma soprattutto la voglia di conoscere e la straordinaria dote di saper ascoltare in silenzio. Parlando con lui, Zebian provava una sensazione particolare: era come se assaporasse le parole una ad una e nel cervello avesse un palato intellettivo.

    Avrebbe raccolto tutte le forze per dargli la conoscenza.

    Quella sera Zebian aveva un animo decisamente diverso e cenò con appetito. Poi raggiunse il letto con le ultime poche forze che una giornata estenuante gli aveva lasciato; si adagiò cautamente sul letto morbido ed ascoltando il Mobiur, aspettò il sonno. Il vecchio Zebian se ne era sempre stato in disparte dedicando la sua vita alla contemplazione e all'apprendimento, tanto che molti in città ignoravano addirittura la sua esistenza.

    Viveva in una piccola casa a circa dieci minuti di strada dal Palazzo Reale e vicino a questa c’era una quercia molto grande dove egli ogni tanto saliva per riposare e pensare in pace. In casa teneva poche cose, l'indispensabile: poteva prepararsi un pasto veloce, aveva del vino, un letto ma soprattutto molti libri. Tra i tanti oggetti e carte che aveva attorno a se riusciva subito a trovare un’immancabile pezzo di carta ed una penna per poter appuntare velocemente i suoi pensieri; era diventata un’abitudine, quando questi gli balenavano per la mente, di trascriverli sulla carta vergini così come erano venuti, senza le sofisticazioni dovute alla riformulazione.

    Aveva un’aria pensosa che insieme al suo portamento erano diventati delle caratteristiche particolari come pure la corporatura che lasciava intendere che un tempo il suo fisico era stato forte e agile. Si poteva ancora vedere il segno di quella che era stata una muscolatura temprata ed anche molteplici cicatrici. Il suo portamento era provato ma ancora deciso, camminava un poco ricurvo su se stesso e si aiutava con un bastone. La sua persona nel complesso figurava gradevole: il viso e la capigliatura bianca, in perfetta armonia con tutto il resto, lo facevano apparire ancor più saggio. La faccia era bella e rotonda, ma soprattutto ad ispirare simpatia erano i suoi piccoli occhi luminosi e incassati nelle grosse orbite scarnite, superate da una folta peluria anch'essa bianca. La bocca era piccola, le labbra sottili ed esangui lasciavano intravedere gli unici due denti rimasti, nella mascella inferiore verso destra: erano marrone, grossi ed inutili. Il naso pareva un uncino con una pallina di carne rosea all'estremità, questo era veramente buffo e buffe erano anche le orecchie rotonde e a sventola, sempre infiammate ed intonate alle gote paffute. Infine, una folta barba bianca cascava generosa coprendo il collo e la sensazione di morbidezza e leggerezza di quella barba erano le prime a tornare alla mente quando ci si ricordava di lui. Nel complesso Zebian, anche a prima vista, suscitava un sentimento benevolo e lui non tradiva le attese.

    Il sonno arrivò dopo pochi minuti senza che alcuna resistenza fosse opposta da Zebian il quale, cercando la perfetta comodità mentre abbracciava il cuscino, permise agli istanti più intensi della giornata di dissolversi lenti per lasciare spazio ai piacevoli ricordi della gioventù andata. Fu così che il vecchio si addormentò quasi beato, con le raffiche del Mobiur in sottofondo. Cullato dalle parole del racconto offerto a Semiur rivide l’amato e perduto regno.

    Meriavan

    Meriavan era stato un regno meraviglioso con immensi prati verdi e rigogliosi boschi di faggi e castagni. Tra essi scorrevano abbondanti ruscelli che spargevano il loro canto mai uguale fino a raggiungere il grande Fiume; questo attraversava il reame ed era Lui che un tempo portava la vita, molti pesci e molta gente. In quelle acque generose si rispecchiavano il cielo azzurro e gli uccelli che si rincorrevano mescolando il loro canto ad evoluzioni ammirevoli.

    La vita si svolgeva tutta attorno al fiume, infatti, la più grande città del regno era sorta sulle sue rive: il fiume si chiamava Serin e la città Serina. Il Serin nasceva dal Monte Modin, a nord, e, prima di raggiungere la città, a molte ore di cammino, il suo percorso generava una cascata straordinaria, per questo denominata Grande Cascata. A Serina il fiume formava tre grosse insenature e i primi insediamenti sorsero proprio a ridosso; essi costituivano il nucleo storico della città e quello che era il cuore di Meriavan. Dopo l’arrivo del Mobiur, il percorso del fiume, come la Grande Cascata e pure i ruscelli, diventarono muti e, per molti, quasi tutti, questi cambiamenti non costituivano più neanche la differenza tra un tempo di benessere e un tempo di oppressione poiché tutto era ghiacciato e immobile.

    Nei pressi della seconda insenatura sorgeva il Palazzo di re Beregor e si intravedeva ancora la bellezza di un tempo lontano, poiché le forme architettoniche erano rimaste inalterate nella loro semplicità, nonostante gli effetti devastanti dell’abbandono. E, per un breve periodo di tempo, l’intenzione di fare qualcosa si manifestava, con rabbia, nell'animo di molti che guardavano la costruzione. Poi, lentamente e silenziosa scemava ogni volta, senza lasciar traccia: un pezzo importante di Meriavan era ancora lì e giorno dopo giorno si degradava sempre di più. Nonostante tutto, il Palazzo possedeva ancora il suo fascino poiché sembrava sbocciare dalla roccia sottostante, a causa del fiume che, creandosi il letto, l’aveva fatta affiorare, levigata e brillante nell’antico passaggio del Serin.

    La costruzione era composta da tre corpi principali: l'enorme portale d'ingresso con il ponte levatoio e, ai lati di questo, due torri alte una ventina di metri. Appena entrati si presentava un giardino enorme ed era facile immaginare la bellezza delle piante e dei fiori in primavera …quando la primavera ancora arrivava a Meriavan.

    In fondo al giardino una rampa di cento scalini esatti portava alla costruzione più importante dove c’erano gli alloggi del re, diversi saloni, la biblioteca reale accessibile a chiunque, ed un grosso salone per i ricevimenti e i balli ...di una volta. Questa costruzione era un enorme quadrato di sei piani con diverse finestre, bifore e trifore ad ognuno di essi; in corrispondenza di tutte le trifore c’era un balcone e il più bello era quello che si affacciava sul giardino. Ai lati del quadrato sorgevano quattro torri circolari, ciascuna avente due balconate, merlate con agevole finezza, ed il tetto era costituito da un cono assai pronunciato sormontato da una grande bandiera di rame, ossidato; era spezzata e sembrava che dovesse cadere da un momento all’altro ma nessuno se ne preoccupava. Infine il terzo corpo era situato alla destra dell'ingresso e formato da una costruzione rettangolare su due piani ospitanti un insieme di alloggi. A un lato di questa sorgeva una maestosa torre costruita in due tempi: il basamento era quadrato, largo venti metri per venti, e alto, forse, quaranta metri. Sopra di questo sorgeva un’ulteriore torre circolare con il tetto conico e un balcone merlato e, alla stregua delle altre torri, era alta circa venti metri. Essa era ed è chiamata da tutti la Torre delle Lacrime. Il nome, stranamente, non influiva sul giudizio complessivo: il Palazzo di re Beregor e di Meriavan era semplicemente fantastico.

    Di fronte al Palazzo c'era il primo ponte della città ovvero il Ponte Bianco, interamente costituito di marmo. Questo ponte era considerato molto importante poiché fu il primo ad unire le Terre dell'Ovest con quelle dell'Est. Altri due ponti sorgevano presso le altre insenature: quello a nord, chiamato il Ponte dei Pescatori, e quello a sud, il Ponte dei Mercanti. Per tutta la città, ma in maniera particolare nei pressi del Ponte dei Pescatori, viveva una folta colonia di gatti la quale si era divisa il territorio senza arrecare alcun fastidio …anzi. In poco tempo, però, la colonia fu decimata e gli ultimi esemplari eliminati, con tecniche ricercate e crudeli, da una mano malvagia. Così nessun gatto girava più per Serina, la città era sensibilmente cambiata da prima, soprattutto per chiunque abitasse nei quartieri dei pescatori, in special modo per i pescatori stessi: non c’erano più gatti che aspettavano il loro ritorno sulle rive del fiume.

    Un grande fiume e tre grosse insenature. Per via di questa conformazione, a nord e a sud del Palazzo, si erano sviluppati due tipi di città e tuttavia non si era mai creata una distinzione netta fra le due. Era re Beregor che vigilava attento per garantire l'equilibrio, togliendo e concedendo equamente, inoltre amministrando le poche leggi, emanate solo da lui, con straordinario senso della giustizia e per questo era ben voluto.

    Re Beregor, però, non si faceva vedere più con la periodicità di un tempo e l’ultima volta era stata in occasione di una divergenza riguardo una questione di terreni confinanti. Doveva sentenziare e così fece riportando la normalità e in quell’occasione si vestì molto formalmente portando con se anche scettro e corona. A molti parve strano, soprattutto a Zebian, ed effettivamente l’occasione non richiedeva tutta quella solennità, però, nessuno si interrogò più del necessario, a differenza di una sola persona, e l’episodio fu presto dimenticato. Forse quel giorno re Beregor si affacciò alla finestra del suo palazzo per l’ultima volta e furono in pochi a collegare la solennità che volle dare alla sua persona in associazione all'ultima apparizione davanti al popolo di Meriavan.

    La sua figura superba riempì la finestra dalla quale parlò. Era un uomo ormai vecchio ma aveva ancora il portamento fiero di un re e il passo non era più deciso, come una volta, però ancora sicuro. Indossò una tunica bianca candida, sopra di questa una casacca porporina, e dalle maniche come dal colletto sbuffava la tunica creando un ottimo risalto. La casacca, bordata di ricami dorati, portava applicata sul petto un’asta in verticale, tre segmenti in orizzontale e uno obliquo che idealmente tagliava in due quella specie di simbolo.

    Sul volto aveva un’espressione altera ma disturbata da un sentimento che teneva segreto e in quell’ultima occasione guardò il suo popolo con angosciata vergogna nonostante fosse consapevole che a Meriavan tutti ignoravano quello che era stato il suo comportamento, tranne una persona. Il volto era segnato da eventi straordinari e la fronte conquistava ogni giorno sempre più spazio togliendolo ai capelli ma ciononostante questi erano ancora molti, neri e lucenti: Beregor li portava lunghi ai lati, fin sotto le orecchie, quasi a lambire le spalle. Gli occhi erano regolari ma le orbite si presentavano come sprofondate nel cranio e sotto di esse si notavano gli zigomi, appena pronunciati, che rilasciavano nuovamente spazio al vuoto, sino alle ganasce. Le pupille erano minuscole ma di una vitalità straordinaria, perfettamente intonate con le sopracciglia folte e corvine. Il naso adunco, sottile, colpiva anche l’osservatore più distratto e forse in gioventù, quando era più in carne, quel naso non suscitava sorrisi subito soffocati oppure occhiate spaventate e in fretta distolte, in modo particolare dai bambini; sapeva di essere notevolmente invecchiato e quello era il suo ultimo pensiero.

    La bocca completava quel viso provato dagli anni, dal dolore e dall’angoscia. Le labbra erano quasi inesistenti, sottili ed esangui sembravano inanimate, e quando parlava queste si muovevano appena, lasciando intravedere qualche dente. Era malato. Da diverso tempo le sue giornate non erano più quelle di una volta e trascorreva gran parte delle ore a pensare e riflettere. Un’importante questione l’affliggeva togliendogli la voglia di vivere di giorno in giorno e non sarebbe più guarito da quella malattia: lo sapeva. Ogni volta che chiudeva gli occhi sperava che fosse l’ultima, ma il rammarico tornava con rinnovata foga dopo poche ore. Ormai non sarebbe vissuto più a lungo, avrebbe lasciato Meriavan senza un erede e questo lo angosciava profondamente inoltre avrebbe portato con sé quell’atroce segreto frutto di un patto scellerato. Al termine della sentenza Beregor rimase in silenzio più del dovuto, quel tipo di pause non erano nelle sue abitudini, guardò in ogni direzione cercando chissà quale particolare, e guardò il Monte Modin con pena. Posò gli occhi su quasi tutti i presenti, una frazione d’istante per ciascuno, poi prima di rientrare definitivamente guardò per l’ultima volta Serina.

    La città prima dell'arrivo del Mobiur era molto popolata, attiva, viva, e tutta la gente sempre indaffarata a preparare qualcosa poiché ogni piccola occasione costituiva un motivo di festeggiamento. La vita però era profondamente cambiata e si svolgeva in maniera del tutto diversa: il Serin ghiacciato non permetteva a nessuna barca di solcarlo dolcemente come un tempo e la pesca avveniva effettuando sulla superficie del ghiaccio dei fori ma il ricco raccolto di una volta non si praticava più, il salmone era scomparso. Il cielo azzurro e limpido faceva parte anch’esso del ricordo, il sole non si vedeva più splendere, infatti, durante il giorno c’era solo una luce flebile come al tramonto, e le uniche evoluzioni erano quelle dei corvi accompagnate dal loro gracchiare poco aggraziato. Ogni tanto in cielo compariva un'aquila e tutta Serina si fermava col naso all'insù. Qualcuno, le prime volte, aveva azzardato un’interpretazione, considerando quel volo silenzioso e perfetto un segno positivo ma l’aquila arrivava e se ne andava senza che nulla accadesse: la gente riprendeva il suo vivere triste e quell'aquila …pareva che avesse comunque volato per un attimo nei loro cuori. Nessuno era riuscito ad interpretare quel segno, forse perché non era questione di riuscirci ma di volerlo o di saperlo. Soltanto Zebian aveva notato da subito l’aquila e ogni giorno ne attendeva il ritorno.

    Dalle colline delle Terre dell'Ovest il paesaggio appariva sicuramente diverso da quello di un tempo e le valli offrivano solo un’immagine inanimata e desolante attraverso i prati abbandonati e grovigli di rovi pericolosi che si erano sostituiti all’erba. Tutto rifletteva grigiore e sterilità: i ruscelli non rimandavano più il loro canto perché ghiacciati anch’essi al punto che la terra pareva si fosse lacerata per permettere al suo dolore di uscire: un dolore gelante, un grido muto permeato di morte.

    Il Serin appariva come un serpente di ghiaccio immobile e la gente non si recava più sulle sue sponde per salutare il ritorno dei salmoni i quali, prima del Mobiur, risalivano la corrente puntuali ogni anno. Verso sud s’intravedeva un enorme barriera di nebbia: violacea, densa, sempre in movimento, un movimento lento e perenne che faceva sembrare tutto una danza instancabile. Oltre quel limite visivo nessuno sapeva o poteva immaginare cosa ci fosse.

    A nord, solo in poche e rare occasioni, si poteva scorgere la cima del Modin, infatti, era sempre avvolta da un vapore bianco sporco che le correnti agitavano costantemente, come se una terrificante forma di vita dovesse apparire da un momento all'altro. Tremendi temporali si scatenavano quotidianamente con straordinarie folgori che balenavano nel cielo grigio rischiarando tutt'intorno e lasciando impresso a lungo nel cielo il segno di un’energica e vitale potenza. L'immagine che appariva da Serina era inquietante: la fitta rete lasciata dal passaggio delle saette dava l'impressione che, in un preciso punto, qualcosa attirasse quella potente energia. Tutto questo per gli abitanti di Meriavan non costituiva più una novità. Ad ogni folgore e ad ogni tuono la loro attenzione era sempre distolta e, anche senza rivolgere lo sguardo a nord, loro sapevano cosa stesse accadendo e non potevano dimenticarsene.

    Sempre verso nord, a circa metà strada in linea d'aria tra il Monte Modin e le colline, un tempo si vedeva un arcobaleno nascere dalla Grande Cascata, ma anche quello spettacolo era svanito. La Grande Cascata si presentava come un enorme ammasso d’acqua gelata, immobile e senza vita. Pareva un gigantesco lenzuolo grigio inamidato, tra le sue pieghe la poca luce del giorno filtrava a malapena, e le tonalità di grigio si susseguivano fino al colore eterno, il colore del lungo viaggio o della solitudine. E proprio quelle pieghe portavano all'immaginazione la forma di un enorme organo cadente con le sue canne che si alzavano per una cinquantina di metri. Quasi dal centro di quelle colonne irregolari usciva senza sosta del vapore e l'impressione era che proprio in quel punto ci fosse un'apertura. Si udiva provenire uno strano lamento che mal s’intonava con la macabra melodia generata dal Mobiur il quale s’incanalava tra quei profondi anfratti rendendo tutto ancor più spettrale.

    L'immaginazione, anche la più coraggiosa, doveva arrestarsi davanti a quegli squarci che sembravano nascondere chissà quale orribile immagine: coloro che si erano trovati nei pressi della Grande Cascata ne erano rimasti attratti e non avevano più fatto ritorno.

    Il punto migliore di Serina per ammirare l’arcobaleno della Grande Cascata era sempre stato il Ponte dei Pescatori ma in pochissimi ricordavano quello spettacolo e passando sul ponte l’occhio attento riusciva a scorgere soltanto una macchia lattiginosa tra il verde degli alberi.

    Semiur

    Semiur era rimasto molto colpito dal racconto di Zebian, non riusciva ad elaborarlo. Aveva lasciato la casa del vecchio quando era già sera, praticamente notte e questo particolare alimentava il mistero, le domande; Meriavan era stato diverso e quella storia iniziò a turbarlo profondamente. Lui, come tutti, era cresciuto vivendo una città e una vita che potevano essere state da sempre così ma mai nessuno gli aveva raccontato che il Mobiur arrivò all'improvviso. Mentre la curiosità cresceva in lui a dismisura rivisitava con cura tutto il racconto del vecchio e si interrogava su molti particolari; alla fine rimasero tre considerazioni: come mai Zebian gli raccontò quella storia? Che cosa aveva da mostrargli? Sarebbe tornato per ascoltarla ancora?

    Semiur viveva in una modesta abitazione di pescatori, infatti, suo padre come il nonno facevano quel mestiere e anche lui stava imparando a rispettare il fiume. Era appena un ragazzo e ogni mattino si alzava presto per recarsi alle buche praticate sul ghiaccio del Serin. Possedeva una lunga lancia che utilizzava per infilzare i pesci dal bordo della buca e, a volte, armava di lenza e amo una rudimentale canna rimanendo nell’attesa silenziosa. Era attratto dalla delicata lotta che si creava tra lui e il pesce, dall'altro capo della lenza, ma ogni volta la quale estraeva la preda si rattristava e sentiva il bisogno di chiedere scusa;

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