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La strage degli Ugonotti
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La strage degli Ugonotti
E-book243 pagine3 ore

La strage degli Ugonotti

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Questo romanzo storico di Prosper Mérimée (1803-1870), noto anche con il titolo Cronaca del Regno di Carlo IX è ambientato nel 1572, anno del tragico eccidio degli ugonotti in Francia nella “notte di San Bartolomeo”del 24 di agosto. La storia narra le vicende di due fratelli, uno cattolico, riservato e fedele alla corona, l'altro protestante, più spavaldo ed amante delle avventure galanti, che si incontrano e si separano diverse volte, a causa delle inquietudini sociali e delle dispute religiose della Francia del sedicesimo secolo, ognuno alla ricerca del proprio destino, fra battaglie, amori e crisi di coscienza, che sembrano non avere mai fine. Il romanzo, anche se ambientato in un epoca lontana, risulta molto attuale, soprattutto per i contrasti sociali e religiosi che mette in risalto, per l'analisi della difficoltà dei rapporti fra fedi e convinzioni differenti, filtrate attraverso l'animo e la psicologia dei personaggi.
LinguaItaliano
Data di uscita18 ago 2010
ISBN9788874170517
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    Anteprima del libro

    La strage degli Ugonotti - Prosper Mérimeé

    La strage degli ugonotti

    Cronaca del regno di Carlo IX

    Romanzo storico

    Prosper Mèrimèe

    In copertina: Rembrandt, The Syndics, 1662, Amsterdam, Rijksmuseum

    © 2010 REA Edizioni

    Via S.Agostino 15

    67100 L’Aquila

    Tel diretto 348 6510033

    www.reamultimedia.it

    redazione@reamultimedia.it

    La Casa Editrice esperite le pratiche per acquisire tutti i diritti relativi alla presente opera, rimane a disposizione di quanti avessero comunque a vantare ragioni in proposito.

    Indice

    GLI AVVENTURIERI TEDESCHI

    IL GIORNO DOPO LA FESTA

    I GIOVANI CORTIGIANI

    IL CONVERTITO

    LA PREDICA

    UN CAPOPARTE

    IL GUANTO

    LA CACCIA

    IL RAFFINATO E IL PRATO DEGLI SCOLARI

    MAGIA BIANCA

    LA CALUNNIA

    IL CONVEGNO AMOROSO

    AL BUIO

    LA CONFESSIONE

    L’UDIENZA PRIVATA

    IL CATECUMENO

    IL CAPPUCCINO

    I CAVALLEGGIERI

    ULTIMO TENTATIVO

    IL VENTIQUATTRO AGOSTO

    I DUE MONACI

    L’ ASSEDIO DELLA ROCELLA

    LA NOUE

    LA SORTITA

    L’ OSPEDALE

    GLI AVVENTURIERI TEDESCHI

    Le bande nere valicarono le Alpi e le loro nevi;

    con Borbone il venturiero han passato il Po.

    LORD BYRON, The deformed transformed

    Poco distante da Etampes, nella direzione di Parigi, si scorge un grande edificio quadrato, con le finestre a sesto acuto, ornate di rozze sculture. Sopra la porta, c’è una nicchia nella quale era anticamente collocata una Madonna di pietra; ma durante la rivoluzione anche a quella statua toccò la sorte di molti santi e sante: il presidente del circolo rivoluzionario di Lardy si recò a spezzarla in gran pompa. In seguito misero là un’altra Vergine, che in verità è soltanto di gesso; ma, col sussidio di qualche scampoletto di seta e di qualche perlina di vetro, anche questa fa la sua figura e conferisce tuttora un’aria rispettabile alla taverna di Claude Giraut.

    Oltre due secoli fa, nel 1572, tale edificio era destinato, proprio come ora, ad accogliere i viaggiatori assetati; ma in quel tempo aveva un aspetto molto diverso. I muri esterni erano coperti d’iscrizioni che testimoniavano le alterne vicende della guerra

    Le bande nere valicarono le Alpi e le loro nevi; con Borbone il capitano di ventura al comando. Viva il signor Principe! si leggeva; e subito accanto: Viva il duca di Guisa! morte agli ugonotti! Un po’ più in là, un soldato aveva disegnato, con qualche pezzo di carbone, una forca con l’impiccato e sotto, perché non ci fossero sbagli, aveva aggiunto la scritta: Gaspar di Chàtillon. Era tuttavia evidente che in seguito i protestanti l’avevano fatta da padroni in quelle zone, perché il nome del loro capo era stato cancellato e sostituito con quello del duca di Guisa. Altre iscrizioni, raschiate in parte, oltre che a leggersi, alquanto difficili a tradursi in termini decenti, provavano che il re e la regina madre non erano stati trattati con maggior riguardo di quei capi di fazioni. Ma soprattutto alla povera Madonnina sembrava essere toccata la peggio, tra i furori delle lotte civili e religiose. La statua, rovinata in venti punti dalle pallottole, confermava lo zelo dei soldati ugonotti nel distruggere ciò che usavano definire « simulacri pagani ». Mentre il cattolico devoto si toglieva rispettosamente il berretto nel passare davanti a quella statua, il cavaliere protestante si credeva in obbligo di darle un’archibugiata; e quando riusciva a coglierla, se ne inorgogliva come se avesse atterrato la bestia dell’Apocalisse e distrutto l’idolatria.

    Da parecchi mesi era stata fatta la pace tra le due fazioni rivali; ma era pace giurata solo dalle labbra, e non dai cuori. II malanimo tra i due partiti continuava a sussistere con immutata implacabilità. Da tutto ciò che si vedeva si capiva che la guerra era appena cessata, e tutto lasciava presagire che la pace non sarebbe durata a lungo.

    L’osteria del Leon d’Oro rigurgitava di soldati, dall’accento forestiero e dalla foggia singolare delle divise, erano presenti quei mercenari a cavallo tedeschi che venivano ad offrire i propri servigi alla fazione protestante, specie quando quest’ultima era in condizioni da pagarli bene. Se quegli stranieri apparivano temibili, nei giorni di battaglia, per l’abilità con cui manovravano i loro cavalli e adoperavano le armi da fuoco, avevano d’altra parte la reputazione, forse anche giustamente acquisita, di perfetti predoni e di uomini senza pietà. II drappello che aveva preso stanza nella taverna era di una cinquantina di cavalieri: avevano lasciato Parigi il giorno prima ed erano diretti ad Orléans per tenervi una guarnigione.

    Mentre alcuni di essi governavano fuori i cavalli, altri attizzavano il fuoco, giravano gli spiedi e si davano da fare per il pasto. II malcapitato oste, col berretto in mano e gli occhi umidi, contemplava la confusione di cui era teatro la sua cucina. Vedeva annientato il pollaio, saccheggiata la cantina, decapitate le bottiglie da gente che non si degnava neppure di stapparle; peggio che peggio, sapeva bene che, in barba alle ordinanze del re sulla disciplina della gente d’arme, non c’era da aspettarsi nessun risarcimento da quegli uomini che lo trattavano da nemico. In quei tempi sciagurati, era dovunque regola indiscussa che, in pace come in guerra, ogni truppa armata rispetta i luoghi dove si trova.

    A un tavolo di legno di quercia, annerito dal grasso e dal fumo, se ne stava seduto il capitano dei mercenari. Era un pezzo d’uomo sulla cinquantina, grande e grosso, dal naso aquilino, dal viso rubicondo e dai capelli brizzolati, troppo radi per riuscire a coprire una larga cicatrice che nasceva sopra l’orecchio sinistro e andava a perdersi tra i folti baffi. Si era tolto la corazza e l’elmo, non tenendosi indosso che un farsetto di cuoio d’Ungheria, scucito dal continuo strusciar delle armi e accuratamente rappezzato in più punti. Sopra un banco, a portata di mano, aveva anche riposto la sciabola e le pistole; non, però, un certo pugnale dal largo taglio, arma che un uomo prudente non lasciava che per dormire.

    Alla sua sinistra sedeva un giovane, di forte colorito, alto e ben fatto. Il farsetto di costui era ricamato e si notava, in tutto il suo abbigliamento, una maggiore ricercatezza. Non era tuttavia che l’alfiere del capitano.

    Sedute allo stesso tavolo, tenevano compagnia ai due un paio di ragazze tra i venti e i venticinque anni. Un misto di povertà e di eleganza si notava nei loro abiti, che visibilmente non erano stati cuciti per loro e che i casi della guerra sembravano aver fatto cadere nelle loro mani. Una portava una specie di casacchino di damasco intessuto d’oro, ma tutto scolorito, con un semplice vestitino di tela. L’altra indossava una veste di velluto paonazzo, con un cappello da uomo di feltro grigio ornato di una penna di gallo. Erano graziose entrambe; ma l’arditezza dei loro sguardi e la licenza dei loro discorsi risentivano di quella consuetudine di vita coi soldati. Avevano lasciato la Germania senza un impiego ben definito. La ragazza con l’abito di velluto era una zingara; aveva cognizioni di cartomanzia e sapeva suonare il mandolino. L’altra aveva rudimenti di chirurgia, e secondo le apparenze occupava un posto del tutto particolare nella stima dell’alfiere.

    Queste quattro persone, le quali avevano ciascuna davanti una gran bottiglia e un bicchiere, conversavano insieme e bevevano, nell’attesa che arivasse il pranzo.

    II discorso, tuttavia, procedeva senza troppa vivacità, come accade tra gente affamata, quando un giovane di alta statura, d’una certa eleganza, fermò davanti alla porta dell’osteria il suo cavallo sauro. L’alfiere si alzò dal banco dov’era seduto e, fattosi incontro al forestiero, prese la briglia del cavallo. Il nuovo venuto stava per ringraziarlo di quell’atto che considerava come un segno di cortesia, ma dovette subito ricredersi, perché l’alfiere aprì la bocca al cavallo, esaminandone la dentatura con l’occhio di chi se ne intende; poi, fatti alcuni passi indietro e guardate anche le gambe e la groppa dell’animale, scosse la testa con l’aria di un uomo sodisfatto.

    — Bel cavallo, cotesto, montsir! — disse nel suo gergo. E in tedesco aggiunse alcune parole che fecero ridere i compagni, fra i quali tornò a sedersi.

    Quell’esame senza tante maniere non garbò al viaggiatore. Tuttavia si accontentò di lanciare all’alfiere un’occhiata sprezzante e balzò a terra senz’altro aiuto.

    L’oste allora venne fuori e, tolta ossequiosamente la briglia di mano, disse piano all’orecchio del forestiero, in modo che i mercenari non potessero udirlo :

    — Che Iddio vi aiuti, mio nobile giovane! Capitate assai male. La compagnia di quei damerini, a cui voglia San Cristoforo torcere il collo, è poco gradevole per i buoni cristiani, quali siamo voi ed io. — II giovane sorrise amaro.

    — Quei signori — domandò — sono cavalieri protestanti?

    — E avventurieri tedeschi, per giunta — continuò l’oste — Che la Madonna li confonda! In un’ora, da che sono qui, mi hanno fracassato mezza mobilia. Son tutti spietati ladroni, come il loro capo, il Signor di Chatillon, quel bell’ammiraglio di Satana.

    — Con tutta quella barba grigia, vi dimostrate poco prudente — rispose il giovane — Se per disgrazia aveste a che fare con un protestante, vi potrebbe rispondere con qualche bel ceffone.

    Nel pronunziare queste parole, picchiettava con lo scudiscio il suo stivale di pelle bianca.

    — Come!... che cosa!... voi, ugonotto!... cioè, protestante — esclamò l’oste meravigliato.

    Fece un passo indietro e considerò il forestiero da capo a piedi, come per scoprire nell’abbigliamento di lui qualche indizio della sua religione. Quell’esame tuttavia lo tranquillizzò, non meno della fisonomia aperta e ridente del giovane, e perciò riprese in tono più basso:

    — Un protestante in abito di velluto verde! Un ugonotto così ben vestito! oh, non è possibile! Mio giovane signore, non si vede questo lusso tra gli eretici. Vergine santa! un farsetto di buon velluto sarebbe una cosa troppo bella per quei sudicioni!

    Lo scudiscio fischiò all’improvviso, colpendo in faccia il poveretto, il quale non si aspettava una simile professione di fede dal suo interlocutore.

    — Chiacchierone insolente! piglia e impara a tener la lingua a freno. Su! metti il mio cavallo in scuderia, e che non gli manchi nulla!

    L’oste chinò tristemente il capo e menò il cavallo sotto una specie di tettoia, mormorando sottovoce mille maledizioni contro tutti gli scomunicati di Francia e di Germania. Se il giovane non lo avesse seguito con occhi vigili, certamente la povera bestia avrebbe dovuto, come eretica, fare a meno della protezione.

    II forestiero entrò in cucina e salutò le persone che vi si trovavano riunite, alzando con bel garbo la falda del suo cappello ornato di una piuma gialla e nera. II capitano gli rese il saluto, per un momento si guardarono entrambi senza parlare.

    — Capitano — disse quindi il forestiero — sono un gentiluomo protestante e godo nel trovare qui alcuni dei miei fratelli di religione. Purché vi aggradi, ceneremo insieme.

    II capitano, già favorevolmente disposto dalla maniera distinta e dall’eleganza del forestiero, gli rispose che per lui sarebbe stato un onore; e subito la signorina Mila, ossia la giovane zingara di cui abbiamo già parlato, si strinse un pochino sul banco, per far posto accanto a lei. Siccome era d’indole molte servizievole, gli offrì anche il proprio bicchiere, che il capitano immediatamente riempì.

    — Mi chiamo Dietrich Hornstein — disse il capitano nel toccare il bicchiere col giovane — Avete certamente sentito parlare del capitano Dietrich Hornstein? Son io che ho condotto le formazioni d’assalto a Dreux, eppoi ad Arnay-le-Duc.

    II forestiero comprese quella maniera indiretta di chiedergli il suo nome. Perciò rispose:

    — Mi rincresce di non potervi dire un nome altrettanto celebre, capitano; intendo il mio, poiché quello di mio padre è molto noto nelle nostre guerre civili. Mi chiamo Bernardo di Mergy.

    — A chi mai ricordate quel nome! — esclamò il capitano, riempiendosi di nuovo il bicchiere sino all’orlo. — Ho conosciuto vostro padre, signor Bernardo di Mergy; l’ho conosciuto fin dalle prime guerre, come si può conoscere un amico intimo. Alla sua salute, signor Bernardo!

    II capitano alzò il bicchiere e disse alcune parole in tedesco alla sua truppa. Nell’attimo in cui il vino gli toccò le labbra, tutti gli uomini presenti gettarono i cappelli in aria con una viva acclamazione. L’oste pensò che fosse un segnale di strage, e cadde in ginocchio. Lo stesso Bernardo fu alquanto sorpreso dello straordinario onore; tuttavia si stimò in obbligo di rispondere a quella cortesia germanica bevendo alla salute del capitano.

    Le bottiglie, già gagliardamente aggredite prima del suo arrivo, non bastarono più per il nuovo brindisi.

    — Alzati, scarafaggio! — disse il capitano, voltandosi verso l’oste, tuttora in ginocchio — Alzati e corri a cercare altro vino. Non vedi che le bottiglie son vuote?

    Al che l’alfiere, per dargli la prova di quell’affermazione, gli tirò una boccia in capo. L’oste si precipitò in cantina.

    — Costui è un insolente matricolato — disse Mergy — Ma se lo aveste colto con quella bottiglia, potevate fargli più male di quanto non era nelle vostre intenzioni.

    — Evvia! — rispose l’alfiere con una sonora risata.

    — La capoccia d’un papista — sostenne Mila — è più dura di cotesta bottiglia, benché sia anche più vuota.

    L’alfiere rise più forte di prima, imitato da tutti i presenti, non escluso Mergy. Ma bisogna dire che quest’ultimo aveva più sorrisi per la graziosa bocca della zingara che per la sua crudele facezia.

    Portarono il vino, poi la cena; dopo un breve silenzio il capitano tornò a dire, con la bocca piena di cibo:

    — Se ho conosciuto il signor di Mergy! Era colonnello delle bande di fanteria quando ci fu la prima campagna del Signor Principe. Per due mesi di fila, fummo alloggiati sotto lo stesso tetto, durante il primo assedio di Orléans. Ed ora come sta?

    — Abbastanza bene per l’età sua, grazie a Dio! Spesso mi ha parlato dei cavalieri tedeschi e delle belle cariche che fecero alla battaglia di Dreux!

    — Ho conosciuto anche il maggiore dei suoi figli... vostro fratello, il capitano Giorgio. Voglio dire prima che...

    Mergy parve impacciato.

    — Era veramente un ragazzo di fegato — continuò il capitano — ma, peste birbona! era una testa calda. Me ne duole per vostro padre, la sua abiura gli avrà fatto un bel dispiacere.

    Mergy arrossì fino alla radice dei capelli; balbettò qualche parola per giustificare il fratello; ma si vedeva chiaro che il giudizio che ne portava era anche più severo di quello del capitano dei mercenari.

    — Ah, vedo che vi dispiace! — disse il capitano. — Ebbene! non parliamone più. È una vera perdita per la religione, e un grande acquisto per il re, che lo tratta — dicono — in maniera assai onorevole.

    — Venite da Parigi? — interruppe Mergy, che cercava di sviare la conversazione. — II signor Ammiraglio è arrivato? Forse l’avete visto? Come sta, ora?

    — Quando siam partiti noi, ritornava da Blois, con tutta la corte. Sta ottimamente, fresco e arzillo. È una carcassa, la sua, buona per altre venti guerre civili! Sua Maestà gli usa un trattamento così distinto, che tutti i papalini son verdi dal dispetto.

    — Davvero? Certo che il re non potrà mai riconoscerne il merito appieno.

    — Mi crederete? Ieri ho visto, sulla scalinata del Louvre, il re che stringeva la mano all’Ammiraglio. Il signor di Guisa, che stava dietro, aveva l’aria mogia d’un bassotto frustato; ed io, sapete a che pensavo? Mi pareva di veder l’uomo che si esibisce con il leone in fiera; gli fa dar la zampa, come fosse un cane; ma benché faccia buon viso e sembri disinvolto, nemmeno per un attimo dimentica che la zampa con cui scherza ha unghioni da far paura. Sì, per questa mia barba! Si sarebbe detto che il re sentisse le grinfie dell’Ammiraglio.

    — L’Ammiraglio ha il braccio lungo — disse l’Alfiere, ripetendo uu motto proverbiale nell’esercito protestante.

    — È un gran bell’uomo per la sua età — osservò madamigella Mila.

    — Lo preferirei, per amante, ad un giovane papista! — replicò madamigella Trudchen, l’amica dell’alfiere.

    — È la colonna della religione — aggiunse Mergy, per dare anch’egli la sua parte di lodi.

    — Sì, ma è tremendamente severo in riguardo alla disciplina — disse il capitano scotendo il capo.

    L’alfiere strizzò l’occhio con aria significativa, contraendo quel suo faccione in una smorfia che voleva essere un sorriso.

    — Non mi aspettavo, capitano — disse Mergy — che un vecchio soldato come voi rimproverasse al signor Ammiraglio l’esatta disciplina che pretendeva dalle sue truppe.

    Sì, certo, la disciplina è necessaria; ma bisogna pur registrare a credito del soldato tutte le fatiche patite, e non vietargli di prendersi qualche spasso quando, per caso, ne trova l’occasione. Basta! ogni uomo ha i suoi difetti e benché mi abbia fatto impiccare, beviamo alla salute del signor Ammiraglio.

    — L’Ammiraglio vi fece impiccare! — esclamò Mergy — Per uno che andò al patibolo, mi sembrate davvero in gamba.

    — Sì mi fece impiccare; ma io non gli serbo rancore; beviamo alla sua salute.

    Prima che Mergy gli potesse fare altre domande, il capitano riempì di nuovo tutti i bicchieri, si levò ancora il cappello e ordinò ai suoi soldati di gridare tre volte urrà! Scolati i bicchieri e quietatosi il tumulto, Mergy riprese:

    — E perché mai foste impiccato, capitano?

    — Per un nonnulla: un conventaccio della Saintonge saccheggiato, eppoi bruciato per caso.

    — Sì, ma non tutti i frati erano usciti — spiegò l’alfiere, che rise a bocca spalancata, contento della propria arguzia.

    — E con ciò? Ha forse importanza che una canaglia simile bruci un po’ prima o un po’ dopo? Ciò nondimeno, l’Ammiraglio, lo credereste signor di Mergy? L’Ammiraglio si stizzì davvero; mi fece arrestare e, senza tante cerimonie, il suo gran preposto gettò gli occhi sulla mia persona. Allora, tutti i gentiluomini che gli stavano attorno, compreso Messer della Noue, il quale, come tutti sanno, è poco tenero coi soldati, tutti i capitani, dico, lo pregarono di usarmi clemenza, ma l’Ammiraglio rifiutò secco. Corpo di lupo! Com’era infuriato! Dalla rabbia, rodeva il suo stuzzicadenti e voi conoscete il proverbio: che Dio mi guardi dai rosari di Montmorency e dagli stuzzicadenti dell’Ammiraglio! II Signore mi assolva! diceva, bisogna uccidere la furfanteria quand’è piccola; se lasciamo che diventi una gran dama, sarà poi lei a farci fuori. Giunse allora il ministro evangelico, con il suo libro sotto il braccio. Ci conducono entrambi sotto una certa quercia... mi sembra di vederla anche adesso, con un ramo sporgente che pareva cresciuto lì apposta. Mi mettono il cappio al collo... Ogni volta che

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