Adelasia del Sinis
Di Eliano Cau
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Info su questo ebook
La protagonista principale si chiama come la mitica, triste Adelasia di Torres, e, pur non appartenendo all’aristocrazia della sua epoca (si è tra la fine del sec. XIV e gli inizi del XV), aristocratica lo è nel nome e nell’anima; un essere speciale, nobilitato dagli accadimenti e dal crudo destino che la perseguita.
Adelasia è questo, un coacervo di pena: sposa innamorata, madre tragica, amica leale, donna violata…
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Narrativa "tascabile"
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Anteprima del libro
Adelasia del Sinis - Eliano Cau
A mia moglie Mondina
«Lugh’e sos ojos meos,
lugh’e su mes’e maju...
lugh’e isteddu...»
Lughes de pena
Anonimo (1774)
A mia figlia Giorgia
«... Se tesso,
tesso per te soltanto;
come, non so...»
La tessitrice
da Canti di Castelvecchio, 1903
Giovanni Pascoli
Eliano Cau
Adelasia del Sinis
romanzo
ISBN 978-88-7356-775-2
logo_condaghes_bnCondaghes
Indice
Avvertenze dell'Autore
Adelasia del Sinis
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
XXIX
XXX
XXXI
XXXII
XXXIII
XXXIV
XXXV
XXXVI
XXXVII
XXXVIII
XXXIX
XL
Glossario
L'Autore
La collana Narrativa tascabile
Colophon
Avvertenze dell'Autore
Adelasia del Sinis non è un romanzo storico né pretende di esserlo. È semmai un romanzo che utilizza la Storia, proponendo avventure umane possibili e variamente intessute, trame di vicissitudini esistenziali in grado di consegnarci immagini, sensi di sofferenze estreme e di sentimenti assoluti.
La protagonista principale si chiama come la mitica, triste Adelasia di Torres e, pur non appartenendo all’aristocrazia della sua epoca (si è tra la fine del sec. XIV e gli inizi del XV), aristocratica lo è nel nome e nell’anima; un essere speciale, nobilitato dagli accadimenti e dal crudo destino che la perseguita.
La Storia, si diceva. Sì, essa c’è, ma non annulla i protagonisti, non se ne appropria facendoli scomparire: contiene e fa da sfondo alle sconsolate biografie di Adelasia, di Comita, di Pere; ospita l’intromissione involontaria di Incantèra rendendo, insieme ai caratteri dei personaggi, l’odore, i rumori, i silenzi del tempo. E offre un quadro, solo però tratteggiato, dei grandi eventi che vedono l’ultima strenua resistenza degli Arborensi contro i Catalano-Aragonesi, gli anni più cruciali e importanti del governo di Eleonora d’Arborea, la peste, la sua morte, i sentori della capitolazione del giudicato impavido.
Tutto qui.
Difficilmente il lettore rintraccerà la cronaca minuziosa, anno dopo anno, di fatti piccoli e grandi, non il rimando a guerre e battaglie, o la proposizione di alberi genealogici e dinastie regali. Se di ciò troverà traccia, è per il fatto che ogni riferimento, ogni dato, ogni data sostiene l’impalcatura della storia dell’anima, dell’iter periglioso di una donna unica, di una donna simbolo. Adelasia è questo, un coacervo di pena: sposa innamorata, madre tragica, amica leale, donna violata. Dalla sorte, con la progressiva, tremenda malattia; dal suo stupratore, con la violenza mostruosa e irreparabile, e, ancor peggio, con lo strascico mai del tutto rimosso del dramma di quel giorno lontano.
Ma il romanzo è anche la storia del mite e debole Pere, sposo e amante della sua donna, schiavo dei sensi di Incantèra; è la storia di Comita, meteora infelice quasi quanto la madre; della pensosa e malinconica Giudicessa, ritratta nel momento più difficile della sua esistenza. Ed è, insieme, la vicenda di Incantèra, una creatura volitiva e spesso senza scrupoli, segnata e forgiata dalla vita, una vita diversa, contrapposta a quella della sconsolata Adelasia. Su tutto e per tutto, la temperie di un’epoca che muore, i suoi strepiti, talvolta assordanti, più spesso attutiti. Come se il triangolo geografico in cui si dipanano eventi fausti e sventure (San Giovanni del Sinis, Masone de Capras, Aristanis) ricalcasse quello umano al centro della narrazione.
Il racconto conduce a un esito luttuoso, sebbene al suo interno la vita offra tenui, slavati barlumi di felicità, vaghe speranze, piaceri quasi inconsistenti.
Emblema del dolore, Adelasia vede divenire un inferno quel remoto paradiso in cui le è toccato di nascere e di vivere per un sussulto di stelle.
È un monte di sofferenza, il cui amaro pensiero a stento viene contenuto nei versi che suggellano le parole estreme del suo testamento per Comita: «… Med’est su male, pagos sos cuntentos, in custu regnu de sa disaura!» ‘È assai diffuso il male, poche le felicità, in questo regno della sventura!’.
Adelasia del Sinis
I
– Quando ero giovane, il mio cognome era Musìu: allora vivevo libera di sognare, respirando il vento della scogliera. Ora sono Adelasia, Adelasia Arenas. Il nuovo nome mi viene da colui che ho sposato. Sono qui da sei anni, ma ci resterò ancora per poco, lo so. Un lento male ignoto mi ha pian piano ridotta a una larva umana: non posso muovermi e respiro a fatica... E quanto mi costa lasciarti quest’eredità scritta, figlio, mio unico bene!
Adelasia era stesa sul giaciglio, duro, nonostante un doppio strato di stuoie, incapace di muoversi, circondata dai suoi ricordi. Le stavano da presso alcune fanti, amorevoli, solerti. Il morbo oscuro di cui era vittima l’aveva resa, lentamente ma progressivamente, un automa, un corpo inerte. Le uniche cose vive erano gli occhi, mobilissimi e belli, la voce affannata.
Si sentiva morire. Intorno a lei tutto era stato tentato, tutto. Vanamente, e a lungo, si era adoperato nella ricerca di chissà quali erbe su majàrgiu di Masone de Capras, tziu Troghidòri il guaritore, percorrendo, scavando le dune del Sinis, le basse pendici del Montiferru, alla ricerca dell’erba che non c’è, della radice chimerica, del fiore magico. Inutilmente le messe, le salmodie, le promesse a Santu Srabadoi erano volate al cielo insensibile della sua fede. E infruttuoso, anche, era stato l’impegno di una bruxa determinata, la maga Incantèra. Sentendo la morte, Adelasia aveva chiamato uno scrivano dalla corte di Aristanis a dettargli i ricordi della sua vita, i segreti della sua giovinezza, gli spasimi della sua malattia. Comita, glielo diceva il cuore, doveva trovare un giorno, della madre, quel distillato d’amore, quelle parole vergate da mano pisana e destinate a sfidare il tempo.
– Sono qui da tanto, ormai. Pensavo che sarei stata più forte del male, sbagliando: il male è stato più forte di me. La mia persona era leggiadra, in gioventù, sfidava le offese dei venti, acconsentiva alle carezze dell’aria. Il mio corpo era leggero, le mie membra flessuose ed energiche; profumavano di salso la mia pelle ambrata e di gigli i miei capelli neri. Pere mi amava, e anch’io l’amavo.
Un giorno l’attendevo, un giorno nebbioso di novembre. Ero ignara, ero quasi felice. Vagivi, Comita, al fuoco, alle volute del fumo di casa, custodito da Bonaria, la più fidata fra le mie ancelle.
Non si avvistavano barche, sulle coltri del mare, ero serena. La capanna di falasco, protetta, era abbracciata da molte altre; le nostre barche all’aria, a saldarsi nelle commessure, ad amalgamarsi asse con asse in corpi unici per liete pesche.
I tuoi grandi occhi ridenti mi facevano sentire beata, figlio: coprivano il velo del mio cuore e il segreto che ti dirò, alla fine di queste memorie.
Dubito che potrò ancora stringerti a me. Premerai e bacerai queste pergamene su cui io non ho la forza di scrivere, un giorno, sentendo lo spasimo artigliarti il petto, sconvolgerti il sangue.
Questa è la mia vita, bambino mio, questa è la vita di chi la sorte ha piegato come cera al fuoco della sventura.
Aspettavo tuo padre, come sempre; come sempre aderivo al libeccio delle rupi, mi sentivo parte viva dell’aria fluttuante, impregnata delle mille fragranze del promontorio.
Barche no, non ne avvistavo. Ciò nondimeno ero paga.
Poi, come se mi avessero reciso i nervi delle gambe, i nervi delle braccia, caddi al suolo, d’improvviso. Era successo come l’altra volta, quando tu non eri nato ancora, quando conoscevo Pere solo per averlo visto armeggiare tra barche e reti.
Come allora fui a lungo sola, impossibilitata a parlare, a respirare.
Una forza oppressiva mi artigliava i polmoni, mi serrava la bocca. Le braccia non obbedivano agli ordini della mente, le gambe non mi reggevano.
Da me era fuggita l’ultima stilla di energia. Come una foglia d’autunno, umiliata dal sole, lacerata dal vento del nord, ero così, vittima di qualcosa che non capivo, che non capisco.
Stetti ore distesa, fra sabbia ed erbe, all’ingiuria dell’aria che non mi dava più sensazione alcuna. Un corpo morto, o meglio, un corpo con forze snervate, non sufficienti a farmi reagire. Mi trovarono i pescatori, mi trovò Pere.
Adelasia narrava a Comita il tormento della sua pena. Pronunciava le parole nella lingua arborense, succhiata col latte, perfezionata durante la lunga frequentazione della corte di Aristanis. A lei era stato concesso, poiché a Masone de Capras possedeva le barche e approvvigionava di muggini e anguille la mensa della regina. Poche nobili dame godevano, in verità, di quel privilegio.
Eleonora spesso le aveva accordato udienza, tra i suoi impegni politici: la trovava spontanea, intelligente, viva. A tal punto da diventarne amica quasi dal primo istante. Oltre alle qualità usuali, l’avevano rapita i versi struggenti che la bella sapeva creare e che rade volte, ma solo per lei, declamava con emozione.
Fu in un settembre non lontano che si videro per la prima volta.
Splendida e sana fanciulla di quindici anni, Adelasia era stata portata dai maturi genitori alla festa della Madonna di Bonacatu. Oh, quella visione: la Juighissa incedeva altera e dolce, seguita da una schiera di damigelle e di paggi. Teneva in mano qualcosa che poi seppe essere un omaggio, su riscatu per Nostra Signora. Fra tante, al lato destro della gradinata adducente al tempio, Adelasia stava in muta adorazione.
Era la più bella. I suoi lineamenti singolari la fecero risaltare nella moltitudine. La regina la scorse, imprimendosi in cuore gli splendidi occhi neri, il nitore dell’incarnato. Aveva sentito una voce profonda: Quella sarà per te un’amica speciale
. Alla fine delle funzioni, Eleonora la volle conoscere. Tra di esse, nonostante la cospicua differenza d’età, nacque e si radicò un’amicizia singolare, quella che talvolta si origina fra anime di alto sentire.
II
Adelasia era un nome regale, nonostante l’origine. Il padre, abbiente, era uno dei majorales di Masone de Capras; frequentatore del palazzo giudicale, aveva ben pensato di non far torto ad alcuno chiamando l’amata primogenita Adelasia, come l’infelice regina di Torres. Nessuno nel popolo aveva quel nome. Anche per questo la distanza sociale pareva tra le due donne meno rilevante. E inoltre Adelasia poteva accedere a corte, sentirne le musiche, i clamori; poteva goderne l’atmosfera e considerarsi in parte patrizia. Ma come?
La sovrana era temperante nei costumi, nei rapporti coi suoi pari, coi sudditi; e inclinava al silenzio, lei che pure tante parole aveva dettato agli scribi emendando il monumento giuridico di suo padre.
Per lungo tempo Adelasia ne era stata l’ombra fida, l’ancella ineffabile, l’amica a cui solamente si può aprire il cuore. Un cuore che imprigionava tanti segreti.
– Il male mi aveva lasciato uno strascico oscuro: pur dandomi tregua per mesi, alla fine mi aveva fiaccato. Da quel giorno lontano, quando mi spingevo sugli scogli, compivo ogni movimento con la paura di cadere, con la paura di venir meno, di non comandare la mia persona.
E davvero mi sentivo un’altra. Davvero, per quanto di nuovo padrona di me stessa, trasportavo un fisico indebolito, una sostanza esangue.
Stavo in piedi, ma mi faceva difetto la forza consueta. Guardavo le onde distanti e mi tremolava la vista, mi si sdoppiava l’immagine falsandomi l’orizzonte, il limite basso delle nuvole, là, sulla linea ineguale del cielo. Ogni arto, ogni tendine, ogni vena erano stati spogliati di vigore: mi obbedivano, è vero, e quantunque l’ordine della mente volasse sollecito, si tramutava nei movimenti richiesti con un certo ritardo. Ciò mi atterriva. Mai nella mia forte giovinezza ero stata succuba di uno sfinimento così misterioso!
Adelasia si spegneva. Negli ultimi mesi aveva assegnato al copista l’incarico di narrare la sua vita. Le era costato dalla città farlo venire a Tharros! Accordandole quel gran favore, la regina l’aveva strappato ai soliti impegni di trascrittore in un momento in cui, anche lei, sopportava il peso della cattiva salute.
Quasi ogni giorno il pisano raggiungeva a cavallo la dimora dell’inferma.
Se spinto dalla fretta, attraversava il guado del Tirso nell’occidente estremo, laggiù dove le piene avevano creato, col gioco delle correnti, un agevole passaggio fra le ghiaie. Il tempo clemente delle lunghe stagioni siccitose vedeva i viaggiatori passare da una sponda all’altra sulle secche senza pericolo. Come in quelle affannose giornate in cui il fiato di Adelasia diveniva sempre più languido.
Se si accanivano le interminabili piogge d’autunno, il transito normale avveniva sul ponte che a malapena reggeva l’impeto delle fiumane.
Durante le piene rovinose, per giorni e settimane, spiare il livello delle acque sempre troppo alto faceva imprecare contro l’improvvido Dio, reo di tanta inutile abbondanza. Recavano allora i segni delle correnti impetuose le canne, che si piegavano, come gli uomini, al destino.
Guido il pisano era un abile cavallerizzo. Padroneggiava il fiero sauro quanto