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I draghi dell'estate di fuoco
I draghi dell'estate di fuoco
I draghi dell'estate di fuoco
E-book967 pagine17 ore

I draghi dell'estate di fuoco

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Info su questo ebook

La Guerra delle Lance è ormai da tempo conclusa. Inesorabili, le stagioni si susseguono l’una  dopo l’altra. Ora è estate: un’estate arida e asciutta come mai si era vista prima su Krynn. Sconvolto da un’atroce perdita, il giovane mago Palin Majere tenta di penetrare l’Abisso alla ricerca dello zio, il celebre arcimago Raistlin. La Regina delle Tenebre ha dalla sua parte nuovi campioni, mentre un cavaliere, Steel Brightblade, cavalca all’attacco della Torre del Sommo Chierico. Su una piccola isola, i misteriosi Irda si impadroniscono di un antico talismano. Usha, una fanciulla umana cresciuta tra gli Irda, giunge a Palanthas affermando di essere la figlia di Raistlin. Quell’estate sarà forse l’ultima della storia di Ansalon?
LinguaItaliano
EditoreArmenia
Data di uscita11 nov 2021
ISBN9788834436370
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    Anteprima del libro

    I draghi dell'estate di fuoco - Margaret Weis

    A chi soggiorna in Krynn

    Possa la tua Spada non spezzarsi mai.

    Possa la tua Armatura non arrugginire.

    Possano le Tre Lune guidare la tua Magia.

    Possano le tue Preghiere essere ascoltate.

    Possa la tua Barba crescere lunga e folta.

    Possa l’Impresa della tua Vita non esploderti mai sul viso.

    Possa il tuo Zaino cantare sempre.

    Possa la tua Terra Natale essere prospera.

    Possano i Draghi volare sempre nei tuoi Sogni.

    Margaret Weis e Tracy Hickman.

    Nella terra del meridione dove si leva il Muro di Ghiaccio sotto il pallido sole stagionale, dove congelano le leggende nella rugiada dei ricordi e nel mercurio abbattuto, si preparano i lunghi tini secondo l’usanza rimembrata versando oro, versando ambra, gli antichi distillati di grano, di sangue bardico e di ghiaccio e di ricordi.

    E nelle acque discende il bardo, nell’oro, nell’ambra, e intanto ascolta i ricordi prenatali della corrente e della memoria che gli fluiscono intorno, finché i polmoni e il cuore dilatato cedono nelle acque, finché è sommerso da ciò che ascolta

    e il mondo si precipita in lui, più profondo del pensiero, e lo annega

    o gli toglie il senno, o ne fa un bardo.

    Diversa è l’usanza del settentrione: saggiamente tutto è fatto sotto la luna le cui fasi si succedono faticose fuori dell’oscurità e nella luce delle monete

    e degli specchi nell’abbondanza della libertà dell’aria.

    Ho sentito che eravate stranieri alla terra oltraggiata dove i bardi discendono nella corrente, alle acque in cui la fede si trasforma in visione, all’elisir della notte, all’ultimo respiro nell’annegare consegnato alla memoria là dove la poesia emerge, solitaria.

    Ho sentito che eravate stranieri al misericordioso settentrione, che Hylo e Solamnia, e una dozzina di province innominabili vi hanno purificati al di là dell’invidia, al di là della solitudine. Allora le acque mi hanno detto la verità: quanto ricordate le vostre morti là dove le metà di un regnosi uniscono su un terreno perduto, quanto ricordate il vostro cammino simile a quello delle lune, rossa e argento, diretti alla volta dell’occidente celeste, in un’alleanza di misericordia e di luce.

    Fin dal loro sorgere i cieli hanno avuto questo in mente, un passaggio attraverso l’oscurità e regioni sospette, per andare incontro alla luce del sole, all’aria e agli orizzonti della terra...

    non all’annegamento, alla piena dell’arpa.

    Oh, non avete mai dimenticato l’immersione del bardo, la terra del sonno, il tempo precedente la nascita dei mondi, dove tutti noi aspettavamo nel buio materno, nella morte predetta dal tarocco, ma soli e insieme cavalcate di morte in morte la storia che significa che stiamo cominciando daccapo...

    Libro Primo

    1.

    La squadra di sbarco. La profezia.

    Un incontro inatteso.

    Quella mattina faceva caldo, un caldo eccessivo per una tarda primavera e tale da far pensare quasi che ad Ansalon fosse già estate piena. Seduti a prua della barca, i due cavalieri sudavano spaventosamente all’interno della loro armatura d’acciaio e guardavano con invidia i rematori seminudi.

    L’armatura nera che i cavalieri avevano indosso, decorata con il simbolo del teschio e del giglio della morte, era stata benedetta dal Sommo Chierico e si supponeva che fosse in grado di resistere ai capricci del vento e della pioggia così come al caldo e al freddo, ma a quanto pareva la benedizione della Regina delle Tenebre non era in grado di tenere testa a quell’ondata di calura fuori stagione, e non appena la barca si avvicinò alla riva i cavalieri furono i primi ad abbandonarla, affrettandosi a saltare nell’acqua bassa per bagnare il volto e il collo arrossati dal sole, senza peraltro ottenere il sollievo sperato.

    «Sembra di procedere a guado in una zuppa calda» borbottò uno di essi, dirigendosi verso la riva e scrutando al tempo stesso con attenzione ogni cespuglio, albero e duna di sabbia alla ricerca di eventuali segni di vita.

    «A me ricorda piuttosto il sangue» replicò il suo compagno. «Immagina di essere immerso nel sangue dei nostri nemici, i nemici della nostra regina. Vedi qualcosa?»

    «No» rispose l’altro, poi agitò una mano in un cenno senza neppure guardarsi indietro e subito sentì il rumore prodotto dal resto degli uomini che balzavano nell’acqua, li udì ridere aspramente e conversare nella loro rozza lingua gutturale.

    «Portate a riva la barca» ordinò quindi, girandosi, anche se non era necessario perché gli uomini avevano già afferrato la pesante imbarcazione e la stavano spingendo attraverso l’acqua bassa fino a lasciarla in secca sulla sabbia; fatto questo rimasero in attesa di altri ordini con lo sguardo fisso su di lui.

    Il cavaliere si asciugò la fronte e si meravigliò per la resistenza fisica di quei barbari, rendendo al tempo stesso grazie alla Regina Takhisis per il fatto che i bruti, come erano chiamati, fossero dalla loro parte. Quello non era il nome effettivo della razza a cui i barbari appartenevano in quanto esso era impronunciabile, motivo per cui i cavalieri avevano preso l’abitudine di indicarli con il più semplice appellativo di «bruti»... un nome che si adattava loro alla perfezione.

    Provenienti dall’est, da un continente della cui esistenza pochi in Ansalon erano al corrente, essi erano tutti uomini di statura superiore al metro e ottanta e a volte vicina ai due metri, con il corpo massiccio e muscoloso quanto quello degli umani ma dotato dei movimenti rapidi e aggraziati propri degli elfi. Anche gli orecchi erano appuntiti come quelli elfici, mentre il volto era coperto da una folta barba simile a quella sfoggiata dagli umani e dai nani, a cui questi selvaggi assomigliavano per la forza fisica e l’amore per la battaglia. In combattimento erano feroci e fedeli ai loro comandanti, e a parte la loro grottesca abitudine di tagliare parti del corpo dei nemici per usarle come trofei costituivano una fanteria ideale.

    «Avverti il capitano che siamo arrivati sani e salvi e che non abbiamo incontrato resistenza» disse poi il cavaliere al suo compagno. «Lasceremo qui un paio di uomini a sorvegliare la barca e procederemo verso l’entroterra.»

    L’altro cavaliere annuì e prelevò dalla cintura un pennone di seta rossa, aprendolo e sollevandolo sopra la testa per poi agitarlo lentamente tre volte; immediatamente un identico segnale venne trasmesso dall’enorme nave nera dalla prua a forma di drago ancorata a una certa distanza dalla riva.

    Consapevoli che i loro ordini prevedevano tassativamente che quella fosse soltanto una missione esplorativa e non un’invasione, i due cavalieri inviarono quindi delle pattuglie lungo la spiaggia e verso l’interno, dove torreggianti colline di roccia bianca priva di vegetazione si levavano al di sopra degli alberi come artigli protesi a lacerare il cielo. Alcune aperture fra le rocce portavano verso l’entroterra dell’isola, che i cavalieri sapevano non essere molto grande in quanto la nave l’aveva circumnavigata prima di sbarcarli. Certi che le pattuglie sarebbero state presto di ritorno, i cavalieri si portarono con sollievo all’ombra di un tozzo albero deforme, e sebbene avessero messo di guardia due bruti badarono a rimanere cauti e vigili anche nel concedersi un momento di riposo e qualche parco sorso della scorta di acqua dolce che avevano portato con loro.

    «Questa dannata acqua è tiepida» protestò uno di essi, con una smorfia.

    «È ovvio che lo sia, dal momento che hai lasciato la tua borraccia al sole.»

    «E dove diavolo avrei dovuto metterla? Non c’era ombra su quella dannata barca e comincio a credere che non ci sia più neppure un po’ di ombra su tutto il nostro dannato mondo. Questo posto non mi piace per niente, e ho la strana sensazione che l’isola possa essere stregata o qualcosa del genere.»

    «Capisco cosa intendi» convenne il suo compagno, facendosi serio in volto; al tempo stesso continuò a scoccare occhiate guardinghe in direzione degli alberi e della spiaggia, oltre che lungo la spiaggia, ma tutto quello che riuscì a scorgere furono i bruti, che non erano certo turbati da cattivi presagi. «Sai, eravamo stati avvertiti di non venire qui» aggiunse poi.

    «Cosa?» esclamò l’altro cavaliere, in tono sconcertato. «Non lo sapevo. Chi te lo ha detto?»

    «Brightblade, che lo ha appreso da Lord Ariakan in persona.»

    «Era prevedibile che lui ne fosse informato, dal momento che fa parte dei diretti collaboratori di Ariakan... anche se ho sentito dire che ha chiesto di essere trasferito a un artiglio di combattimento e che la sua domanda è stata appoggiata da Ariakan» replicò il cavaliere, che appariva nervoso, poi aggiunse in tono sommesso: «Quest’informazione non è segreta, vero?»

    «Non conosci molto bene Steel Brightblade se pensi che infrangerebbe un giuramento riferendo informazioni che dovrebbe invece tenere per sé» commentò l’altro cavaliere, che appariva divertito.

    «Piuttosto che parlare preferirebbe farsi strappare la lingua con un ferro rovente. No, Lord Ariakan ha discusso apertamente della cosa con tutti i comandanti di reggimento prima di decidere di procedere con questa missione.»

    Il primo cavaliere scrollò le spalle e raccolse una manciata di ciottoli, cominciando a lanciarli distrattamente nell’acqua.

    «Sono stati i Cavalieri Grigi a dare inizio a tutto» osservò. «Un presagio di qualche tipo ha rivelato la posizione di quest’isola e il fatto che era abitata da un elevato numero di persone.»

    «Chi ha dato l’avvertimento?»

    «I Cavalieri Grigi, perché lo stesso presagio che ha rivelato loro l’esistenza di quest’isola li ha anche avvertiti di non avvicinarsi ad essa. Per questo motivo hanno cercato di persuadere Ariakan a restarne lontano, affermando che questo posto poteva portare aun disastro.»

    «Allora perché siamo stati mandati qui?» insistette il primo cavaliere, accigliandosi e guardandosi intorno con crescente disagio.

    «A causa dell’imminente invasione di Ansalon» ribatté l’altro. «Lord Ariakan ha ritenuto che questa mossa fosse necessaria per proteggere i fianchi delle sue forze, in quanto i Cavalieri Grigi non hanno saputo dire con esattezza che sorta di minaccia costituisse quest’isola e neppure precisare se il disastro sarebbe stato connesso o meno a un nostro sbarco su di essa. Come ha sottolineato Lord Ariakan, tale disastro avrebbe potuto verificarsi anche se noi non avessimo fatto nulla, e su questa base ha deciso di seguire il consiglio dell’antico motto dei nani: è meglio andare a cercare il drago che aspettare che esso venga a cercare te.»

    «Una buona idea» approvò il suo compagno. «Qualora su quest’isola dovesse esserci un esercito di Cavalieri Solamnici è meglio affrontarlo adesso.

    D’altronde, una simile eventualità mi sembra improbabile» aggiunse, accennando con la mano all’ampia distesa di spiaggia sabbiosa, alle dune coperte di erba grigiastra e alla foresta di sgraziati alberi deformi che nell’entroterra si ammassava a ridosso delle colline simili ad artigli. «Non riesco a immaginare per quale motivo i Cavalieri Solamnici o chiunque altro potrebbe voler venire qui: gli elfi non vivrebbero mai in un posto così brutto.»

    «Inoltre non ci sono grotte, quindi i nani non lo troverebbero di loro gradimento. Se ci fossero dei minotauri ormai ci avrebbero attaccati, mentre i kender ci avrebbero già rubato barca e armatura e gli gnomi ci avrebbero accolti con qualche sorta di assurdo macchinario. Gli umani sono l’unica razza tanto stupida da poter vivere su questa miserabile isola» concluse allegramente il primo cavaliere, raccogliendo un’altra manciata di sassi.

    «Forse una banda di draconiani o di orchetti rinnegati, o magari addirittura di orchi, è fuggita una ventina di anni fa, dopo la Guerra delle Lance, dirigendosi a nord attraverso il mare per evitare di essere catturata dai Cavalieri Solamnici.»

    «Se così fosse sarebbero dalla nostra parte» obiettò il suo compagno, «e i nostri cavalieri maghi non si starebbero stracciando le vesti per la preoccupazione. Guarda, i nostri esploratori stanno tornando a fare rapporto. Ora scopriremo come stanno le cose.»

    I due cavalieri si alzarono in piedi mentre i bruti mandati a esplorare l’interno dell’isola si affrettavano ad andare verso di loro con un ampio sogghigno dipinto sul volto. I barbari avevano il corpo seminudo lucido di sudore e la pittura azzurra di cui si erano ricoperti... che si supponeva avesse la proprietà magica di far rimbalzare le frecce... stava scorrendo a rivoli sui loro arti muscolosi; i capelli raccolti in lunghe code decorate con penne colorate ondeggiavano loro sulla schiena mentre avanzavano di corsa lungo le dune sabbiose.

    I due cavalieri si scambiarono un’occhiata e si rilassarono.

    «Cos’avete trovato?» chiese uno dei due al capo dei bruti, un gigante dai capelli rossi che torreggiava su di lui e sul suo compagno e che pur essendo probabilmente in grado di sollevarli entrambi con tutta l’armatura guardava comunque a loro con reverenza e rispetto.

    «Uomini» replicò il bruto. I membri della sua razza erano rapidi nell’apprendimento e si erano adattati con facilità alla lingua comune parlata dalla maggior parte delle svariate razze di Krynn, ma purtroppo ai loro occhi tutte le persone che non appartenevano alla loro razza erano classificate come «uomini».

    Subito dopo il barbaro abbassò una mano verso terra per indicare individui di bassa statura, il che avrebbe potuto essere un riferimento a dei nani ma più probabilmente indicava l’avvistamento di alcuni bambini, e un momento più tardi si portò la mano all’altezza del petto in un gesto che probabilmente indicava delle donne, cosa che il guerriero confermò portando all’altezza del petto le mani piegate a coppa e facendo ondeggiare i fianchi, un gesto che indusse i suoi compagni a scoppiare a ridere e a darsi di gomito a vicenda.

    «Uomini, donne e bambini» riassunse il cavaliere. «Quanti sono gli uomini? Hanno grosse abitazioni? Hai visto mura? Città?»

    Apparentemente i bruti trovarono quelle domande divertenti perché scoppiarono in un coro di rauche risate.

    «Cosa avete trovato?» ripetè il cavaliere, accigliandosi. «Avanti, smettetela con queste sciocchezze!»

    I bruti tornarono subito seri e composti.

    «Molti uomini» replicò il loro capo, «ma niente mura, solo case.» Fece quindi una smorfia, scrollò le spalle, scosse il capo e aggiunse qualcosa nella propria lingua.

    «Cosa significa?» chiese il primo cavaliere al compagno.

    «Qualcosa che ha a che vedere con i cani» rispose questi, che aveva già comandato dei bruti in passato e aveva cominciato ad apprendere il loro linguaggio. «Credo intenda dire che questi uomini vivono in case che sarebbero adatte soltanto per dei cani.»

    Nel frattempo, parecchi barbari avevano cominciato a camminare qua e là con le spalle curve e le braccia che dondolavano all’altezza delle ginocchia, emettendo al tempo stesso dei grugniti; dopo un momento tornarono a raddrizzarsi, si fissarono a vicenda e risero ancora.

    «Nel nome della nostra Oscura Maestà... adesso cosa stanno facendo?» domandò il primo cavaliere.

    «Non ne ho idea» ammise l’altro, «ma credo che sarà meglio andare a vedere di persona.» Estrasse quindi in parte la spada dal suo nero fodero di cuoio e domandò, rivolto ad uno dei bruti: «Pericolo. Ci serve l’acciaio?»

    Il bruto rise ancora una volta, poi estrasse la propria spada corta (in combattimento quei barbari usavano sia la spada corta che quella lunga, oltre ad archi e frecce) e la conficcò in un albero, voltando quindi le spalle ad essa.

    Rassicurato, il cavaliere ripose la propria arma nel fodero e si avviò con il compagno per seguire le loro guide. Lasciata la spiaggia il gruppo si addentrò nella foresta di alberi deformi e camminò per circa ottocento metri lungo quello che sembrava un sentiero tracciato dalla selvaggina, arrivando infine a un villaggio.

    Nonostante le informazioni che i bruti avevano cercato di fornire loro con la mimica, i due cavalieri erano del tutto impreparati a quello che trovarono: a quanto pareva si erano imbattuti in un popolo che era rimasto bloccato nelle secche del grande fiume del Tempo, che aveva continuato il suo corso senza toccare quegli esseri.

    «Per Hiddukel» commentò uno dei due, a bassa voce. «Non si possono quasi definire uomini! Lo sono davvero, oppure sono soltanto bestie?»

    «Sono uomini» rispose l’altro, guardandosi intorno con stupore, «ma del genere che pare vivesse su Krynn durante l’Era del Crepuscolo. Guarda! I loro attrezzi sono fatti di legno e così pure le lance, che sono decisamente rozze.»

    «Hanno armi con la punta di legno e non di pietra» osservò il suo compagno, «vivono in capanne di fango e usano recipienti di terracotta. Non c’è in giro un solo pezzo di acciaio o di ferro e non vedo quindi come queste misere creature potrebbero costituire un pericolo, se non a causa della loro sporcizia. A giudicare dalla puzza, non si lavano dall’Era del Crepuscolo.»

    «Sono davvero brutti, più simili a scimmie che a uomini. Adesso bada a non ridere e ad apparire severo e minaccioso.»

    Parecchi dei maschi umani presenti nel villaggio, sempre che si trattasse davvero di umani, cosa difficile da stabilire a causa delle pelli di cui erano vestiti, si stavano infatti avvicinando con cautela.

    Quegli «uomini-bestie» camminavano incurvati in avanti, con le braccia che dondolavano lungo i fianchi e le nocche che strisciavano quasi per terra, avevano i capelli lunghi e incolti e il volto coperto da una barba altrettanto irsuta che quasi nascondeva i lineamenti; arrivati davanti ai cavalieri si fermarono dondolandosi sui piedi e fissandoli a bocca aperta, pieni di reverenziale meraviglia. Dopo un momento uno di essi si azzardò infine ad avvicinarsi abbastanza da poter sfiorare con una mano sporca l’armatura nera e lucente di uno dei due, ma subito un bruto si affrettò a interporre il proprio corpo massiccio fra la creatura e il cavaliere.

    Segnalato al barbaro di trarsi di lato, il cavaliere estrasse la spada, la cui lama d’acciaio scintillò al sole mentre lui si girava verso uno di quei tozzi alberi dal tronco nodoso e contorto che somigliavano terribilmente alle persone che vivevano sotto di essi: sollevata l’arma, il cavaliere vibrò un fendente che troncò senza sforzo un ramo.

    Immediatamente gli uomini-bestia si gettarono in ginocchio davanti a lui, prostrandosi nella polvere ed emettendo pietosi suoni gorgoglianti.

    «Credo di essere prossimo a vomitare» commentò il cavaliere, rivolto al suo compagno. «Neppure i nani dei fossi vorrebbero aver qualcosa a che fare con esseri del genere.»

    «Hai proprio ragione» convenne quello, continuando ad esaminare quanto li circondava. «Fra tutti e due tu ed io potremmo sterminare l’intera tribù.»

    «Sì, ma temo che dopo non riusciremmo più a liberare la spada dal fetore di queste creature» ribatté l’altro.

    «Cosa dobbiamo fare? Ucciderli?»

    «Ci sarebbe poco onore in un atto del genere. È evidente che questi poveretti non costituiscono una minaccia per noi, e i nostri ordini erano di scoprire chi o cosa abitasse su quest’isola e tornare a fare rapporto. Per quello che ne sappiamo, queste creature potrebbero godere dei favori di qualche dio, e facendo loro del male potremmo incorrere nelle sue ire. Forse era questo che i Cavalieri Grigi intendevano nel parlare di un disastro.»

    «Ne dubito, perché non riesco a immaginare nessuna divinità che possa considerare questi esseri come i suoi favoriti.»

    «Forse si tratta di Morgion» suggerì l’altro cavaliere, con un sorriso asciutto.

    «Di certo non abbiamo recato loro nessun danno limitandoci a osservarli» affermò il suo compagno, «e i Cavalieri Grigi non potranno trovare nulla da ridire al riguardo. Manda i bruti ad esplorare il resto dell’isola e torniamo sulla spiaggia. Ho bisogno di un po’ di aria fresca.»

    I due cavalieri tornarono fino alla spiaggia e sedettero di nuovo all’ombra dell’albero in attesa che le altre pattuglie facessero ritorno, trascorrendo il tempo a parlare dell’imminente invasione di Ansalon e della vasta armata di navi nere dalla prua a forma di drago e con un equipaggio formato da minotauri che adesso stava attraversando l’Oceano di Courrain per trasportare fino ad Ansalon migliaia e migliaia di barbari. Ormai era quasi tutto pronto per l’invasione del continente, che si sarebbe svolta su due fronti e avrebbe avuto luogo alla Vigilia di Mezz’Estate.

    I Cavalieri di Takhisis non sapevano con esattezza dove avrebbero attaccato perché quell’informazione era ancora un segreto, ma non dubitavano dell’esito dell’impresa ed erano certi che finalmente l’oscura regina avrebbe avuto successo: questa volta la loro regina conosceva il segreto per arrivare alla vittoria e i suoi eserciti avrebbero annientato il nemico.

    I bruti tornarono tutti entro poche ore e fornirono i loro rapporti, riferendo che l’isola non era molto grande, in quanto era lunga circa sette chilometri e larga altrettanto. Le altre pattuglie di bruti non si erano imbattute in esseri viventi di sorta, segno che probabilmente gli uomini-bestia si erano nascosti tutti nelle loro capanne di fango in attesa che quegli strani esseri se ne andassero.

    I cavalieri tornarono infine alla loro barca e i bruti la spinsero in acqua, balzando su di essa e afferrando i remi per spingerla rapidamente sulla cresta delle onde, diretta verso la nave nera che sfoggiava sull’albero di maestra lo stendardo dei Cavalieri di Takhisis con il suo stemma composto dal giglio della morte, dal teschio e dalla spina.

    Andandosene, i cavalieri si lasciarono alle spalle una spiaggia vuota e deserta, ignari che la loro partenza era stata notata, così come lo era stato in precedenza il loro arrivo.

    2.

    L’isola magica. Una riunione urgente.

    L’arbitro.

    La nera nave dalla prua a forma di drago scomparve all’orizzonte e quando di essa non ci fu più nessuna traccia gli osservatori scesero dagli alberi.

    «Credi che torneranno? Oppure siamo al sicuro?» domandò uno degli uomini-bestia a un compagno, una femmina.

    «Li hai sentiti. Sono andati a riferire che noi siamo innocui, che non costituiamo una minaccia per loro» replicò la femmina, e dopo un momento di riflessione aggiunse: «Questo significa che torneranno... presto, anche se non subito.»

    «Cosa possiamo fare?»

    «Non lo so. Siamo venuti tutti a vivere su quest’isola per tenere al sicuro il nostro segreto, ma forse è stato un errore, forse saremmo dovuti rimanere sparpagliati per il mondo perché qui siamo vulnerabili a un attacco qualora fossimo scoperti mentre là ci potremmo almeno nascondere in mezzo alle altre razze. Non so cosa fare» ribadì la femmina, in tono impotente. «Spetterà all’Arbitro decidere.»

    «Sì» convenne il maschio, che appariva sollevato. «Questo è vero. Sarà meglio sbrigarci, dato che starà aspettando con impazienza il nostro ritorno.»

    «Non possiamo però presentarci a lui con questo aspetto» lo ammonì la compagna.

    «No, certamente» convenne il maschio, lasciando vagare con aria infelice lo sguardo sul mare e sbirciandone la distesa da sotto i capelli incolti. « È tutto così terribile, così spaventoso. Non mi sento già più al sicuro e continuo a vedere quella nave incombere all’orizzonte, a sentire le loro voci... quella fisica e quella mentale... parlare di conquista, di battaglia, di morte. Senza dubbio...» aggiunse, in tono esitante «senza dubbio dovremmo avvertire qualcuno su Ansalon, magari i Cavalieri di Solamnia.»

    «Questa non è una nostra responsabilità» ritorse la donna, in tono tagliente. «Dobbiamo pensare a noi stessi, come abbiamo sempre fatto. Puoi essere certo» aggiunse in tono amaro, «che in simili circostanze loro non si preoccuperebbero di noi. Avanti, torniamo alla nostra vera forma e muoviamoci.» I due borbottarono alcune parole magiche che nessun mago vivente sul continente di Ansalon sarebbe stato in grado di comprendere e tanto meno di scandire, parole per conoscere le quali ogni mago di Ansalon avrebbe dato la sua stessa anima. Sperare di impararle era però vano, perché una così potente magia era un talento naturale che non poteva essere acquisito.

    I contorni dello sporco e primordiale uomo-bestia si dissolsero nello stesso modo in cui l’involucro della crisalide si rompe per rivelare la splendida farfalla racchiusa al suo interno, e due esseri dotati di una straordinaria bellezza emersero da quel travestimento.

    Descrivere una bellezza del genere è difficile: quelle creature erano alte e snelle, avevano un’ossatura delicata e occhi grandi e luminosi, ma questa è una descrizione che si può adattare a molti abitanti di Krynn, così come molti degli esseri che lo popolano sono considerati belli. Inoltre bisogna tenere presente che ciò che può essere ritenuto bello da qualcuno può non apparire tale agli occhi di un altro: per esempio un nano considera affascinanti le basette di una femmina della sua razza e ritiene che il volto glabro delle donne umane sia nudo e insignificante.

    Nel caso di quelle due creature, però, anche un nano si sarebbe reso conto della loro bellezza, per quanto non corrispondente al suo ideale razziale, perché esse erano belle come può esserlo un tramonto sulle montagne, come la luce lunare riflessa sul mare o la nebbia del mattino che si leva dal fondovalle. Un’altra parola fu sufficiente a trasformare le rozze pelli animali che i due avevano indosso in abiti di fine e lucida seta, e un’altra ancora alterò l’aspetto dell’albero su cui i due si erano nascosti, rilassando i rami contorti e il tronco nodoso. Adesso l’albero era eretto e alto, le sue fronde stormivano sotto il soffio della brezza marina... e un’ultima parola apportò lo stesso cambiamento anche in tutte le altre piante.

    Lasciata la spiaggia, i due si diressero verso l’entroterra seguendo lo stesso sentiero imboccato dai cavalieri per raggiungere il villaggio di capanne di fango; durante il cammino rimasero immersi in un sereno silenzio, in quanto gli Irda amavano l’isolamento e la solitudine al punto da evitare per lunghi periodi perfino la reciproca compagnia: era stato necessario l’insorgere di una crisi per avviare una conversazione fra i due osservatori, che quel giorno si erano scambiati con ogni probabilità un numero di parole nettamente superiore a quello che ciascuno dei due doveva aver rivolto da anni a un altro membro della sua razza.

    Considerata la natura del loro popolo, la scena a cui i due si trovarono davanti nel tornare indietro ebbe l’effetto di sconvolgerli nella stessa misura in cui i due cavalieri erano rimasti sconcertati dalle capanne di fango e dalle pentole di terracotta. Infatti i due Irda videro tutto il loro popolo, che contava parecchie centinaia di individui, raccolto sotto un enorme salice, il che costituiva un evento che non aveva quasi precedenti nella storia degli Irda.

    Adesso gli sgraziati alberi deformi erano scomparsi, sostituiti da una lussureggiante foresta di querce e di pini, intorno e in mezzo alla quale erano visibili piccole abitazioni dalla struttura accuratamente concepita e realizzata. Ogni casa era diversa per aspetto dalle altre ma poche contavano più di quattro stanze, una adibita a cucina, una per la meditazione, una per lavorarvi e una dove dormire, e quelle che avevano cinque stanze erano più ampie perché ospitavano i giovani degli Irda. Essi vivevano con un genitore (in genere la madre a meno che le circostanze non imponessero una soluzione diversa) fino a raggiungere l’Anno dell’Individualità, in cui il giovane lasciava la casa d’origine e si creava una propria dimora.

    Ogni abitazione era autosufficiente e ogni Irda coltivava il proprio cibo, attingeva la propria acqua e portava avanti studi indipendenti. Gli interscambi sociali non erano né proibiti né visti come una cosa sconveniente, erano soltanto inesistenti perché un’idea del genere non sarebbe mai venuta a un Irda, e qualora l’avesse presa in considerazione l’avrebbe giudicata una caratteristica propria delle razze inferiori quali erano gli umani, gli elfi, i nani, i kender e gli gnomi, oppure delle razze oscure quali i minotauri, i folletti e i draconiani, o ancora dell’unica razza che non veniva mai menzionata fra gli Irda: quella degli orchi.

    Un Irda si univa a un altro Irda una volta soltanto nell’arco di tutta la vita, allo scopo dell’accoppiamento, e quella era un’esperienza traumatica tanto per il maschio quanto per la femmina coinvolti in quanto non avveniva sulla spinta dell’amore ma era imposta da una pratica magica nota come valin, creata dagli antenati della razza al fine di perpetuarla. Il valin induceva l’anima di un Irda a prendere possesso di quella di un altro membro di quel popolo, senza lasciare via di fuga né possibilità di difesa o di scelta del compagno: quando il valin insorgeva fra loro, due Irda dovevano accoppiarsi, altrimenti esso avrebbe continuato a tormentarli e a torturarli fino a portarli alla morte. Non appena la donna concepiva il valin scompariva e i due si separavano per sempre dopo aver deciso chi si sarebbe preso cura del bambino, e quell’esperienza aveva su di loro un effetto tanto devastante da far sì che essa si ripetesse di rado più di una volta nell’arco della vita di un Irda, con il risultato che il numero dei bambini era sempre basso e così pure quello dei membri dell’intero popolo.

    Fin dalla loro creazione, gli Irda avevano vissuto per secoli sul continente di Ansalon, e tuttavia ben pochi membri delle altre, prolifiche razze sapevano della loro esistenza: quelle meravigliose creature erano considerate una leggenda e ogni bambino imparava sulle ginocchia della madre la storia degli orchi, che un tempo erano stati le creature più belle che fossero mai state create e che a causa del loro peccato di orgoglio erano stati trasformati dagli dèi in mostri orribili e spaventosi.

    Molti genitori utilizzavano quella leggenda come una fonte di lezioni morali.

    «Roland, se tirerai ancora una volta i capelli a tua sorella ti trasformerai in un orco» minacciavano, oppure: «Marigold, se continuerai ad ammirare quel tuo bel visino nello specchio un giorno ti specchierai e scoprirai di essere diventata brutta come un orco.»

    Secondo la leggenda gli Irda erano orchi che erano riusciti a sottrarsi all’ira degli dèi e a conservare così intatta la loro bellezza, insieme alle benedizioni e ai poteri magici elargiti alla loro razza... e poiché erano così potenti, splendidi e benedetti, essi non si trovavano a loro agio a contatto con il resto del mondo, il che spiegava perché fossero svaniti. Ogni bambino a cui capitava di camminare in un bosco buio e cupo si guardava sempre intorno alla ricerca di un Irda, perché secondo la leggenda chi fosse riuscito a catturarne uno avrebbe potuto costringerlo a realizzare un suo desiderio.

    Naturalmente quella leggenda non era più veritiera di tante altre, ma in essa si poteva individuare a chiare lettere quella che era la principale paura di qualsiasi Irda, e cioè che se una qualsiasi delle altre razze lo avesse trovato avrebbe di certo cercato di sfruttare la sua potente magia per i propri fini. Era stato proprio questo timore di poter essere usati che aveva indotto gli Irda a vivere soli, nascosti e travestiti, evitando contatti con chiunque.

    Erano passati molti anni dall’ultima volta che un Irda si era aggirato per Ansalon, sia nell’ombra dei suoi boschi che in qualsiasi altro luogo, e dopo la conclusione della Guerra delle Lance quel popolo si era aspettato di andare incontro a un lungo periodo di pace, restando peraltro deluso nelle sue aspettative in quanto le diverse razze e fazioni presenti su Ansalon non erano riuscite ad accordarsi in merito al trattato di pace e stavano ora addirittura combattendo le une contro le altre.

    Poi era giunta voce di una vasta oscurità che si stava avvicinando dal nord e l’Arbitro, timoroso che il suo popolo potesse trovarsi coinvolto in un’altra guerra devastante, aveva preso una decisione, avvertendo tutti gli Irda di lasciare il continente di Ansalon per raggiungere questa remota isola, la cui esistenza era ignota a tutti. Gli Irda avevano obbedito e per molti anni avevano vissuto in sereno isolamento su quell’isola... una serenità e un isolamento che avevano appena avuto fine.

    «Il nostro scudo magico è stato penetrato» stava dicendo l’Arbitro, rivolto al gruppo dei presenti.

    «Adesso i cavalieri oscuri sanno che siamo qui e torneranno.»

    «Non sono d’accordo, Arbitro» obiettò in tono rispettoso un altro Irda. «Quei cavalieri non torneranno perché il nostro travestimento li ha ingannati: ci considerano dei selvaggi poco più evoluti di altrettanti animali, quindi perché dovrebbero tornare? Cosa potrebbero mai volere da noi?»

    «Sai com’è fatta la razza umana» ribatté l’Arbitro, con voce in cui echeggiavano secoli di dolore.

    «Può darsi che per ora i cavalieri oscuri non vogliano nulla da noi, ma verrà il momento in cui i loro capi avranno bisogno di uomini per infoltire le file dei loro eserciti o magari riterranno che quest’isola possa essere una buona base dove costruire le loro navi, o sentiranno la necessità di stabilirvi una guarnigione. Un umano non è in grado di ignorare qualcosa di cui conosce l’esistenza e deve utilizzare in qualche modo ogni oggetto che trova, usarlo, smontarlo per vedere come funziona, dargli un senso o un significato. Sarà così anche nel nostro caso: quei cavalieri torneranno.»

    Vivendo sempre soli e in isolamento assoluto, gli Irda non avevano bisogno di nessun genere di governo, ma erano al tempo stesso consapevoli della necessità di avere qualcuno che prendesse le decisioni per conto di tutti loro, e per questo motivo fin dai tempi antichi avevano sempre scelto fra loro un Arbitro: a volte maschio e a volte femmina, l’Arbitro non era né il più giovane né il più vecchio fra gli Irda, e neppure il più saggio, il più astuto o il più potente in fatto di magia. L’Arbitro era sempre un soggetto nella media, in quanto questo garantiva che non avrebbe optato per azioni drastiche e avrebbe seguito una strada che si trovava nel giusto mezzo.

    L’attuale Arbitro era risultato però più forte e aggressivo di tutti quelli che lo avevano preceduto, caratteristica che lui sosteneva essere dovuta ai tempi difficili che stavano vivendo, e la maggior parte degli Irda era convinta che le sue decisioni dovessero per definizione essere tutte sagge, mentre quanti non erano d’accordo con lui erano riluttanti a farlo notare per timore di disturbare la placidità della vita degli Irda, e per questo erano rimasti finora in silenzio.

    «In ogni caso non torneranno nell’immediato futuro, Arbitro» osservò la donna che era stata uno dei due osservatori presenti sulla spiaggia. «Abbiamo visto la loro nave scomparire all’orizzonte e abbiamo notato che su di essa sventolava la bandiera di Ariakan, figlio del defunto Ariakas, Sommo Signore dei Draghi. Come suo padre prima di lui, Ariakan è un seguace della dea oscura, la Regina Takhisis.»

    «Se non fosse un suo seguace lo sarebbe di Paladine o di uno degli altri dèi o dee, il che non cambierebbe nulla» dichiarò l’Arbitro, incrociando le braccia sul petto e scuotendo il capo.

    «Torneranno, ve lo ripeto, per la gloria della loro regina, se non per altro.»

    «Hanno parlato di guerra, Arbitro, di invadere Ansalon» interloquì l’osservatore che aveva accompagnato la donna, «e di certo questo li terrà occupati per molti anni.»

    «Ah! Ecco, avete visto?» esclamò l’Arbitro, facendo scorrere lo sguardo trionfante sui presenti.

    «Guerra, di nuovo e sempre guerra. Questo è il motivo per cui abbiamo lasciato Ansalon, ed era mia speranza che almeno qui potessimo essere al sicuro. A quanto pare» aggiunse con un sospiro, «non è così.»

    «Cosa dobbiamo fare?» chiese il maschio, mentre gli Irda si fissavano a vicenda con aria interrogativa.

    «Potremmo abbandonare quest’isola per andare su un’altra dove saremmo al sicuro» suggerì qualcuno.

    «Abbiamo lasciato Ansalon e siamo venuti su quest’isola: se non siamo al sicuro qui non lo saremo da nessuna parte» dichiarò l’Arbitro.

    «Se torneranno li combatteremo e li scacceremo» intervenne un’Irda, una donna molto giovane che aveva appena raggiunto l’Anno dell’Individualità. «So che in tutta la nostra storia non abbiamo mai sparso il sangue di un’altra razza, che ci siamo sempre nascosti per evitare di uccidere, ma ritengo che abbiamo il diritto di difenderci come ogni altra persona del mondo.»

    Gli altri Irda più maturi si girarono a fissare la giovane donna con l’espressione di elaborata pazienza che gli adulti di ogni specie adottano quando un giovane pronuncia qualche affermazione per loro imbarazzante e quindi rimasero sconvolti quando l’Arbitro invece annuì.

    «Sì, Avril, hai ragione: noi abbiamo il diritto di difenderci, di vivere in pace come preferiamo, ed io dico che dovremmo esercitare tale diritto.»

    «Non starai suggerendo di combattere contro gli umani, vero, Arbitro?» esclamarono alcuni Irda, talmente sconvolti da parlare contemporaneamente.

    «No, è ovvio che non lo sto facendo» ribatté l’Arbitro, «ma non suggerisco neppure di raccogliere le nostre cose e di abbandonare le case che ci siamo costruiti. È questo che volete?»

    L’Arbitro si accigliò quando a rispondergli fu un maschio chiamato il Protettore, che a volte si era mostrato in aperto disaccordo con lui e che quindi non godeva delle sue simpatie.

    «Fra tutti i posti in cui abbiamo vissuto, questo è il più congeniale alle nostre esigenze, il più bello e il più adatto a noi. Qui siamo uniti e tuttavia isolati, ci possiamo aiutare a vicenda in caso di necessità e al tempo stesso conservare la nostra solitudine, quindi lasciare quest’isola sarebbe difficile. D’altronde... adesso essa non sembra più la stessa, ed io dico che dovremmo partire.»

    Nel parlare il Protettore accennò alle case ordinate e confortevoli, circondate da siepi e da giardini coltivati con cura amorevole, e gli altri Irda compresero cosa avesse inteso dire. Le case erano le stesse, in quanto non erano state alterate dalla magia che le aveva fatte apparire come capanne di fango, e la differenza era qualcosa che non poteva essere vista ma poteva essere percepita, udita, assaporata e fiutata: gli uccelli, di solito ciarlieri e ciangottanti, erano spaventati e taciturni, e gli animali selvatici che si aggiravano senza timore fra gli Irda erano svaniti nelle loro tane o sugli alberi, mentre l’aria era pervasa dall’odore intenso dell’acciaio e del sangue.

    L’innocenza e la pace erano state distrutte, e anche se le ferite sarebbero guarite e le cicatrici svanite, il ricordo sarebbe rimasto... e per di più adesso l’Arbitro stava suggerendo loro di difendere la terra su cui vivevano! Quel pensiero era di per sé così sconvolgente che l’idea di partire cominciò a trovare un numero sempre maggiore di sostenitori.

    Accorgendosi che stava perdendo terreno, l’Arbitro scelse di cambiare tattica.

    «Non sto suggerendo di entrare in guerra» affermò, in tono ora gentile e suadente, «perché la violenza non rientra nel nostro modo di essere. Ho studiato a lungo il problema perché prevedevo un disastro imminente, e per questo motivo sono appena tornato da un viaggio sul continente di Ansalon. Lasciate che vi esponga ciò che ho scoperto.»

    Gli altri Irda lo fissarono con stupore, in quanto il loro modo di vivere era così isolato anche gli uni rispetto agli altri che nessuno si era accorto dell’assenza del loro capo, e tanto meno del fatto che questi avesse corso il rischio di aggirarsi fra i membri delle altre razze.

    «Il nostro vascello benedetto dalla magia mi ha portato fino alla città umana di Palantas» riprese l’Arbitro, con espressione ora grave e dolente. «Là mi sono aggirato per le strade, ascoltando i discorsi della gente, poi mi sono recato nella fortezza dei Cavalieri di Solamnia e subito dopo presso le nazioni marinare di Ergoth. Ho quindi raggiunto Qualinesti, la terra degli elfi, e ho varcato le porte di Thorbardin per addentrarmi nel regno dei nani. Invisibile come il vento, sono sgusciato oltre i confini della maledetta terra elfica di Silvanesti, ho attraversato le Pianure della Polvere e trascorso del tempo a Solace, Kendermore e Flotsam. Infine ho posato il mio sguardo sul Mare di Sangue di Istar e da lì sono passato nelle vicinanze della Rocca delle Tempeste, luogo da cui sono giunti questi cavalieri oscuri.

    «Secondo il modo di calcolare il tempo proprio degli umani sono passati oltre venticinque anni dalla fine della Guerra delle Lance, ma la speranza di pace nutrita dai popoli di Ansalon è risultata vana, come noi avremmo potuto dire loro dall’inizio: finché gli dèi saranno in guerra fra loro, infatti, le battaglie celesti avranno un riflesso anche sul piano mortale, e adesso che questi cavalieri oscuri combattono per lei, la Regina Takhisis è più potente che mai.»

    «Il loro signore, Ariakan, figlio del Sommo Signore Ariakas, ha avuto la temerarietà di far notare alla Regina Oscura in cosa consista il suo punto debole, e cioè nel fatto che il male si rivolta contro se stesso. La Guerra delle Lance si è conclusa con una sconfitta a causa dell’avidità e dell’egoismo dei comandanti che combattevano agli ordini della Regina Oscura. Catturato dai Cavalieri di Solamnia durante la guerra, Ariakan è rimasto loro prigioniero anche dopo la sua conclusione, e in quel periodo si è reso conto che quei cavalieri erano riusciti a vincere grazie alla loro disponibilità a sacrificarsi per la causa in cui credevano... sacrificio che aveva raggiunto la sua epitome nella morte del cavaliere Sturm Brightblade.

    «Convinto della validità della sua teoria, Ariakan l’ha messa in pratica e ha creato un esercito di uomini e di donne votati anima e corpo alla Regina delle Tenebre e, cosa più importante, decisi a conquistare il mondo nel suo nome. Quei cavalieri sono pronti a rinunciare a qualsiasi cosa, ricchezze, potere, la loro stessa vita, pur di ottenere la vittoria, e sono vincolati l’uno all’altro da legami d’onore e di sangue. Questo fa di loro un nemico indomabile, soprattutto in considerazione del fatto che il resto di Ansalon è come sempre diviso da contrasti.

    «Gli elfi sono in guerra fra loro. Adesso Qualinesti ha un nuovo sovrano, un ragazzo figlio di Tanis Mezzelfo e di Laurana, figlia del defunto Portavoce del Sole. Il ragazzo è stato prima ingannato e poi costretto ad accettare la carica di sovrano, e in realtà è adesso poco più di un fantoccio manovrato da alcuni elfi anziani, isolazionisti che odiano chiunque sia diverso da loro, inclusi i loro cugini di Silvanesti.

    «Poiché il potere degli elfi è aumentato, i nani di Thorbardin temono dal canto loro un attacco e stanno prendendo in considerazione l’eventualità di sigillare di nuovo l’accesso alla loro montagna, e i Cavalieri di Solamnia stanno intensificando le loro difese, non per timore dei cavalieri oscuri ma degli elfi. I Cavalieri di Paladine sono stati messi in guardia contro i neri paladini del male, ma rifiutano di credere che il lupo possa aver cambiato il pelo, come ammonisce un vecchio detto, e continuano ad essere convinti che il male si ritorcerà contro se stesso com’è accaduto durante la Guerra delle Lance, quando la Signora dei Draghi Kitiara ha finito per combattere contro il suo stesso comandante, il Sommo Signore Ariakas, mentre il mago Raistlin Majere tradiva entrambi. Questa volta, però, non accadrà nulla del genere.

    «L’equilibrio si sta alterando di nuovo a vantaggio della Regina delle Tenebre e questa volta, amici miei, è mia convinzione che la Regina Takhisis avrà la vittoria» concluse infine l’Arbitro, lasciando scorrere lo sguardo dall’uno all’altro dei presenti in modo da raccoglierli in un tutto compatto.

    «E cosa ci dici di Paladine? E di Mishakal? Noi leviamo loro preghiere adesso come abbiamo fatto in passato e di certo ci proteggeranno» obiettò il Protettore, ma adesso quelli che stavano annuendo in reazione alle parole dell’Arbitro erano in molti.

    «Paladine ci ha forse protetti dai cavalieri malvagi?» chiese questi, in tono severo. «No. Ha invece permesso loro di sbarcare sulla nostra costa.» «Però non ci hanno fatto alcun male» sottolineò il Protettore. «E tuttavia» ribatté l’Arbitro, in tono minaccioso,» gli dèi del bene, sulla cui protezione abbiamo fatto per tanto tempo affidamento, possono fare poco per noi, come ha dimostrato questo terribile incidente. La nostra magia, che è la loro, ci è venuta meno, quindi è tempo di fare affidamento su qualcosa di più potente.»

    «È evidente che hai un piano: sentiamo di cosa si tratta» ribatté il Protettore, in tono cupo.

    «La mia idea è questa: usare uno dei più potenti oggetti magici del mondo per proteggerci una volta per tutte dagli intrusi esterni. Conosci il nome dell’oggetto a cui mi sto riferendo... la Gemma Grigia di Gargath.»

    «La Gemma Grigia non è nostra» gli ricordò il Protettore. «Non appartiene a noi ma ai popoli del mondo.»

    «Non più» dichiarò l’Arbitro. «Siamo stati noi a cercare questo manufatto, a trovarlo e a portarlo qui perché fosse custodito.»

    «Lo abbiamo rubato» precisò il Protettore, «sottraendolo a un ingenuo pescatore che lo aveva trovato sulla riva e che lo aveva portato a casa perché affascinato dalle sue facce scintillanti, divertendosi poi a sfoggiarlo con i vicini. Lui non lo ha mai usato perché non sapeva nulla delle sueproprietà magiche e neppure gli importava di esse. Per questo motivo la Gemma Grigia non poteva essergli utile in nessun modo, e forse lui era destinato ad esserne il custode: forse nel sottrargliela noi abbiamo involontariamente alterato i piani degli dèi ed è per questo che loro hanno cessato di proteggerci.»

    «Alcuni potrebbero definire un furto quello che abbiamo fatto» convenne l’Arbitro, fissando il Protettore con espressione dura, «ma io dico che nel recuperare la Gemma Grigia abbiamo reso un servigio al mondo in quanto questo manufatto ha costituito un problema per molto tempo, seminando il caos dovunque andava. Senza dubbio sarebbe sfuggito alla custodia di quel sempliciotto, come aveva già fatto con molti altri proprietari, ma adesso è vincolato dalla nostra magia, e tenendolo qui sotto il nostro controllo noi stiamo recando un beneficio a tutta l’umanità.»

    «Se ben ricordo, Arbitro, avevi detto che la Gemma Grigia ci avrebbe protetti da qualsiasi incursione dal mondo esterno, ma pare che non sia così» ritorse il Protettore. «Come puoi adesso affermare che la sua magia ci proteggerà?»

    «Ho dedicato lunghi anni allo studio della Gemma Grigia e di recente ho fatto una scoperta importante» rispose l’Arbitro. «La forza che la spinge a vagare per il mondo non è propria della pietra ma è nascosta dentro di essa: la pietra in se stessa è soltanto un contenitore che trattiene e racchiude il potere presente al suo interno, una forza magica che una volta liberata si rivelerebbe senza dubbio potente. Io propongo quindi all’assemblea di rompere la Gemma Grigia e di liberare la forza imprigionata al suo interno, in modo da usarla per proteggere la nostra terra.»

    Gli Irda accolsero con contrarietà quel suggerimento perché non apprezzavano una simile linea d’azione e preferivano trascorrere la vita immersi nello studio e nella meditazione: adottare una così drastica misura era impensabile... e tuttavia dovevano soltanto guardarsi intorno per constatare i danni recati alla loro splendida terra, l’unico rifugio che ancora avessero al mondo.

    «Se all’interno della Gemma Grigia c’è una forza magica, come tu affermi, deve essere una forza molto potente» azzardò infine il Protettore, protestando a nome di tutti. «Sei certo di poterla controllare?»

    «Ormai siamo capaci di controllare con facilità la Gemma Grigia in se stessa, quindi non vedo la difficoltà di estendere tale controllo al potere presente in essa, usandolo per difenderci.»

    «Ma come puoi avere la certezza di essere tu a controllare la Gemma e che non sia invece lei a controllare te?» obiettò una voce, più aspra di quella musicale propria di ogni Irda, che giungeva da un punto alle spalle del Protettore.

    Tutti gli Irda si girarono immediatamente nella direzione da cui essa era giunta e si spostarono in modo da permettere che chi aveva parlato fosse visibile... una giovane donna umana di età fra i diciotto e i venticinque anni. Agli occhi degli Irda quella donna era una creatura di una bruttezza incredibile ma nonostante questo, o forse proprio per il suo aspetto sgraziato, le erano affezionati e la viziavano di continuo fin da quando era giunta a vivere in mezzo a loro, giovane e orfana.

    Pochi Irda avrebbero osato rivolgere un commento così impertinente all’Arbitro, e la giovane umana avrebbe dovuto sapere che un simile comportamento era sconveniente; per reazione lo sguardo di tutti si appuntò con disapprovazione sull’Irda che era stato incaricato di allevare quell’umana... l’uomo che proprio per questo motivo era noto come il Protettore.

    Questi, dal canto suo, appariva ora molto imbarazzato e stava parlando con la giovane donna, all’apparenza per cercare di convincerla a tornare nella loro casa.

    «Non sono certo di capire cosa hai inteso dire, Usha, bambina mia» replicò intanto l’Arbitro, assumendo un’espressione di estrema pazienza. «Forse dovresti spiegarti.»

    La giovane donna sembrò contenta di essere al centro dell’attenzione generale e si liberò con uno strattone dalla mano del Protettore che cercava di trattenerla con gentilezza, venendo poi avanti a grandi passi fino a portarsi al centro del cerchio di Irda.

    «Come facciamo a sapere che la Gemma Grigia non ti sta controllando? Se così fosse, di certo essa non te lo direbbe, non trovi?» affermò, guardandosi intorno piena di orgoglio per la logica della sua affermazione.

    L’Arbitro dal canto suo ammise la validità di quell’obiezione, lodò l’intelligenza della ragazza e si trattenne con cura dal sorridere: in effetti quell’idea era ridicola, ma del resto Usha era soltanto un’umana.

    «La Gemma Grigia è apparsa del tutto sottomessa da quando è stata presa sotto la nostra custodia» dichiarò quindi. «Riposa sull’altare che le abbiamo eretto e quasi non scintilla per niente, quindi dubito che ci stia controllando, bambina. Non ti devi preoccupare.»

    Nessun’altra razza su Krynn era dotata di una magia potente come quella degli Irda, al punto che alcuni di essi, fra cui lo stesso Arbitro, erano arrivati a sussurrare che neppure gli dèi fossero tanto potenti. Dopo tutto il dio Reorx aveva perso la gemma ed erano stati gli Irda a trovarla, prenderla e custodirla. Essi conoscevano le storie relative al passato della gemma, a come essa avesse sparso il caos e la devastazione dovunque era andata. Secondo le leggende la Gemma Grigia era la diretta responsabile della creazione delle razze dei kender, degli gnomi e dei nani, ma tutto questo era accaduto prima che gli Irda l’avessero presa sotto la loro custodia, al tempo in cui essa era ancora nelle mani degli umani.

    La riunione si protrasse sempre più, via via che gli Irda tentavano di elaborare ogni possibile modo per uscire dalla situazione in cui si trovavano senza ricorrere a nessun tipo di azione drastica; ben presto, com’era tipico degli umani, Usha si annoiò e avvertì il Protettore che sarebbe tornata a casa per preparare la cena, annuncio che fece apparire un’espressione di sollievo sul volto dell’Irda.

    Mentre si allontanava dal luogo della riunione Usha cedette in un primo tempo a un senso d’ira per il fatto che la sua idea, per quanto valida, fosse stata accantonata tanto in fretta. Rimanere in preda all’ira richiedeva però una certa quantità di energia e di concentrazione, e lei aveva altre cose a cui pensare mentre si dirigeva verso la foresta con un intento che non era quello di raccogliere erbe per il pasto serale.

    Scesa alla spiaggia arrivò fino al limitare dell’acqua e rimase a fissare affascinata le impronte lasciate nella sabbia dai due giovani cavalieri: inginocchiandosi, si protese a toccare una di esse e constatò che era molto più grande della sua mano, come del resto i cavalieri erano stati più alti e grossi di lei. Mentre cercava di immaginare il loro aspetto, quello dei primi maschi umani che lei avesse mai visto, sentì un brivido strano e piacevole correrle lungo il corpo.

    Certo, paragonati agli Irda quegli uomini erano brutti, ma il loro aspetto non era poi così sgradevole...

    Usha rimase a lungo sulla spiaggia, persa nei suoi sogni ad occhi aperti, e nel frattempo gli Irda giunsero alla decisione di lasciare che fosse l’Arbitro a stabilire cosa fare con la Gemma Grigia, in quanto lui avrebbe saputo meglio di chiunque altro come gestire quella situazione. Risolto quel problema, tutti tornarono alle loro dimore, desiderosi di essere soli e di lasciarsi alle spalle quell’evento così sgradevole.

    L’Arbitro però non imitò immediatamente gli altri e convocò invece a sé tre anziani, traendoli in disparte per una discussione privata.

    «Non ho voluto affrontare pubblicamente questo problema perché ero consapevole del dolore che avrebbe causato al nostro popolo» esordì. «C’è peraltro un’altra azione che dobbiamo intraprendere al fine di garantire la nostra sicurezza: noi siamo immuni alla tentazione costituita dalla Gemma Grigia, ma fra noi vive qualcuno che non lo è... sapete tutti di chi sto parlando.»

    A giudicare dalla loro espressione avvilita e sgomenta, gli altri avevano capito a chi si stava riferendo.

    «Prendere questa decisione mi addolora, ma è chiaro che dobbiamo allontanare questa persona» continuò l’Arbitro. «Voi tutti avete visto oggi il comportamento di Usha, avete sentito le sue parole. A causa del suo sangue umano corre il pericolo di essere soggiogata dalla Gemma Grigia.»

    «Non lo sappiamo con certezza» si azzardò a protestare debolmente uno degli anziani.

    «Conosciamo le storie» tagliò corto in tono brusco l’Arbitro. «Ho indagato su di esse e ho scoperto che sono vere: la Gemma Grigia corrompe tutti gli umani che le si avvicinano, pervadendoli di bramosie e di desideri incontrollabili. Secondo alcune fonti perfino i figli dell’eroe guerriero Caramon Majere hanno rischiato di cadere vittime del suo potere e lo stesso dio Reorx è dovuto intervenire per salvarli. Usha potrebbe impadronirsi della Gemma Grigia e cercare di usarla per generare dissenso fra noi, quindi per proteggere sia lei che noi è necessario allontanarla.»

    «Ma l’abbiamo allevata da quando era una neonata!» protestò un altro anziano. «Questa è la sola casa che abbia mai conosciuto.»

    «Usha è abbastanza grande da vivere con i suoi mezzi e fra il suo popolo» replicò l’Arbitro, attenuando la severità del proprio tono. «Già in precedenza abbiamo notato che sta diventando sempre più irrequieta e annoiata, in quanto la nostra vita di studio e di contemplazione non le si addice. Come tutti gli umani ha bisogno di cambiamenti per poter maturare e noi la stiamo soffocando. Questa separazione tornerà a suo come a nostro vantaggio.»

    «Rinunciare a lei sarà difficile» mormorò uno degli anziani, asciugandosi una lacrima... anche se gli Irda difficilmente piangevano. «Lo sarà soprattutto per il Protettore, che è affezionato a quella bambina.»

    «Lo so» annuì con gentilezza l’Arbitro. «Sembra crudele, ma quanto più in fretta agiremo e tanto meglio sarà per noi tutti, incluso il Protettore. Siete d’accordo?»

    La saggezza dell’Arbitro incontrò l’assenso unanime, e un momento più tardi lui si avviò per andare a informare il Protettore, mentre gli altri tre si affrettavano a tornare alle loro case.

    3.

    Commiati.

    Il dono d’addio del Protettore.

    «P artire?» ripetè Usha, fissando senza capire l’uomo che lei aveva sempre conosciuto come il Protettore. «Lasciare l’Isola? Quando?»

    «Domani, bambina» rispose il Protettore, che si stava già aggirando per la loro piccola abitazione, intento a raccogliere le cose di Usha e a disporle sul letto in attesa di riporle poi nel bagaglio. «Ti stanno preparando una barca, che non avrai difficoltà a pilotare dal momento che sei una navigatrice esperta. La barca sarà protetta magicamente e per quanto il mare si possa fare agitato non si rovescerà mai, così come non si arresterà nel caso che il vento dovesse cadere e continuerà invece la sua corsa spinta dalla corrente dei nostri pensieri, portandoti sana e salva dall’altra parte dell’oceano e fino alla città umana di Palanthas, che si trova a sud rispetto a noi. Sarà un viaggio di una dozzina di ore al massimo.»

    «Palanthas...» ripetè Usha, senza neppure sapere cosa stava dicendo, perché ancora non riusciva a capire.

    «Credo che la troverai la più adatta a te fra tutte le città di Ansalon» annuì il Protettore. «La sua popolazione è numerosa e assortita, e inoltre i Palanthiani hanno un enorme rispetto per le culture diverse dalla loro. Per quanto sembri strano, questo è probabilmente dovuto alla presenza della Torre dell’Alta Magia e del suo signore, Lord Dalamar. Sebbene sia un mago dell’Ordine delle Vesti Nere lui è rispettoso di...»

    Usha smise di ascoltare perché conosceva bene il Protettore e sapeva che stava parlando soltanto per disperazione e che quell’uomo silenzioso, mite e gentile le stava rivolgendo più parole di quante gliene avesse dette nell’arco di mesi sulla pura spinta del desiderio di confortare entrambi... come comprese con estrema chiarezza quando lui raccolse una bambola con cui lei aveva giocato da bambina e smise di colpo di parlare, stringendosi il giocattolo al petto come un tempo aveva fatto con lei.

    Sentendo le lacrime che le salivano agli occhi, Usha si girò di scatto per impedirgli di vederla piangere.

    «E così mi stanno mandando a Palanthas, vero?» commentò. «Bene. Sai che desideravo da tempo partire, al punto che avevo già programmato il mio viaggio e pensavo di andare a Kalaman. Del resto, anche Palanthas andrà bene» aggiunse, scrollando le spalle. «Dopo tutto un posto vale l’altro.»

    In realtà non aveva mai neppure pensato di andare a Kalaman e aveva citato quella città soltanto perché il suo era stato il primo nome che le era venuto in mente, ma nel parlare diede volutamente l’impressione di aver progettato quel viaggio da anni perché voleva nascondere la verità, e cioè che era terribilmente spaventata.

    «Gli Irda sanno dove sono stata la scorsa notte,» pensò con un senso di colpa. «Sanno che sono scesa sulla spiaggia e cosa ho pensato e sognato!»

    Nei suoi sogni, imperniati sulle immagini dei due cavalieri, lei aveva rivisto il loro volto giovane, i loro capelli umidi di sudore, le loro mani forti e agili. In quei sogni li aveva incontrati e loro le avevano parlato, l’avevano portata via sulla loro nave dalla prua di drago, avevano giurato di amarla e avevano abbandonato le armi e la guerra per lei. Sapeva che fantasticherie del genere erano stupide, che nessuno avrebbe mai potuto amare una ragazza tanto brutta, ma del resto nulla le impediva di immaginare di essere bella. Nel ripensare a quei sogni si sentì assalire da un violento rossore, perché adesso se ne vergognava e si vergognava dei sentimenti che essi avevano destato in lei.

    «Entrambi sappiamo che per te è giunto il momento di partire» riprese il Protettore, con un certo imbarazzo. «Ne abbiamo già parlato in passato.»

    In effetti Usha stava parlando di partire ormai da tre anni: ogni volta programmava il viaggio, decideva dove sarebbe andata e arrivava addirittura al punto di fissare una data in modo vago, qualcosa come la Vigilia di Mezz’Estate o il Periodo delle Tre Lune. I giorni si succedevano e Usha rimaneva sempre sull’isola perché il mare era sempre troppo agitato o il clima troppo freddo o la barca inadeguata alle sue necessità o i presagi erano poco favorevoli. Ogni volta il Protettore conveniva con lei con fare mite che partire era impossibile, così come conveniva sempre con qualsiasi cosa lei facesse o dicesse, e l’argomento veniva lasciato cadere fino alla volta successiva in cui Usha ricominciava a progettare un viaggio.

    «Hai ragione, avevo intenzione di partire» affermò, sperando che il tremito che le pervadeva la voce venisse scambiato per eccitazione. «Del resto sono sempre sul punto di farlo.» Si passò quindi una mano sugli occhi e si girò a fronteggiare l’uomo che l’aveva allevata fin dall’infanzia. «Cosa stai facendo, Prot?» chiese, usando il soprannome con cui aveva chiamato il Protettore fin da bambina.

    «Non penserai che andrò a Palanthas portandomi dietro la mia bambola, vero? Lasciala qui, ti terrà compagnia durante la mia assenza e voi due potrete parlare di me fino al mio ritorno.»

    «Tu non tornerai più, bambina» replicò il Protettore, in tono sommesso. Nel parlare evitò di guardarla e continuò a stringere la logora bambola per qualche momento ancora, prima di protenderla verso la ragazza.

    Usha la fissò in silenzio, sentendo il tremito trasformarsi in un nodo alla gola che le faceva salire agli occhi altre lacrime, poi afferrò la bambola e la scagliò dalla parte opposta della piccola stanza.

    «Mi state punendo! Mi punite per aver detto quello che pensavo! Perché io non ho paura di quell’uomo! L’Arbitro mi odia, mi odiate tutti perché sono brutta e stupida e... e umana!» esclamò, poi si asciugò le lacrime con il dorso della mano, si assestò i capelli e trasse un profondo, tremante respiro mentre aggiungeva: «Ebbene, io non avevo comunque intenzione di tornare. Chi vorrebbe farlo? A chi importerebbe di un posto noioso dove nessuno parla con nessun altro per mesi di fila? Non a me! Partirò stanotte stessa, adesso, e al diavolo i bagagli! Non voglio più niente da te! Niente!»

    Gli Irda non erano abituati a manifestare le loro emozioni a meno che fossero straordinariamente intense, e di conseguenza erano sempre rimasti sconcertati dalle tempestose bizzarrie del temperamento umano. Incapaci di vedere chiunque in preda ad un violento stato emotivo, trovavano la cosa imbarazzante, sconveniente e poco dignitosa, e fin da piccola Usha aveva scoperto che i capricci e le lacrime le permettevano di ottenere tutto quello che voleva. Di conseguenza i suoi singhiozzi adesso salirono di volume e nel tossire e deglutire lei esultò segretamente: adesso non l’avrebbero più mandata via.

    «Partirò, ma soltanto quando sarò pronta a farlo,» pensò con risentimento.

    Era arrivata alla fase più acuta dei singhiozzi e stava cominciando a pensare che era il momento di smetterla e di dare a

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