Il tempo del coraggio: meglio morire in piedi che vivere in ginocchio
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Anteprima del libro
Il tempo del coraggio - nico ascierto
Ringraziamenti
La Fine
7 febbraio 2043. Ho trovato il coraggio. Solo oggi
Ho settantasette anni e mi restano tre mesi di vita. Questo dicono i medici. L’ho scoperto da poche ore. Mi
hanno formalmente e incivilmente comunicato che non c’è nulla da fare, il mio mal di testa è un tumore al
cervello. Uno di quelli incurabili. Troppo grande per essere operato e troppo vecchio io per resistere. E poi ho sempre avuto paura di finire sotto i ferri e posso dire con un certo orgoglio che non ho subìto mai un’operazione e mai ne subirò, a questo punto, una.
Ora sono qui, in questa stanza di ospedale dove ho versato mille lacrime. Ho pianto sì, ho pensato di aprire la finestra e buttarmi nel vuoto. Ma ho paura. Ho paura di morire e troppe cose ancora da finire.
Che faccio?
– mi chiedevo fino a qualche istante fa – Che dico? A chi?"
Troppe idee confuse in testa, sarà il tumore. O forse no, perché io sono così, da sempre. Ho sempre avuto troppe idee in questa capoccia usurata come un vecchio hard disk , troppi pensieri. Del domani, del poi. Mai dell’ora.
Adesso
– mi sono detto –, adesso è il momento".
L'inizio
Questo è il tempo del coraggio.
Quel coraggio che ho sempre avuto ma che razionalmente
non ho mai esercitato. E così ho trascorso una vita intera a pensare di programmare, di inventare, di cambiare. Però non sono cambiato e non ho cambiato nulla.
Quando ero giovane, a vent’anni, ero certo che il futuro sarebbe stato per me ciò che volevo. Avrei potuto tenere in pugno tutto e tutti, ma l’avrei fatto con calma. Già a quarant’anni, la realtà era ben diversa. Solo oggi me ne accorgo. Avevo ragione io. Dovevo cambiare le cose. Almeno provarci, per non avere rimorsi. Ora ne ho. E mi restano tre mesi per fare quello che non ho fatto in una vita. Ma non posso andarmene con il rimorso, non con il rimpianto.
Così faccio mente locale e adesso, sì, proprio adesso, e finché ne avrò la forza vi racconterò com’è andata la mia vita e quello che sto per fare.
Capitolo 1
Storia di un pubblicitario che nella vita ha fatto tutto tranne quello… E non parlo di sesso
Secondo giorno dall’infame notizia. Sono rilassato, forse rassegnato ma intraprendente. Sto decidendo se dirlo a mia moglie Nadia e ai miei due figli Achille e Sofia. È tanto che non li vedo e non li sento. A mia moglie lo dirò più tardi, tanto con lei posso sempre parlare. È andata via da un anno ormai ma io sento la sua presenza. E poi ho il vaso, sì l’urna, lì, sul comò nella nostra stanza. Lei è con me ed è una bella sensazione.
Achille l’ho sentito l’ultima volta un mese fa. Vive in Canada con la sua compagna. Hanno messo su una fattoria; coltivano la terra, producono ottimi vini italiani e li esportano in Italia. Sono straniti ma felici. Non li vedo da troppo tempo. E allora chiamo Sofia, lei sì che mi ascolterà. Lo fa sempre.
Sofia ha sofferto tanto, sin dalla nascita. Ha una malattia genetica rara. Ma è sempre stata forte, più forte di tutti ed è sempre felice. Cosa che a me non è mai riuscita.
Fa il medico, guarda un po’, la genetista, in Svizzera; ma non voglio le sue cure. Solo il suo sorriso. Le parlerò.
Sono fiero dei miei figli. È l’unica cosa di cui sono certo. Si sono realizzati nonostante le difficoltà. Sono stato capace di far fare loro quello che io non ho fatto ma che ho sempre sognato. Scappare dall’Italia e vivere onestamente e con merito. Questo Paese triste e arruffone ha avuto me e Nadia. Non il resto di noi.
Io qui ho trascorso proprio una vita d’inferno in certi momenti. Diciamo in poche parole che ho trovato sempre l’imbecille giusto al posto sbagliato. Ho iniziato sin da subito ad avere questa sfortuna. Sin da qualche mese dopo la mia laurea in comunicazione. Ho trovato sul mio cammino solo insignificanti miserabili accattoni messi a comandare stupidi e altrettanto miserabili soldatini. Volevo fare tutt’altro ma, dopo varie vicissitudini e con un colpo di sfiga, ho finito per diventare dipendente di un’agenzia parastatale italiana, l’Inutilia, e a scrivere correggendo i non a stato
in un luogo che non è stato
.
Le mie aspettative e le mie motivazioni sono ben presto diventate angoscia. Circondato da personaggi dalla dubbia identità e dal certo semianalfabetismo, in un’azienda della quale non comprendevo l’utilità sociale ma che, in teoria, aveva un’affascinante mission come la semplificazione dell’informazione pubblica, dopo mille angherie, soprusi, affliggenti giornate passate a scrivere bugie e a parlare di malaffare camuffato da democrazia, un giorno ho deciso. Vent’anni erano passati da quando avevo messo piede in quel cesso, baluardo della burocrazia ed ecatombe dell’intelletto. Mi alzai, mi vestii di tutto punto e, bello, mi recai in ufficio. Entrai, stanza per stanza, da tutti i miei colleghi e dalle mie colleghe. Allineati e stantii burocrati e pochi altri poveri cristi come me. Chiamai al telefono chi non c’era quasi mai, se non dopo le 12:00, e dunque dirigenti e politici, membri del consiglio d’amministrazione nominati da non si sa chi a fare non si sa che cosa. Li contattai chiedendogli di vederci nella grande sala riunioni per discutere un problema urgente. Io stavo lì, aspettavo senza parlare e loro arrivarono, a poco a poco, come i topolini del pifferaio magico. Dopo mezz’ora c’erano tutti; beh, in realtà mancava il collega che apriva il negozio di giocattoli dopo aver beggiato
e ci stava dentro finché non arrivava la moglie e quella che andava a fare la spesa da trent’anni alle nove, perché in tre decadi solo una volta aveva incontrato per strada un dirigente che l’aveva ripresa e poi premiata con una progressione. Gli altri erano lì.
E allora?
– mi chiese qualcuno un po’ stizzito perché stava saltando la pausa caffè. Io li guardai tutti, uno per uno e vidi quello che aveva il massimo livello dirigenziale con il diploma serale, quello che non sapeva usare l’e-mail ma era il responsabile della comunicazione, quello che riscriveva sempre sullo stesso file perché ancora non aveva scoperto la funzione salva con nome
di word, quello che non era nessuno e nessuno era rimasto, ma sapeva leccare il culo che è un piacere! Tutti.
Li guardai e iniziai a parlare:
Buongiorno, vi ringrazio per essere venuti tutti, o quasi. Non mi sarei aspettato, dopo vent’anni di onorato servizio in questa azienda, di avere tale piacere e altrettanta fortuna. Sì, perché oggi io vi voglio dire una cosa che mi viene dal cuore e che ho tenuto per me per troppo tempo. E siccome non avrei potuto perderne altro, sarebbe stato decisamente troppo e neanche avrei potuto dirvi questa cosa singolarmente, sarebbe stato eccessivo onore per dei mentecatti come voi. Io vi dico che, mettendovi in fila dal più raccomandato al più imbecille... vi mando a fare in culo! In una volta e tutti insieme! Vi auguro di fare tanti soldi a spese dei cittadini quanti saranno i vostri mali. Addio e non arrivederci. Non potrei perdonarmelo. Ah, e giusto per ripetervelo l’ultima volta: sono vent’anni che in quest’azienda si
copia e incolla quel cazzo di
fermo restando gli obiettivi in ogni atto che si produce e vent’anni che io lo correggo. Si scrive
fermi restando gli obiettivi perché
fermo" non è un avverbio invariabile, non in questo caso, e si accorda sempre con il genere. Invariabile è solo la vostra poca voglia di imparare. Ferma restando la buonafede. Sia chiaro! E lo spettabile