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Tredici maggio
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Tredici maggio
E-book159 pagine2 ore

Tredici maggio

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Info su questo ebook

“Metto passione in tutto ciò che faccio, sono io, è il mio modo di vivere, giusto? Sbagliato? Non lo so, ma è l’unico modo che ho.”
Questa è Giulia, un po’ don Chisciotte in jeans, un po’ Peter Pan, 158 centimetri di concentrato di trentenne inquieta dell’hinterland milanes,e piena di voglia di mordere la vita e che ancora non ha capito cosa vorrà fare da grande, nonostante sia già madre di un bambino di otto anni, che sta allevando da sola.
Dopo l’ennesima storia sbagliata, che le ha procurato infelicità, solitudine e attacchi di panico, Giulia smette di mentire a se stessa: se si sta male, non è amore, non può esserlo. L’amore fa star bene, deve farti sentire le bollicine della felicità, come se ti stappassero una lattina di Schweppes direttamente nel cervello.
Un po’ svitata, “vergognosamente spontanea”, Giulia non si dà per vinta: dalla vita vuole la favola. Ci sarà pure un principe azzurro anche per lei? Intanto, si arrabatta come può, corre da un lavoro all’altro, coccola il figlio, si districa nel traffico delle ore di punta, parla per ore al cellulare, si ostina a portare tacchi da 12 centimetri anche quando è insano farlo (ad esempio, per fare sopralluoghi sui tetti, nel tentativo di vendere impianti fotovoltaici).
Quando si è aperti alla vita, generosi come Giulia, l’amore arriva. Forse, non senza qualche problema, anzi. Ma arriva di sicuro.
Raffaella Nassisi, con Tredici maggio, ci regala un rosa scoppiettante, moderno, punteggiato da tonnellate di SMS, ironico, scritto con un linguaggio attuale, per raccontarci una storia di oggi e, come sempre quando si parla d’amore, anche di qualsiasi epoca.
LinguaItaliano
Data di uscita3 apr 2012
ISBN9788866900467
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    Anteprima del libro

    Tredici maggio - Raffaella Nassisi

    Nassisi

    Uno

    Può un mese cambiare la vita di una persona?

    A me è successo.

    L’estate scorsa ho iniziato a lavorare per una piccola emittente televisiva. Dovevo vendere spazi pubblicitari.

    Vendere è una delle cose che mi riesce meglio. Non è un’abilità, non c’è niente che possa insegnartelo, per cui, non è un merito. Si tratta di una dote innata. C’è chi è portato e chi no.

    Eccomi qui a vendere sogni, a creare idee, a scrivere testi che saranno letti più o meno bene da altri, sperando che trasmettano l’intonazione giusta, quella che gironzola nella mia mente, per creare la necessità in chi ascolta.

    Le persone non comprano perché hanno bisogno ma perché qualcuno come me crea in loro la necessità.

    I primi mesi sono stati durissimi.

    Ho sempre venduto di tutto, dal famoso "Folletto" alle cremine svizzere che guariscono da tutti i mali del mondo e ti circondano di profumi talmente buoni che ne diventi dipendente.

    La televisione non è una cremina, non la tocchi.

    Mi sono ritrovata a vendere aria.

    Alla fine vendevo me stessa, creavo un’illusione talmente bella, per ogni possibile cliente, che acquistava spazi affinché il loro sogno fosse visto in tutta Lombardia e Piemonte.

    A settembre, dopo un’estate un po’ pesante, mi prende il sacro fuoco, quella forza che cresce violenta dentro, nella pancia, e che mi spinge a voler fare sempre di più e meglio, a credere e inventare qualcosa di nuovo.

    Ho la necessità quasi fisica di creare tanti sogni per gli altri. Realizzare qualcosa per il prossimo mi è sempre sembrato più nobile che non farlo per me.

    Bugia.

    È sempre stato solo più facile.

    Adoperarsi per se stessi è un’impresa titanica, implica sforzi emotivi imponenti e ci sono momenti in cui a me sono mancate le forze, quelli in cui il solo stare al mondo era già un’impresa.

    Dicevo che era stata un’estate pesante, in realtà, chi mi conosce, sa perfettamente che la mia vita è da sempre una guerra, impari, contro il destino. Sembro designata a combattere sempre e comunque... una Lady Marion dei tempi moderni, un Don Quijote in jeans, una moderna Giovanna D’Arco.

    Ci sono persone che nascono fortunate e a cui tutto riesce semplice, immediato.

    A me no.

    Attenzione, ho trentaquattro anni e, per quello che ho vissuto e come, ho già riempito almeno tre vite.

    Devo mordere la vita, andare fino in fondo, annegare, annaspare e tornare a respirare.

    Sarà perché sono dello Scorpione? Non lo so, ma mi piace crederlo!

    Se soffro, mi devasto e mi crogiolo nel mio dolore.

    Se sono felice, sono una mina impazzita nell’universo.

    Sono uno tsunami sulla mia vita e su quella degli altri.

    Nel bene e nel male.

    Anni fa ricordo c’era una pubblicità delle Superga, le scarpe da ginnastica più tossiche dell’universo, recitava così:

    o le ami, o le odi.

    Questa sono io. Mi ami o mi odi, amo oppure odio. L’indifferenza non mi appartiene.

    Due

    Nell’estate 2010 era appena terminata quella che io mi ostinavo a vedere come La Storia della mia vita.

    Quante bugie ci raccontiamo a volte per paura di rimaner soli?

    Credo di essere un po’ come i gatti di cui amo circondarmi, ho tante vite.

    Vivo sola da quando ho diciotto anni. Per mia scelta. Ho mentito ancora. Vivo sola da quando ho diciotto anni perché sono un’anima in fuga. Quando ero dodicenne, mio padre è stato ucciso ed io sono morta con lui. Fine della prima me.

    La seconda è stata tra i dodici e i diciotto anni, incazzata con gli uomini e con Dio.

    La terza tra i diciotto e i venticinque.

    Pensavo di spaccare il mondo. Ho solo fatto a pezzi me e chi cercava di amarmi.

    Ho sempre sentito che ero su questa terra per fare qualcosa di buono, se non per me, per gli altri.

    Ho trentaquattro anni e sto ancora annaspando nel tentativo di capire cosa farò da grande.

    A ventisei inizia la mia quarta vita, divento madre. Sono nata per essere mamma.

    Anche qui ho fatto disastri, io, che credo nel bene supremo chiamato Famiglia, mi sono ritrovata ad avere un figlio da un bambino, mio coetaneo che, dopo cinque anni di storia insieme, mi ha chiesto di fare una scelta.

    Inutile dire cosa abbia scelto. Ho scelto me. Il potermi guardare serenamente allo specchio tutte le mattine e sapere nel profondo che era giusto così.

    Lui non l’ho più visto, sa di avere un figlio e non si sono mai conosciuti. Al mio cucciolo d’uomo ho raccontato che non tutti nascono per essere genitori, che è il lavoro più bello e il più faticoso dell’universo, è normale che non tutti possano sentirsi preparati.

    Ho vissuto la mia maternità come il segno di un progetto più ampio, al quale proprio non potevo sottrarmi. L’ho desiderato per due, lo amo per due. Basto io. Ora Sebastiano, il mio bimbo, è qui con me. Siamo in sala, lui guarda un po’ di televisione ed io scrivo; più tardi usciremo, faremo la spesa e andremo al parco a giocare, più tardi però.

    Ora vado avanti.

    Tre

    Fabio, quello che, con tutte le mie energie, ho voluto considerare per tanti anni la Storia, è un bell’uomo.

    Ci siamo conosciuti nel 2003, quando Seba aveva qualche mese ed io, dopo un periodo di assestamento psicofisico, avevo finalmente deciso di riaffacciarmi al mondo.

    Quale migliore occasione di un’amica che apre un localino in Milano per ricominciare a lavorare senza troppi pensieri?

    In quel periodo, l’idea di innamorarmi e di stare con un uomo era, per ovvi motivi, non solo l’ultimo dei miei pensieri ma mi procurava persino l’orticaria!

    Inizio a lavorare da Samantha al Kubla Khan e lì, tutti i giorni, verso le quindici e trenta, entra questo bell’uomo, un po’ diverso dagli altri, tutto scuro, alto, imponente, centottanta centimetri di maschio latino: barba, capelli e occhi scuri.

    Indossava sempre, e li usa tuttora, dei jeans che ho sempre pensato fossero un po’ alla D’Artagnan. Stretti in fondo, senza moda e senza età.

    Dopo qualche settimana, tra una birra e l’altra, le sue, e le mie perenni pulizie dietro o davanti al bancone, mi dice di essere un avvocato penalista.

    Ero così fuori dal mondo che pensavo venisse lì per provolare un po’ con la titolare. Mi sbagliavo di grosso e, col senno di poi, sarebbe stato meglio, se non altro per me!

    Non ho mai preso coscienza di me e della mia femminilità. Non mi sono mai accorta di piacere a qualcuno.

    Un pomeriggio finisco un po’ più tardi del solito, verso le diciassette e, uscendo, mi ritrovo Fabio davanti, scambiamo due parole, le mie assolutamente di circostanza, e a un certo punto con nonchalance:

    Senti, ma se una di queste sere mangiassimo una cosa insieme?

    Io, presa in contropiede, ho pensato Vuoi giocare con me avvocatino e allora eccoti servito! Se vuoi, prendiamo una pizza da asporto e vieni a mangiarla da me, ho un bimbo di pochi mesi e sono sola.

    Non volevo uomini intorno, ma flirtare mi è sempre piaciuto. Credo di essere un uomo mancato.

    Ti dico mangiamo insieme per mia comodità, a casa mia e tu, piccolo uomo, già vai in fibrillazione e trattieni a stento un’erezione pensando: Evvai, fatta, sono irresistibile, questa la lancia via con la fionda manco non fosse sua!

    Alcuni uomini sono proprio embrionali.

    Diciamo solo che per i cinque anni a seguire il buon avvocato è stato prontamente relegato al ruolo di miglior amico!

    Così impari a essere così sicuro di te!

    Tre mesi dopo che ci si conosceva mi ha chiesto di sposarlo. Neanche a dirlo ho rifiutato.

    Scusa non ci siamo mai neppure baciati e te mi chiedi di sposarti?

    Non posso neppure pensare di aver combinato qualcosa in un momento di poca lucidità. Ahimè non mi drogo, mai fatta neppure una cannetta, non bevo perché sono astemia, nel senso che proprio mi mancano gli enzimi per assimilare l’alcool e, in quel periodo, pure il sesso era escluso. Ho un solo vizio ma mica da sempre, le Merit. Quindi grazie no, non ti sposo. Grazie per la tua generosissima offerta Vorrei amare te e Sebastiano e provvedere a voi e nella mia testa il panico. Oddio, questo manco mi conosce e vorrebbe così disinteressatamente fare tutte ’ste cose? Quale sarà il prezzo? Panicoooooooo! Scappare, velocissimamente scappare!

    Per i successivi cinque anni, quindi, ho trattato Fabio come fosse il mio miglior amico.

    Gli raccontavo tutto: lavoro, casini, Seba, trombate epiche, storie dalle quali chissà com’è, uscivo sempre massacrata.

    Quattro

    Corre l’anno 2006 e, un bel giorno di giugno, lo chiamo. Negli ultimi tempi, mi ero accorta che, quando uscivo con qualcuno, non mi sentivo tanto a mio agio. Mi ritrovavo verso metà serata a pensare: Speriamo non ci provi, speriamo non ci provi! E ancora: Ma io con ’sto tizio cos’ho in comune? Perché non sono andata a bere qualcosa con Fabio?

    Decido che è giunto il momento di uscire dall’impasse nella quale mi sono infilata da sola. Così, una mattina di giugno, chiamo il mio amicone e lo tramortisco con qualcosa che suonava più o meno così: Senti, immagino tu non ti aspetti quello che sto per dirti... è un po’ che ci penso… mi sa che mi sono innamorata di te, in fondo ci ho messo solo cinque anni a capirlo! Comunque tu stai tranquillo e pensaci un po’ su, quando vuoi, ci sentiamo, ciao.

    E, senza dargli il tempo di ribattere, ho chiuso la chiamata. Meglio, gli ho proprio attaccato il telefono in faccia! Anche la donna più temeraria a un certo punto riprende coscienza, si rende conto del livello di pura follia raggiunto e si spaventa da sé per la risposta che potrebbe arrivarle!

    Immagino che in quel preciso istante, come minimo, abbia tamponato qualcuno! È sparito per venti giorni, non una telefonata, non un messaggetto.

    Ai primi di luglio mi chiama, senza accennare minimamente alla telefonata, e mi chiede cosa ho in mente di fare il weekend. Niente di che, vado a Santa dai miei... perché? rispondo già in fibrillazione!

    "No, sai, volevo andare anch’io a Lavagna, un po’ per lavoro e un po’ per godermi mezza giornata in

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