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L'Abiezione: I gialli del Dio perverso
L'Abiezione: I gialli del Dio perverso
L'Abiezione: I gialli del Dio perverso
E-book223 pagine3 ore

L'Abiezione: I gialli del Dio perverso

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Info su questo ebook

Non c’è niente di meglio degli auguri di Natale, per il sindaco di Puntammare, la cui principale preoccupazione è nascondere il disastro del bilancio contabile del comune sotto una coltre di vischio e di frasi fatte. E non c’è niente di peggio, per rovinare l’idillio e attirare la stampa, della morte di un notabile: Umberto Salzano, ex presidente del partito locale più in vista, avvelenato da una tavoletta di cioccolato che il comune ha distribuito con dei cesti-dono natalizi.
Nico Baselice, vigile urbano - che avrebbe tutt’altri compiti e neanche quelli svolge volentieri - viene chiamato a risolvere il problema: tener fuori il comune da questa storiaccia, in soli quattro giorni. Gli stanno affidando una missione ambiziosa o suicida? Pensano che sia l’unico a potercela fare o c’è qualcuno che spera, per altri scopi, di vederlo fallire platealmente?
Dopo L’intransigenza, una nuova storia del “Dio perverso”, tra gli uffici e le sacrestie di un paesino del litorale casertano, tra la corruzione dei funzionari e il delirio di un sacro che calpesta tutto ciò che incontra sul suo cammino. Sullo sfondo, una storia di dominazione che risale al tempo della guerra e un amore che non sembra mai essere meno che impossibile.
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita22 apr 2020
ISBN9788863365276
L'Abiezione: I gialli del Dio perverso

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    Anteprima del libro

    L'Abiezione - Paolo Calabrò

    Giovedì, 20 dicembre 2012

    Casa, mattina presto

    Albeggia. Gisella è già in strada — impermeabile chiaro, borsa alla spalla, capelli al vento ma ordinati — va verso la macchina e apre lo sportello. Alza lo sguardo e ci vede. Sorride. Sul balcone ci siamo io e Roberto, mio figlio; uno accanto all’altro, in piedi. Sorridiamo anche noi. Ci saluta con una mano, entra e mette in moto. Poi parte a razzo, a una velocità impossibile, faccio appena in tempo a vedere la fila di auto incolonnate nel traffico, proprio davanti a lei. Se non si ferma subito non potrà evitarle. Ma non solo non si ferma, non rallenta nemmeno; niente lucine rosse accese agli angoli, non sta frenando. Succederà l’irreparabile, lo sento. Eppure non sono triste. Anzi, gioisco. È quello che voglio, in fin dei conti: se si schiantasse d’un colpo, non mi dispiacerebbe. Detto così suona male, lo so; ma è la verità. Non è facile capire quello che intendo, perché io amo mia moglie; non ho mai amato un’altra donna, e nessuno più di lei. Eppure vorrei che morisse proprio lì, davanti ai miei occhi. È quello che spero. È quello che sogno. Da anni. E il sogno è sempre lo stesso: Gisella che corre furiosa mentre noi ce ne stiamo ancora lì a ricambiare il suo saluto, felici che l’ultimo ricordo che abbiamo di lei sia quel sorriso. Nel momento dell’impatto, come ogni volta, mi sveglio; e all’improvviso mi torna in mente il suo volto dolorante nel letto dell’ospedale, il fisico provato dall’inutile terapia, la faccia scarnificata dal cancro. Sarebbe molto letterario dire che la malattia le aveva lasciato intatto lo sguardo fiero e incantato dall’amore; ma la verità è che il tumore prende tutto, ti spegne ogni focolaio di vita, finanche la luce degli occhi. Dicono che non ho accettato la morte di mia moglie. Ma si sbagliano: se la rifiutassi, non la sognerei quasi tutte le notti. Non è la morte che rifiuto, ma il linfoma. Non cambierò idea su quest’argomento.

    Appena apro gli occhi non mi stupisco di trovarmi nel letto da solo, invece che in terrazzo. Quello che mi stupisce, ogni volta, è di non essermi svegliato di soprassalto, convulso e sudato come mi aspetterei, data la dinamica dei fatti. Ma sono tranquillo. Resto ancora qualche attimo fra le lenzuola, immobile, poi guardo la sveglia come se non sapessi cosa vi leggerò. Anche lì, nessuna sorpresa. È ora di alzarmi.

    Casa, subito dopo

    Ancora in corridoio, mentre mi sforzo di abbottonare la camicia d’ordinanza — che ultimamente mi va ancora più stretta del solito — sento rumori di stoviglie che vengono dalla cucina. Entro e vedo Roberto, di spalle, darsi da fare con pentolini e utensili, la scatola dei biscotti, il cesto della frutta. Ha già apparecchiato, ma adesso è troppo preso da quello che sta facendo per accorgersi che sono dietro di lui. Solo quando sposto la sedia dal tavolo si volta. Mi dice:

    «Buongiorno. Dormito bene?»

    È la domanda che gli ho sempre fatto io, fin da quando era piccolo. Provo a ricordare in quale momento ha cominciato lui a chiederlo a me. Ci sono troppe cose che vanno a rovescio: dovrei essere io a prendermi cura di mio figlio, e invece è lui a svegliarsi per primo. Ed è lui che prepara la colazione. Mi ha perfino messo a dieta, e da tre settimane va anche a fare la spesa: ha detto che al banco dei salumi non mi devo nemmeno avvicinare. Ma non è solo questo. Da quando siamo rimasti soli, ho sempre pensato che tutto quello che facevo, lo facevo per Roberto, per dargli una vita migliore, più comoda, più bella. E anche quando pensavo a ciò che faceva piacere a me, mi ripetevo che era comunque lui il mio punto d’approdo: se fossi stato più felice io, avrei potuto rendere più felice mio figlio. Non era un alibi, ma una stella polare che non avrei mai dovuto perdere di vista. Più lo guardo, però — adesso ha quindici anni ed è già alto quanto me — più mi accorgo che la sua felicità dipende da tutt’altre cose: gli amici, le ragazze, perfino la scuola. Quello che faccio o non faccio io, non ha più molta importanza. Ora un voto alto o una bella serata al cinema lo mette di buon umore per due giorni di fila; non è più come cinque anni fa, quando ci volevano i miei abbracci e a grandi dosi.

    Roberto mi passa la moca rovente, tenendone il manico con una presina. Non ce ne sarebbe bisogno — il manico è atermico — ma lui tratta tutti quegli oggetti con una scrupolosità eccessiva, come se volesse compensare la mancanza di dimestichezza con un surplus di attenzione. Allo stesso modo, mi passa poi la zuccheriera, reggendola con entrambe le mani.

    «Un cucchiaino — mi dice. — Raso».

    Mi metto a girare il caffè nella tazzina e vengo riassorbito dai miei pensieri. Cioè, dall’unica cosa che mi gira per la testa, dopo i fatti della rettoria di quest’estate: il lavoro. E Auriemma, che si è preso la promozione al posto mio. Non se l’è presa, mi ripeto, ma non ci credo neanche io: l’ha fatto apposta e con la massima destrezza. Mi ha convinto ad aiutarlo e, all’ultimo momento… È stato un caso, cerco ancora di illudermi, qualche volta. Tante cose succedono per caso. Ma non questa; questa no. E io non riesco a smettere di pensarci. Non è un pensiero ossessivo; è peggio, in un certo senso. È un’ingiustizia. Che — come un conto che non torna — mi costringe a rifare i calcoli, ancora, e ancora. Mi rendo conto che non finirà fino a quando non avrò rimesso tutto in pari.

    «Ma si può sapere a che stai pensando? Non dici una parola».

    «A niente — rispondo, rigirandomi in mano la fetta biscottata che mi spetta. — ’Sta dieta, qua: non c’è qualcosa da mangiare?»

    Roberto posa la tazzina nel piatto e si mette a guardarmi con tutte e due le mani appoggiate alla tovaglia.

    «Qual è la prima regola della dieta?» mi dice.

    «Non si parla di cibo».

    «Esatto. E poi stai andando alla grande, no? Hai già perso qualcosa, mi pare».

    «Sì. La voglia di vivere».

    «Non ricominciare. — Si alza in piedi e sparecchia il suo posto, mettendo tutto nel lavello. — Del cibo non devi solo smettere di parlare; non devi proprio più pensarci».

    Poi, colto da un’idea improvvisa, torna ad accostarsi al tavolo, appoggia un dito sullo schermo del telefonino, dà un’occhiata e dice:

    «Sono le 8 e 30 precise. Dovresti essere in ufficio già da mezz’ora».

    Già. In quello sgabuzzino umidiccio e incolore nel seminterrato del comune, dove qualcuno, anni fa, ebbi l’idea di piazzare una scrivania. Non dovrei trovarmi più lì: il caso della rettoria l’ho risolto anch’io e dovrei starci io nella stanza al primo piano. Dove adesso sta Auriemma. Il nuovo responsabile dei tributi. Felicitazioni. Invece continuo a fare il vigile urbano. Il mio ufficio non è il posto migliore per cercare di non pensare sempre alla stessa cosa. Adesso, figlio mio, hai capito perché non scendo mai prima di quest’ora?

    «Perché — dico. — È già così tardi?»

    Al comune, in ritardo

    Elpidio mi intercetta appena metto piede nell’androne. Non fa nemmeno finta di avermi incontrato per caso.

    «Eccolo qua il nostro campione» dice, prendendomi sottobraccio.

    Elpidio Iannaccone, sindacalista. Mi stava aspettando. Tutto sta a capire perché.

    «Elpi’, non è giornata» rispondo, trascinandomelo al seguito mentre vado verso le scale.

    «Con te non è mai giornata — fa lui — da tre mesi a questa parte».

    Risposta esatta. Il mio dirigente mi ha sempre considerato un buono a nulla, uno che non aspira a nient’altro che a riscuotere lo stipendio a fine mese. E io non mi sono mai sbracciato per fargli credere il contrario, tanto non l’avrebbe apprezzato: più mi relegava in panchina, più abbassavo il profilo. Così, mentre lui si convinceva sempre di più di avere ragione sul mio conto, io finivo sempre più ai margini. Avrei potuto lottare, o lamentarmi; ma è andata diversamente. Ho sempre pensato che, se uno vuole sapere come sono fatto davvero, non ha che da mettermi alla prova. A lui, evidentemente, non è mai interessato. Quando cerco di spiegarlo, mi sento rispondere sempre allo stesso modo: «In quest’epoca, bisogna sapersi vendere». Vorrà dire che non sono fatto per quest’epoca. E bisogna sapersi vendere è il motto della prostituzione.

    In estate, però, le cose si erano messe diversamente. Varriale aveva avuto bisogno di me — e di Auriemma — e ci aveva chiesto di risolvere il problema della rettoria. L’abbiamo fatto. Contro ogni pronostico, abbiamo catturato il colpevole della devastazione e l’abbiamo assicurato alla giustizia. Be’, più o meno. Ma alla grande. Lì ho dimostrato quello che valevo. Ma pare che nessuno se ne sia accorto.

    «E sai pure perché» gli dico.

    «Uffà — dice lui, sfilando il braccio — quanto la fai lunga. Il passato è passato. Non c’è più».

    Sul serio? penso. A me sembra di sentirmelo sempre sulle spalle. Con tutto il suo peso.

    «Comunque — continua, proprio mentre mi accingo ad andare al piano di sotto — Varriale vuole vederti. Ti aspetta nel suo ufficio».

    «Adesso?»

    «E quando, la notte di Natale?»

    «Di che si tratta?»

    «Boh. Forse ha un lavoro per te».

    Ferdinando Varriale è l’uomo che molte donne vorrebbero sposare: piacente anche se in là con gli anni, benestante ma non fino al punto di diventare inaccessibile, influente come può tornare utile certe volte (Ci penso io cara, faccio solo una telefonata me lo immagino dire a una che, frattanto, gli si sdilinquisce sul petto). È il concentrato di tutto ciò che odio di più: il potere fine a se stesso, il culto esclusivo del proprio tornaconto, la mancanza di qualsiasi variante dei concetti di dignità e di decenza. Non c’è amministratore locale a cui non abbia offerto i suoi servigi: c’è qualcosa che non si può fare? Lui trova il modo. La giunta ha in mente un illecito, un abuso, anche solo un semplice eccesso? Lui riesce a vestirlo da necessità, o da emergenza. Non c’è mai una volta che faccia qualcosa solo perché va fatto. Perché è giusto così. Perché è un suo compito. Tratta il suo incarico come se fosse un patrimonio, anziché una responsabilità; e le persone a lui affidate — me compreso — come una risorsa a disposizione dei suoi scopi. Vorrei dirgli tutto questo, ogni volta che lo vedo. Mi sono preparato anche delle sintesi, ove mai mi capitasse l’occasione di usarle: Lei è un vassallo che ha venduto alla politica tutta la sua onestà, ammesso che ne abbia mai avuta una è la mia preferita. Certe volte — nelle rare occasioni in cui ci troviamo faccia a faccia — lo vedo guardarmi come se lo sapesse, e ridere tra sé del fatto che sono costretto a trattenermi.

    Adesso ha un lavoro per me. Vuol dire che è disperato. O vuole fregarmi. In entrambi i casi, la soluzione è la stessa.

    «Dove vai? — mi chiede Elpidio, quando ho già sceso i primi gradini. — Varriale è di sopra».

    «Appunto».

    «Non è una seccatura qualunque, non te l’avrei neanche detto. È una cosa molto diversa».

    «Allora lo sai che cosa vuole» sottolineo.

    «No» insiste. Ma sono sicuro che menta.

    Non me lo dirà: sa perfettamente che è l’unico modo per convincermi ad andare al primo piano.

    «Da Varriale posso aspettarmi solo fregature».

    «Non è come pensi» risponde.

    No, certo che mi sbaglio.

    È sicuramente peggio.

    Nell’ufficio di Varriale, mattina

    La porta dell’ufficio del dirigente è aperta, dalla soglia vedo il vicesindaco, in piedi di spalle, che saluta Varriale seduto al suo posto. «Grazie» dice il primo, e l’altro lo ricambia con un sorriso a labbra strette: sta pregustando il momento in cui passerà a bussare cassa. Si stringono la mano, poi il vicesindaco viene verso l’uscita.

    Mi saluta con un «Buongiorno» smozzicato, cui rispondo quando ormai non lo vedo più.

    «Si accomodi, Baselice» mi invita Varriale appena varco la soglia. Ricambio il saluto velocemente, perché la mia attenzione viene subito catturata dall’aspetto di questa stanza, che mi dà sempre la stessa impressione: quella di uno che non ci lavori veramente. È tutto così spoglio, impersonale, asettico, che perfino le carte sulla scrivania sembrano oggettistica da sala d’attesa, piuttosto che pratiche da trattare. Alle sue spalle, l’enorme finestra a vetri che rende prestigioso e luminosissimo l’ambiente, proietta lo sguardo in un desolante panorama di costruzioni bianco-grigie non rifinite, eppure abitate, sfalsate per altezza e addossate l’una all’altra secondo un disegno incomprensibile. Sembrano costruite da bambini partiti per quell’impresa con tanto entusiasmo ma che poi, improvvisamente stanchi del gioco, l’abbiano abbandonato prima di portarlo a termine. Dovrebbe essere il centro del mio paese, eppure sembra squallido come una periferia.

    «Ieri sera, alle nove e mezza, Umberto Salzano è morto nel suo appartamento. L’abbiamo appreso dalla sorella, che viveva con lui». Il suo tono — di solito spigoloso e supponente — è stranamente morbido, conciliante. Questo purtroppo rafforza il mio sospetto: ha proprio bisogno di qualcosa.

    «Mi dispiace» dico in automatico, come si fa normalmente di fronte alla notizia di un lutto.

    «Come a tutti — risponde. — Umberto Salzano era un membro molto rispettato della nostra comunità».

    Certo, lo conoscevamo bene: ex presidente del PNP — il Partito Nazional Popolare di Puntammare — più in vista per gli scandali che per i meriti.

    «Porgerò le mie condoglianze a suor Agata» dico. Agata Salzano, invece, è sempre stata al di fuori delle manovre e delle amicizie del fratello.

    «Le abbiamo già inviato un telegramma a nome dell’ufficio» dice Varriale.

    «Grazie di avermi avvisato» concludo alzandomi, fingendo di non aver capito che dev’esserci dell’altro.

    «Non l’ho chiamata per dirle questo» dice Varriale.

    No. Certo che no.

    «Salzano non ha avuto una morte naturale — continua, chinandosi in avanti sulla scrivania e congiungendo le mani. — È stato avvelenato. — Fa una piccola pausa ad effetto, prendendosi il tempo per valutare la mia reazione a quel dettaglio. Poi riprende: — E il cioccolato con cui è stato avvelenato si trovava in uno dei pacchi-dono natalizi che il comune, insieme alla cappella di San Pancrazio, ha consegnato agli…»

    Agli indigenti, vorrebbe dire. Si è fermato giusto in tempo. Già da un po’ — da quando aveva cominciato a giocare d’azzardo più forte del solito — Umberto era caduto in disgrazia presso quelli che contano, e non contare nulla è la cosa peggiore che possa capitare a uno che vive qui. Terribile per chi era stato un notabile, a suo tempo.

    «L’assassino ha approfittato della sua golosità, sapevano tutti quanto amasse il cioccolato. Nessuno sa farci del male come chi conosce le nostre debolezze. — E nessuno è più irritante di chi, di punto in bianco, si metta a fare il filosofo, vorrei chiosare. Lascio perdere. — Ma vengo subito al punto, Baselice: lunedì, alla vigilia di Natale, il sindaco farà gli auguri alla cittadinanza, e vorrebbe evitare di passare tutto il tempo a rispondere ai giornalisti».

    Ecco il punto. Per il sindaco gli auguri di Natale sono un momento di autocelebrazione, non vuole offuscarli con quest’ombra. E soprattutto non vuole la stampa fra i piedi: con la scusa della tragedia di Umberto Salzano, finirebbero per chiedergli dei problemi di bilancio. Uno spettro si aggira per il comune: la verità sui lavori alla rotonda… ma che dovrei fare io? Provare a distrarli agitando un sonaglino?

    «C’era in programma che presenziasse anche don Italo — aggiunge. — Ma se non lo rilasceranno in tempo, dovremo rassegnarci a farne a meno…»

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