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E-book315 pagine4 ore

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Info su questo ebook

La storia d'amore più rock dell'estate

Il sogno di Lily è comporre canzoni. Scrive versi ovunque le capiti. Anche durante le lezioni che proprio non riesce a digerire, per esempio quelle di chimica. Almeno fino al giorno in cui l’insegnante, esasperato dalla sua disattenzione, fa sparire dal suo banco qualsiasi oggetto possa distrarla: tutto tranne un foglio e una penna per prendere appunti. Ma la passione è più forte di tutto. E così Lily inizia ad appuntare versi sul banco, sperando che nessuno se ne accorga. Qualcuno però la scopre. Qualcuno che legge e aggiunge parole alle sue, sul banco. A ogni lezione di chimica. Tre volte a settimana. Quella che nasce tra Lily e il suo misterioso interlocutore è una vera e propria corrispondenza, che la entusiasma, le dà energia e la spinge a trasformare quelle frasi in testi di canzoni. Quanto può durare la magia?

«Un piccolo Orgoglio e Pregiudizio. Le lettrici che cercano il libro perfetto da sfogliare sotto l’ombrellone non resteranno deluse!»
Kirkus Reviews

«La commedia romantica perfetta.»

«Un romanzo davvero adorabile che vi lascerà con il sorriso sulle labbra e una piacevole sensazione di calore nel cuore.»

«Una storia adorabile, spiritosa e originale; una perfetta lettura estiva. Se cercate un libro che vi renda felici, P.S. I Like You fa al caso vostro. Sono tentata di andare subito a rileggerlo…»
Kasie West
È autrice di diversi romanzi Young Adult di successo. Vive in California con il marito e i quattro figli.
LinguaItaliano
Data di uscita12 apr 2017
ISBN9788822707598
P.S. I Like You
Autore

Kasie West

Kasie West lives with her family in central California, where the heat tries to kill her with its 115-degree stretches. She graduated from Fresno State University with a BA degree that has nothing to do with writing. Visit her online at www.kasiewest.com.

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    Anteprima del libro

    P.S. I Like You - Kasie West

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    1631

    Titolo originale: P.S. I Like You

    Copyright © 2016 by Kasie West

    All rights reserved.

    Published by arrangement with Scholastic Inc., 557 Broadway, New York, NY 10012, USA

    Traduzione dall’inglese di Angela Ricci

    Prima edizione ebook: giugno 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0759-8

    Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    www.newtoncompton.com

    Kasie West

    P.S. I Like You

    Newton Compton editori

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Ringraziamenti

    Ancora e per sempre a Jared.

    Capitolo 1

    Essere colpiti da un fulmine. Essere attaccati da uno squalo. Vincere alla lotteria.

    No. Cancellai tutto con un tratto di penna. Troppi cliché.

    Presi a picchiettarmi le labbra con la penna.

    Rara. Qual è una cosa veramente rara? I tartufi, pensai ridacchiando. Ci starebbero proprio bene in una canzone.

    Tracciai una doppia linea con la penna, cancellando le parole fino a renderle irriconoscibili, prima di scriverne una soltanto. Amore. Ecco, quello sì che era raro nel mio mondo. Almeno nella sua versione romantica.

    Lauren Jeffries, la ragazza seduta accanto a me, si schiarì la voce. Solo a quel punto mi accorsi di quanto la classe fosse silenziosa e che per l’ennesima volta ero scivolata nel mio spazio privato, tagliando fuori il mondo intorno a me. Nel corso degli anni avevo imparato a tenere un profilo basso e a gestire le occasionali, sgradite attenzioni. Feci scivolare il manuale di chimica sopra il quaderno dove c’era scritto di tutto tranne gli appunti di chimica, e alzai lentamente la testa.

    Gli occhi del signor Ortega erano puntati su di me.

    «Bentornata in classe, Lily».

    Tutti scoppiarono a ridere.

    «Sono certo che stavi scrivendo la risposta», disse lui.

    «Ma è ovvio». Il trucco era sembrare imperturbabile, priva di sentimenti.

    Il signor Ortega, infatti, come speravo, lasciò perdere e passò a spiegare gli esperimenti che avremmo fatto in laboratorio la settimana successiva, assegnando le letture preparatorie. Visto che si era disinteressato a me così facilmente, sperai di poter sgattaiolare via a fine lezione senza farmi notare, ma quando suonò la campanella lui mi chiamò.

    «Signorina Abbott, può concedermi un minuto del suo tempo?».

    Tentai di pensare a qualche ottima scusa per andarmene con il resto della classe.

    «Direi che me lo deve, considerando che i cinquantacinque appena trascorsi non li ha certo dedicati a me».

    L’ultimo studente uscì dalla porta e io mi avvicinai. «Mi scusi, signor Ortega», dissi. «È che io e la chimica proprio non ci intendiamo».

    Lui sospirò. «Dovrebbe essere un rapporto reciproco, ma non mi pare che tu stia facendo la tua parte».

    «Lo so. Ci proverò».

    «Proprio così. E se ti vedo un’altra volta aprire il quaderno in classe, te lo requisisco».

    Mi trattenni dal brontolare. Come avrei fatto a sopportare quei cinquantacinque minuti di tortura quotidiana senza una distrazione? «Ma devo prendere appunti. Appunti di chimica». Non ricordavo minimamente quando fosse stata l’ultima volta che avevo scritto qualcosa che avesse a che fare con la chimica, figuriamoci degli appunti veri e propri.

    «Puoi usare un singolo foglio di carta, e dovrai farmelo vedere a fine lezione».

    Strinsi al petto il mio quadernino verde e viola. Era popolato da centinaia di idee per canzoni e testi, versi lasciati a metà, disegnini e scarabocchi. Era la mia àncora di salvezza. «È una strana punizione, davvero crudele».

    Il signor Ortega ridacchiò. «Il mio lavoro consiste nel farti superare il mio corso. Non ho altra scelta».

    Avrei potuto proporgli un’ampia lista di altre possibilità.

    «Così direi che abbiamo raggiunto un accordo».

    Accordo non era esattamente la parola che avrei scelto io, perché implicava l’idea che entrambi avessimo avuto voce in capitolo. Semmai avrei definito ciò che aveva appena detto legge, ordine… o anche editto.

    «C’è altro?», chiese il signor Ortega.

    «Come? Oh. No, tutto a posto. Ci vediamo domani».

    «Senza quaderno», mi salutò lui.

    Aspettai che la porta si richiudesse alle mie spalle, riaprii il quaderno e scrissi la parola editto nell’angolino di una pagina. Era una bella parola e non veniva usata abbastanza. Mentre scrivevo, diedi inavvertitamente una spallata a qualcuno e barcollai, sul punto di cadere.

    «Sta’ attenta, Calamita», disse un tizio mai visto dell’ultimo anno.

    Erano passati due anni e tutti continuavano ancora a chiamarmi con quel soprannome. Non reagii, ma mentre lui se ne andava immaginai di lanciargli la penna nella schiena a mo’ di freccetta.

    «Sembri pronta a uccidere». A parlare era stata la mia migliore amica, Isabel Gonzales, che mi aveva appena raggiunta.

    «Ma perché tutti si ricordano ancora quella stupida battuta di Cade?», brontolai. Una ciocca ribelle dei miei capelli castano scuro sfuggì alla stretta dell’elastico e mi ricadde sugli occhi. La infilai dietro un orecchio. «Non fa nemmeno rima».

    «Le battute non devono per forza fare rima».

    «Lo so. Non stavo questionando sulle sue abilità poetiche, è che non capisco perché tutti se la ricordino ancora, dopo due anni. Non ha niente di accattivante».

    «Mi dispiace», disse Isabel prendendomi sottobraccio.

    «Non devi scusarti per lui, non state più insieme. E comunque non voglio che tu ti dispiaccia per me».

    «Be’, ma è così. È una canzoncina stupida e infantile. Credo che la gente la ripeta per abitudine, non si rende nemmeno conto di cosa dice».

    Non so se fossi d’accordo, in ogni caso decisi di lasciar perdere.

    «Il signor Ortega ha bandito il mio quaderno dalla sua classe».

    Isabel rise. «Oh-oh. E adesso come farai a vivere senza un arto?»

    «Non lo so. E poi proprio a lezione di chimica. Come fanno a pensare che qualcuno possa davvero stare attento?»

    «A me piace la chimica».

    «Aspetta, rettifico. Come fanno a pensare che qualcuno di normale possa davvero stare attento?»

    «Vorresti dire che tu sei normale?».

    Chinai il capo e le concessi quella piccola vittoria.

    Ci fermammo nel punto in cui il vialetto si biforcava, subito dopo la palazzina B. Il fondo sassoso e rosaceo del viale quel giorno aveva un aspetto particolarmente polveroso. Sollevai il piede che calzava una scarpa da ginnastica e calciai via qualche sassolino dal marciapiede.

    L’Arizona aveva un terreno ottimo per la conservazione delle acque, ma non mi era di grande ispirazione. Forse era meglio osservare il panorama da una certa distanza se volevo trovare qualcosa degno di essere annotato sul mio quaderno. Non appena formulai quel pensiero, mi ricordai di alzare lo sguardo. Gli edifici beige e i gruppetti di studenti erano decisamente meglio dei sassi.

    «Allora, che ne dici di un pranzo finto-messicano?», chiesi a Isabel mentre Lauren, Sasha e il loro gruppo di amici ci passava accanto.

    Isabel si morse il labbro e di colpo assunse un’espressione preoccupata.

    «Gabriel voleva vedermi fuori dal campus per festeggiare i nostri due mesi insieme. Ti dispiace? Non posso dirgli di no».

    «Ah, certo, i vostri due mesi. Era oggi? Ho dimenticato il regalo a casa».

    Isabel alzò gli occhi al cielo. «E cosa mi hai preso? Un libro scritto da te su come non fidarsi mai dei ragazzi?».

    Mi portai la mano al petto e boccheggiai. «Davvero, non è una cosa da me. Comunque il titolo era Come riconoscere se lui è un bastardo egoista. Ma non importa».

    Isabel scoppiò a ridere.

    «Ma non ti darei mai un libro del genere per Gabriel», aggiunsi punzecchiandola. «Lui mi sta davvero simpatico. Lo sai, vero?». Gabriel era dolce e trattava sempre bene Isabel. Quello che mi ispirava libri inesistenti era il suo ex ragazzo, Cade Jennings, il re delle battute idiote.

    Mi resi conto che Isabel mi stava ancora guardando preoccupata. «Ma certo che puoi andare a pranzo con Gabriel», dissi. «Non preoccuparti per me. Divertiti».

    «Magari potresti venire con noi se…».

    Ero molto tentata di lasciarle finire la frase, ma decisi di toglierla dall’imbarazzo. «No, non ho molta voglia di venire al vostro pranzo di mesiversario. Insomma, devo lavorare al mio libro… Il secondo mesiversario e l’inizio del per sempre felici e contenti. Capitolo primo: dopo sessanta giorni, se lui vi rapirà dalla noia del liceo per portarvi da Taco Bell, saprete che fa sul serio».

    «Non mi porta da Taco Bell».

    «Oh-oh. Allora le cose si mettono male per te, e siamo solo al primo capitolo».

    Negli occhi scuri di Isabel si accese una scintilla. «Prendimi in giro quanto ti pare, ma io lo trovo molto romantico».

    Le presi una mano e la strinsi. «Lo so, è adorabile».

    «Tu te la cavi qui?», disse lei indicando gli altri studenti. «Magari puoi andare a pranzo con Lauren e Sasha».

    Scrollai le spalle, l’idea non mi allettava granché. A chimica ero seduta al banco con Lauren e ogni tanto scambiavamo qualche parola. Per esempio quando lei mi chiedeva che compiti c’erano per la volta successiva oppure scostava il mio zaino da sopra il suo raccoglitore. Con Sasha non eravamo nemmeno arrivate a quello stadio.

    Mi guardai i vestiti. Quel giorno indossavo un camicione che avevo trovato in un negozio di abiti di seconda mano. Avevo tagliato le maniche per farle assomigliare a quelle di un kimono e intorno alla vita avevo una cintura vintage marrone. Ai piedi portavo delle malconce scarpe da ginnastica rosse. Il mio era un look un po’ eccentrico, di sicuro non alla moda, e in mezzo al gruppo di Lauren, in cui tutte indossavano jeans aderenti e canottierine, avrei di certo dato nell’occhio.

    Mostrai a Isabel il mio quaderno e annuii. «Non c’è problema. Sfrutterò l’occasione per lavorare a una nuova canzone. Sai che a casa non riesco mai a stare da sola».

    Isabel annuì. Poi con la coda dell’occhio lo vidi. E mi bloccai.

    Lucas Dunham. Era seduto su una panchina, circondato da altri ragazzi dell’ultimo anno, con il cappuccio della felpa tirato su, gli auricolari nelle orecchie e lo sguardo perso nel vuoto. Presente e assente allo stesso tempo. Una sensazione che conoscevo bene.

    Isabel seguì il mio sguardo e sospirò. «Dovresti parlargli, sai?».

    Scoppiai a ridere e sentii le guance avvampare. «Ricordi cosa è successo l’ultima volta che ci ho provato?»

    «Ti sei innervosita, succede».

    «Non sono riuscita a spiccicare una parola. Niente di niente. Lui e i suoi capelli da fighetto e il suo look da hipster mi hanno terrorizzata», dissi in un sospiro.

    Isabel inclinò il capo e lo guardò, non era d’accordo sul mio giudizio riguardo il suo aspetto. «Ti serve solo un po’ di allenamento. Magari cominciamo da qualcuno dietro cui non stai sbavando da due anni».

    «Non sto sbavando dietro a Lucas…».

    Lei mi lanciò un’occhiata delle sue e io rinunciai a finire la frase. Anche perché aveva ragione. Gli sbavavo dietro. Probabilmente Lucas era il ragazzo più figo che conoscessi… be’ non che lo conoscessi veramente, ma questa circostanza non faceva altro che renderlo ancora più figo. Aveva un anno più di noi, i capelli scuri e lunghi e si vestiva alternando magliette di gruppi musicali e classiche polo, un abbinamento che mi impediva di collocarlo in una categoria precisa.

    «Organizziamo un’uscita a quattro con me e con Gabriel il prossimo venerdì», disse Isabel all’improvviso. «Ti trovo io un accompagnatore».

    «Grazie, ma passo».

    «Dài! È un sacco di tempo che non esci con qualcuno».

    «Perché sono strana e goffa e non sarebbe divertente né per me né per il malcapitato che avesse inavvertitamente accettato l’invito».

    «Questo non è vero».

    Incrociai le braccia.

    «Devi solo uscire un paio di volte in più con la stessa persona… in modo da farle capire quanto sei divertente», ribatté Isabel, sistemandosi meglio lo zaino sulle spalle. «Con me, per esempio, non sei affatto strana».

    «Invece lo sono eccome, ma tu non hai il problema di dover decidere se baciarmi o no e quindi te ne sei fatta una ragione».

    Isabel scoppiò a ridere e scosse la testa. «Non è per questo. Me ne sono fatta una ragione perché mi piace come sei. Dobbiamo solo trovare un ragazzo con cui puoi essere te stessa».

    Mi misi una mano sul cuore. «E in quella torrida giornata d’estate, Isabel si lanciò nella missione impossibile di trovare un corteggiatore alla sua migliore amica. Si preannunciava una missione lunga e faticosa, che avrebbe messo a dura prova la sua determinazione e la sua fiducia. L’avrebbe condotta sull’orlo della pazzia e…».

    «E basta!», mi interruppe lei dandomi una spallata. «È proprio questo atteggiamento che rende tutto più difficile».

    «Esattamente quello che stavo cercando di dire».

    «No, non sono d’accordo. Vedrai. Il ragazzo giusto per te è lì fuori da qualche parte».

    Sospirai e posai di nuovo lo sguardo su Lucas. «Iz, davvero, sto benissimo così. Niente appuntamenti combinati».

    «Okay, niente appuntamenti combinati. Ma cerca di essere più aperta, o rischi di perderti qualcuno che magari hai proprio sotto al naso».

    Spalancai le braccia. «Chi è più aperto di me?».

    Isabel mi lanciò un’occhiata scettica, e stava per rispondere qualcosa quando udimmo qualcuno gridare: «Eccoti qui! Buon mesiversario!».

    Le guance di Isabel si illuminarono mentre si voltava verso Gabriel. Lui percorse i pochi metri che li separavano e la sollevò in un abbraccio. Erano stupendi insieme, entrambi con capelli e occhi scuri e la pelle olivastra. Era un po’ strano vedere Gabriel nella nostra scuola. Lui frequentava il liceo dall’altra parte della città, perciò io associavo la sua presenza più ai pomeriggi e ai weekend.

    «Ehi, Lily», mi salutò dopo aver posato a terra Isabel. «Vieni con noi?». Il suo invito pareva sincero, era davvero un bravo ragazzo.

    «Be’, se per voi va bene. Appena ho saputo che offrivi tu, ho detto Ci sto!».

    Isabel scoppiò a ridere.

    «Fantastico», disse Gabriel.

    «Stava scherzando, Gabe», disse Isabel.

    «Oh».

    «Già, non sono mica un caso umano». Anche se cominciavo a pensare di esserlo.

    «No, certo che no. È che mi sento in colpa per non avertelo detto prima», replicò Isabel.

    Gabriel annuì. «Le ho fatto una sorpresa».

    «Se continuate a scusarvi con me farete tardi. Andate e divertitevi. E… be’… tanti auguri. Proprio qualche tempo fa ho letto un libro in cui si diceva che il secondo mesiversario segna l’inizio del per sempre felici e contenti».

    «Davvero? Fico», disse Gabe.

    Isabel alzò gli occhi al cielo e mi diede un pugno sul braccio. «Fai la brava».

    Rimasi sola in mezzo al vialetto, a guardare i gruppetti di studenti intorno a me che chiacchieravano e ridevano. Le preoccupazioni di Isabel erano infondate. Stavo benissimo da sola. A volte lo preferivo davvero.

    Capitolo 2

    Ero seduta sui gradini davanti alla scuola con il quaderno in grembo e stavo disegnando. Aggiunsi qualche fiore allo schizzo di una gonna, poi tratteggiai i contorni delle calze con una matita verde. Avevo gli auricolari e stavo ascoltando una canzone dei Blackout. La cantante, Lyssa Primm, era praticamente il mio idolo sia per lo stile che per la musica. Una geniale songwriter che sfoggiava rossetto rosso, abiti vintage e aveva costantemente una chitarra in mano.

    Apri i tuoi petali e lascia entrare la luce. Le parole della canzone risuonavano nelle mie orecchie. Presi a battere il piede a terra tenendo il tempo. Volevo imparare a suonare quella canzone con la mia chitarra, più tardi speravo di poter fare un po’ di esercizio.

    Il frastuono prodotto da un minivan sovrastò la musica. Non avevo bisogno di alzare lo sguardo per sapere che mia madre era appena arrivata. Chiusi il quaderno, lo infilai nello zaino, mi tolsi gli auricolari e mi alzai in piedi. Riuscii a scorgere le teste dei miei due fratelli dal lunotto posteriore, mamma era passata prima a prendere loro.

    Aprii la portiera del passeggero e fui accolta da una vecchia canzone degli One Direction, poi mi accorsi che il sedile era occupato dal cofanetto delle perline di mia madre.

    «Puoi salire dietro?», chiese mamma. «Mentre torniamo a casa devo consegnare una collana a un cliente». Premette un pulsante e la portiera laterale si aprì, rivelando i miei fratelli che litigavano per un pupazzetto. Per terra c’era un bicchiere di plastica che rotolava. Mi guardai intorno per capire se fosse il caso di vergognarmi, ma nel parcheggio non c’era quasi più nessuno. Erano rimasti solo pochi ragazzi che stavano salendo nelle rispettive macchine o salutando gli amici. Nessuno pareva fare caso a me.

    «Scusami, sono in ritardo», aggiunse mamma.

    «Non importa». Chiusi la portiera davanti, raccolsi il bicchiere che rotolava sull’asfalto e diedi una spinta sulla schiena a mio fratello. «Spostati, mostro numero due».

    Spazzai via un po’ di briciole dal sedile e mi sedetti. «Pensavo che sarebbe venuta Ashley a prendermi», dissi alla mamma.

    Mia sorella maggiore Ashley aveva diciannove anni, la sua macchina e un lavoro. Al momento frequentava il college, ma visto che era rimasta a vivere a casa (rubandomi la possibilità di avere una stanza tutta per me), doveva contribuire alle incombenze familiari.

    «Stasera lavora fino a tardi al negozio del campus», mi ricordò mia madre. «E poi, scusa, ti lamenti perché la tua supermamma che spacca è venuta a prenderti?». Mi sorrise dallo specchietto retrovisore.

    Io risi. «Davvero le supermamme usano l’espressione che spacca

    «E anche fichissima, mitica e bomber». A metà dell’elenco si voltò verso mio fratello e disse: «Wyatt, hai dieci anni, lascialo a Jonah».

    «Ma Jonah ne ha sette! Sono solo tre anni di meno, non può avere sempre tutto lui».

    Jonah mi diede una gomitata nello stomaco mentre cercava di afferrare il pupazzetto di Iron Man.

    «Adesso è mio», dissi provocando un lamento indignato da parte di entrambi, mentre strappavo loro di mano il pupazzetto e lo lanciavo nel bagagliaio alle mie spalle.

    Mia madre sospirò: «Non sono sicura che sia stata una mossa saggia».

    «Il mio stomaco l’ha apprezzata molto».

    I miei fratelli smisero di piagnucolare e ridacchiarono, proprio come avevo sperato. Scompigliai loro i capelli: «Com’è andata a scuola, mostri?».

    Mia madre frenò di colpo per evitare una bmw che ci aveva tagliato la strada. Io allungai un braccio per trattenere Jonah ed evitare che sbattesse la testa contro il sedile di fronte. Non avevo bisogno di guardare chi c’era al volante per sapere di chi si trattava, ma lo guardai ugualmente. Aveva i capelli scuri e ondulati acconciati alla perfezione. Cade aveva quell’aria da ragazzo della porta accanto – alto, sorrisone, occhioni marroni da cucciolo – senza però averne anche la personalità.

    «Qualcuno ha bisogno di un ripassino di scuola guida», borbottò mia madre mentre lui si allontanava. Avevo sperato che almeno gli suonasse il clacson.

    «Diciamo che avrebbe bisogno di un ripassino di un po’ di tutto». Per esempio, una lezione o due su come fare delle battute decenti.

    «Lo conosci?»

    «È Cade Jennings. Anche se qualcuno lo chiama Jennings l’Idiota». Ecco, quello sì che era un soprannome azzeccato e accattivante. Invece Lily Calamita…? Ma come aveva fatto a prendere piede così tanto?

    «Davvero?», chiese mamma. «Non è una cosa molto carina da dire».

    «Be’, in realtà non è vero». Ma sarebbe stato bello. Suonava proprio bene.

    «Cade…». Mia madre socchiuse gli occhi, pensierosa.

    «Isabel una volta ci usciva insieme. Quando eravamo al primo anno». Finché io e Cade avevamo litigato così furiosamente che la mia migliore amica era stata praticamente costretta a scegliere. Lei diceva che non era colpa mia se si erano lasciati, ma io sapevo che probabilmente era proprio così. A volte mi sentivo in colpa e altre volte pensavo che in realtà le avessi evitato di farsi spezzare il cuore.

    «Ecco perché il nome mi suonava familiare», disse mamma svoltando a destra. «È mai venuto a casa?»

    «No, mai». Grazie al cielo. Di sicuro Cade mi avrebbe presa in giro per la nostra casa piena zeppa di roba. Con quattro figli in giro, era sempre in condizioni disastrose.

    Una volta Isabel mi aveva trascinata a casa di Cade, per il suo quattordicesimo compleanno. Quando avevamo bussato alla porta e lui ci aveva aperto, gli avevo letto in faccia quanto poco gli andasse di vedermi lì con lei.

    «Che bella sorpresa di compleanno», aveva detto in tono sarcastico mentre rientrava in casa, seguito da me e Isabel.

    «Credimi, non avevo questa gran voglia di venire», avevo risposto.

    Isabel era corsa avanti per raggiungerlo, io invece mi ero fermata nell’ingresso. Quella casa era enorme e di un bianco abbagliante. Persino i mobili e le suppellettili erano bianchi. A casa mia qualsiasi oggetto bianco avrebbe avuto una vita molto breve.

    Mentre mi guardavo intorno e osservavo tutti i dettagli, Isabel si era affacciata da dietro l’angolo del corridoio e mi aveva detto: «Che fai, vieni?».

    Le voci dei miei fratelli mi distolsero dai ricordi e mi catapultarono di nuovo in macchina con la mia famiglia. Adesso stavano

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