Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Agrodolce
Agrodolce
Agrodolce
E-book317 pagine4 ore

Agrodolce

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

In una Londra di fine ‘800, dove tutto è impregnato da contrasti e violenza, trovare il giusto equilibrio è assai raro. Si è abituati agli stereotipi ma la realtà è costituita da contrapposizioni e incoerenze.

Agrodolce è il tratto caratteriale della criminale Rowen. Sfuggente, cinica, spietata. Si scopre anche umana e riflessiva quando si imbatte nel fatidico destino, che la porterà a collaborare con l’investigatore Staedler.

Corse contro il tempo.

Enigmi da decifrare.

Personaggi iconici.

Insieme alle indagini si mettono in moto meccanismi misteriosi e inaspettati che porteranno Rowen ad avere risposte a domande che aveva dimenticato.

Dolce e amaro che si mischiano. Vendetta e pietà non sono mai stati tanto simili.

L’oscurità può possedere scintille di luce?

Il Big Ben continuerà a battere l’ora?
LinguaItaliano
Data di uscita15 lug 2020
ISBN9788831682749
Agrodolce

Correlato a Agrodolce

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Agrodolce

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Agrodolce - Valeria Triglia

    633/1941.

    ~ prologo ~

    Sen­tii uno spa­ro e un do­lo­re acu­to al fian­co. Rea­gii pre­men­do il gril­let­to e co­me ri­spo­sta un al­tro col­po, que­sta vol­ta al­la spal­la.

    Cad­di boc­co­ni.

    Ec­co… Era fi­ni­ta.

    Mi ave­va­no tro­va­ta al­la fi­ne.

    Ma non im­por­ta­va, il mio com­pi­to era sta­to as­sol­to. Se quel­la era la mia mor­te sa­reb­be sta­ta qua­si pia­ce­vo­le. Me­glio del­lo schi­fo che c’è in que­sto mon­do, è ov­vio.

    E fu co­sì che da­van­ti a me si pre­sen­tò un abis­so in­fuo­ca­to, un abis­so do­ve i gio­chi di co­lo­re si fon­de­va­no o com­bat­te­va­no con te­na­cia. Ed io ero lì, al­la mer­cé di lu­ce ed om­bra, di fuo­co e do­lo­re, in bi­li­co tra vi­ta e mor­te. In quel mo­men­to non de­si­de­ra­vo al­tro che es­se­re un fan­ta­sma, o più sem­pli­ce­men­te non esi­ste­re. Ma si sa, tut­ti de­vo­no af­fron­ta­re le pro­prie pau­re, i pro­pri pro­ble­mi… i pro­pri ri­mor­si.

    Il si­len­zio at­tor­no a me stroz­za­va, era co­me un no­do al­la go­la. Vo­le­vo gri­da­re con tut­to il fia­to che ave­vo in cor­po ma al­lo stes­so tem­po ero in­ti­mo­ri­ta da quell’at­mo­sfe­ra di pa­ce, qua­si di si­len­te ago­nia. Non c’era fia­to che muo­ve­va il pae­sag­gio né nu­vo­la che stri­scia­va in cie­lo, so­lo un im­mu­ta­to ran­co­re che at­tra­ver­sa­va la cit­tà ser­peg­gian­do in ogni suo an­go­lo lu­mi­no­so o buio, e più mi ren­de­vo con­to di que­sto fat­to, più mi ac­cor­ge­vo che da que­sta vi­ta nes­su­no può sfug­gi­re sen­za aver avu­to un mo­men­to di do­lo­re.

    ~ capitolo uno ~

    Un cre­pi­tio qua­si cal­do e ras­si­cu­ran­te.

    È sta­to que­sto il mio ri­sve­glio in una stan­za dal­le pa­re­ti neu­tre e il­lu­mi­na­ta so­la­men­te dal fuo­co nel ca­mi­no. Mi gi­ra­va la te­sta e un sen­so di nau­sea cre­scen­te mi ri­por­ta­va pian pia­no al­la real­tà.

    Il du­ro let­to su cui ero sdra­ia­ta odo­ra­va leg­ger­men­te di muf­fa e ad ogni mi­ni­mo mo­vi­men­to scric­chio­la­va. La ve­sta­glia che in­dos­sa­vo era un po’ mac­chia­ta di san­gue.

    Sco­prii po­co do­po di es­se­re in un ospe­da­le da un’in­fer­mie­ra trop­po pre­mu­ro­sa per i miei gu­sti che mi cu­rò le fe­ri­te e si di­mo­strò mol­to aper­ta nei miei con­fron­ti. Ma non è tut­to oro ciò che luc­ci­ca. Co­sa cre­de­va? Se­con­do lei non mi ero ac­cor­ta di quel­la si­rin­ga riem­pi­ta con un son­ni­fe­ro o una do­se di bro­mu­ro po­sta nel­la ta­sca del suo ca­mi­ce, pron­ta per es­se­re uti­liz­za­ta in ca­so di rea­zio­ni osti­li o av­ver­se da par­te mia?

    Che stu­pi­da.

    La co­sa che non ca­pi­vo era co­sa ci fa­ce­vo in un ospe­da­le. Non ri­cor­da­vo l’ul­ti­ma vol­ta in cui ero sta­ta lì den­tro. Ma­ga­ri era pos­si­bi­le che quel­la fos­se la pri­ma vol­ta che vi ave­vo mes­so pie­de. Chis­sà.

    Chiu­si gli oc­chi. Mi sen­ti­vo iner­me e de­bo­le.

    Un gior­no, men­tre guar­da­vo fuo­ri da una fi­ne­strel­la il cie­lo cu­po di Lon­dra, cer­can­do di non fa­re ca­so al fa­sti­dio­so pru­ri­to e bru­cio­re del­le fe­ri­te che si sta­va­no ri­mar­gi­nan­do, sen­tii bus­sa­re al­la por­ta. Mi gi­rai ap­pe­na in tem­po per ve­de­re la ma­ni­glia gi­ra­re e sul­la so­glia com­pa­ri­re un uo­mo fra i tren­ta e i qua­rant’an­ni d’età, ben ve­sti­to e con la bar­ba cu­ra­ta. A spez­za­re la to­ta­le se­rie­tà c’era un cap­pel­lo a bom­bet­ta che gli da­va un aspet­to qua­si biz­zar­ro con i ca­pel­li che gli fa­ce­va­no ca­po­li­no as­su­men­do una pie­ga ver­so l’al­to. Por­ta­va una spe­cie di fou­lard co­lor vi­nac­cio an­no­da­to al col­lo che con­te­ne­va il ba­ve­ro del­la ca­mi­cia che por­ta­va sot­to ad un cap­pot­to ne­ro. Lo guar­dai ne­gli oc­chi e quel­lo che vi vi­di non cor­ri­spon­de­va al suo aspet­to este­rio­re. Lì den­tro c’era im­pul­si­vi­tà e gran­de fer­mez­za nel­le de­ci­sio­ni. Un ca­rat­te­re for­te, quin­di. Be­ne, ero abi­tua­ta a quel ti­po di per­so­ne.

    Si av­vi­ci­nò e si se­det­te len­ta­men­te sul­la se­dia ac­can­to al let­to do­ve sta­vo io, stan­do at­ten­to ad ogni mo­vi­men­to che as­su­me­va.

    «Ci po­tre­ste la­scia­re da so­li, si­gno­ri­na?» chie­se ri­fe­ren­do­si all’in­fer­mie­ra che l’ave­va ac­com­pa­gna­to, fer­ma al­la so­glia, ri­vol­gen­do­le una lie­ve oc­chia­ta ac­com­pa­gna­ta da un’al­za­ta di so­prac­ci­glio. Vo­ce se­ria e pa­ca­ta, con l’or­mai ri­cer­ca­to ac­cen­to coc­k­ney. Se­con­do le mie de­du­zio­ni un uo­mo a san­gue fred­do.

    Quan­do la por­ta si ri­chiu­se aspet­tò qual­che se­con­do per par­la­re.

    «Ve­do che le fe­ri­te ti si stan­no ri­chiu­den­do».

    «È pas­sa­to qual­che al­tra vol­ta per con­fer­mar­lo?». Al­zai un so­prac­ci­glio con fa­re osti­le.

    «Sì, ef­fet­ti­va­men­te sì. Eri an­co­ra pri­va di sen­si. Ti ho por­ta­ta io qui».

    «Al­lo­ra mi sa­pre­te di­re chi mi ha spa­ra­to? Co­sì ap­pe­na esco da qui giu­ro che non sba­glie­rò mi­ra!».

    «Oh non ce n’è bi­so­gno» ri­spo­se lui al­zan­do­si in pie­di e af­fer­ran­do una me­la po­sta sul co­mo­di­no ac­can­to al let­to. La guar­dò e ri­gi­ran­do­se­la tra le ma­ni dis­se: «So­no sta­to io».

    Io ri­si.

    «Non può uc­ci­der­mi, se ne ac­cor­ge­reb­be­ro tut­ti che è sta­to lei».

    «Non ho mai par­la­to di vo­ler­lo fa­re». Si gi­rò ver­so di me «E per la pre­ci­sio­ne ho una mi­ra fa­vo­lo­sa».

    «Seh, cer­to. A que­st’ora, se la sua mi­ra è co­me lei la elo­gia, sa­rei di­ven­ta­ta pa­sto per i ca­ni e ver­mi e non sta­rei su un let­ti­no di un ospe­da­le».

    «Non ho mai det­to di vo­ler­ti uc­ci­de­re».

    «Ti sto dan­do la cac­cia da me­si or­mai, e sei sem­pre riu­sci­ta a sfug­gir­mi». Sem­bra­va un po’ in­gob­bi­to ora, con una spal­la più in al­to dell’al­tra.

    «Ah per­fet­to! Ci man­ca­va so­lo un pee­ler» dis­si sar­ca­sti­ca sbat­ten­do una ma­no sul ma­te­ras­so.

    «E qui ti sba­gli di nuo­vo. Non so­no un po­li­ziot­to ma un in­ve­sti­ga­to­re pri­va­to». Ab­bas­sò il ca­po sen­za stac­ca­re gli oc­chi da me, as­su­men­do un’espres­sio­ne qua­si di­ver­ti­ta.

    «Po­co cam­bia. Ho ca­pi­to quel­lo che vuo­le fa­re. Ap­pe­na esco di qui, an­zi no! Pro­prio fra po­chi se­con­di mi sbat­te­rà in fac­cia un man­da­to e io mi ri­tro­ve­rò più ve­lo­ce di un ful­mi­ne in gat­ta­buia per poi tro­var­mi ap­pe­sa per il col­lo. Se è per que­sto pre­fe­ri­vo mo­ri­re in mez­zo al­la stra­da, è sta­ta da sem­pre la mia ca­sa e mi avreb­be ac­col­ta an­co­ra una vol­ta».

    «Par­li con ras­se­gna­zio­ne. Ma per es­se­re una ra­gaz­za che ha com­mes­so tan­ti cri­mi­ni e a cui do la cac­cia da mol­to, sen­za es­se­re mai bec­ca­ta, ed è una co­sa stra­na, pen­sa­vo fos­si più in­tel­li­gen­te e an­che me­no sen­si­bi­le. Ma per que­sto non ti bia­si­mo per­ché quel­lo che vo­glio non è quel­lo che hai enun­cia­to».

    Con­ti­nua­vo a fis­sar­lo sen­za ca­pi­re…

    Mi ave­va in pu­gno.

    Che stra­no, non suc­ce­de spes­so.

    «Ti sto of­fren­do di più di sfug­gi­re al­la for­ca».

    Ri­tor­nò al co­mo­di­no e po­sò la me­la su di es­so.

    «Per tua for­tu­na nes­su­no so­spet­ta di quel­lo che hai fat­to. Ti cre­do­no una la­drun­co­la da quat­tro sol­di, ma que­sto è il pre­giu­di­zio per tut­ti gli or­fa­ni e gen­te che vi­ve in stra­da. Non si aspet­ta­no pro­prio che tu ab­bia tol­to la vi­ta a co­sì tan­te per­so­ne, e in mo­di co­sì si­len­zio­si che in al­cu­ni ca­si non so­no nean­che an­da­ti in stam­pa».

    «Ar­ri­vi al dun­que» lo in­ter­rup­pi.

    «Io so, ora­mai, ogni co­sa su di te e no­no­stan­te tut­to so­no qui a pa­gar­ti le cu­re e a dir­ti che hai l’ono­re di la­vo­ra­re, da ades­so in poi, per me».

    Era un paz­zo!

    Non mi sa­rei mai mes­sa a la­vo­ra­re con un pee­ler.

    «Per­ché lo sta fa­cen­do?».

    «Tut­ti de­vo­no ave­re una se­con­da op­por­tu­ni­tà e se­con­do me tu po­tre­sti fa­re gran­di co­se. In­tra­ve­do una gran­de vo­glia di vi­ve­re, an­che se è na­sco­sta da mol­ta rab­bia e que­sto ti pro­iet­ta a ti­ra­re avan­ti co­me hai fat­to fi­no ad ades­so».

    Ri­ma­si sen­za pa­ro­le.

    «C’è pe­rò da di­re che do­vrai im­pa­ra­re mol­te co­se, ma par­ti con del­le buo­ne ba­si e, chis­sà, in fu­tu­ro po­trai so­sti­tuir­mi e ave­re una vi­ta agia­ta in que­sta Lon­dra pie­na di do­lo­re».

    Si al­zò e di­ri­gen­do­si al­la por­ta con­clu­se: «La scel­ta è tua. Ci rin­con­tre­re­mo, sia per la buo­na che per la cat­ti­va sor­te».

    Gi­rò la ma­ni­glia per usci­re.

    «Aspet­ti. Non mi ha det­to il suo no­me».

    Lo guar­da­vo e an­che se era gi­ra­to di spal­le po­te­vo in­tui­re un suo sor­ri­so.

    «Earl Hol­land» ri­spo­se pri­ma di scom­pa­ri­re.

    Ri­ma­si mol­to a ri­flet­te­re su quel­la vi­si­ta.

    Il pre­sun­to Hol­land non si fe­ce più vi­vo nel pe­rio­do del mio ri­co­ve­ro ma io con­ti­nua­vo a ri­mu­gi­na­re sul­le sue pa­ro­le. Non riu­sci­vo a ca­pi­re per­ché ma c’era qual­co­sa che mi sfug­gi­va, ave­vo la sen­sa­zio­ne che non do­ve­vo guar­da­re tan­to lon­ta­no, tut­to quel­lo di cui ave­vo bi­so­gno per sco­pri­re e co­no­sce­re la par­te del puzz­le che mi man­ca­va, era pro­prio lì, in mez­zo al­le sue pa­ro­le.

    An­che quan­do mi fui ri­sta­bi­li­ta e ri­tor­nai a gi­ro­va­ga­re per le vie spor­che, il pen­sie­ro era lì e ri­flet­te­vo sul­le pa­ro­le che non mi sa­rei mai so­gna­ta di sen­ti­re.

    Non c’era che di­re, non ave­vo pa­ro­le. La vi­ta mi ha in­se­gna­to che pos­so­no suc­ce­de­re de­gli im­pre­vi­sti, al­cu­ni dei qua­li an­che pia­ce­vo­li. Ma qui non si par­la di mi­se­ri­cor­dia co­me la mia espe­rien­za mi ha sug­ge­ri­to. Qui c’è dell’al­tro e non mi sa­pe­vo spie­ga­re co­sa, né il mo­ti­vo di quel col­lo­quio. Co­sa vo­le­va da me quell’uo­mo?

    Ru­ba­vo qual­che pa­gnot­ta aven­do sem­pre più con­sa­pe­vo­lez­za che ero eti­chet­ta­ta ‘la­drun­co­la da quat­tro sol­di’ ma que­sto è il pre­giu­di­zio per tut­ti quel­li che vi­vo­no sul­la stra­da, co­me ave­va det­to l’in­ve­sti­ga­to­re. Per tut­ti quel­li co­me me. An­zi no, io ero mil­le vol­te peg­gio di quel­li.

    Vi­di pas­sa­re pro­prio di fron­te a me un uo­mo an­zia­no, ben ve­sti­to con un com­ple­to blu scu­ro che ne esal­ta­va la fi­gu­ra mi­nu­ta. La co­sa che mi at­ti­rò di lui era­no gli ar­ti. Con una ma­no si te­ne­va il pet­to co­me se vo­les­se reg­ger­lo e so­ste­ner­lo al suo po­sto, men­tre con l’al­tra strin­ge­va il ba­sto­ne che fa­ce­va pic­chiet­ta­re a rit­mo sul la­stri­ca­to. La te­sta, co­per­ta da un bel cap­pel­lo a ci­lin­dro era leg­ger­men­te re­cli­na­ta in avan­ti. Im­me­dia­ta­men­te pen­sai che sa­reb­be po­tu­ta es­se­re una mia vit­ti­ma se so­lo me l’aves­se­ro chie­sto. Co­sì co­me quel­la si­gno­ra dal­la ri­sa­ta a fi­schiet­to. Il suo cor­po si­mi­le ad una bot­te si te­ne­va eret­to su del­le bas­se e mal­fer­me gam­bet­te che ter­mi­na­va­no con due pie­di si­mi­li a pic­co­le ca­noe.

    «Ah! Guar­da chi si ri­ve­de!» escla­mò una vo­ce ma­schi­le dal­la ca­den­za nor­di­ca e dal tim­bro che al­ta­le­na­va dall’acu­to al ba­ri­to­na­le. «Ro­wen, è da un’eter­ni­tà che non ti ve­de­vo. Cre­de­vo che fos­si a mar­ci­re nel­la pol­ve­re».

    «Ciao Gler» sa­lu­tai io.

    Gler era un omet­to sbi­len­co che pas­sa­va le sue gior­na­te a par­la­re da so­lo, cat­tu­ra­re le lu­cer­to­le per sva­go e spet­te­go­la­re di fat­ti mai av­ve­nu­ti.

    «Sta­vol­ta co­sa ci de­vi fa­re con quei to­pi?» do­man­dai men­tre lo guar­da­vo ap­pen­de­re mez­za doz­zi­na di sor­ci stec­chi­ti su un fi­lo di spa­go.

    «Mi han­no chie­sto di fa­re un sa­cri­fi­cio» spie­gò co­me se la co­sa fos­se ov­via.

    «Chi te l’ha chie­sto?» fe­ci scet­ti­ca e pre­pa­ra­ta in an­ti­ci­po ad ascol­ta­re una ri­spo­sta che già in par­ten­za sa­pe­vo che non sta­va né in cie­lo né in ter­ra. A vol­te pe­rò, le co­se che usci­va­no dal­la boc­ca di Gler era­no tal­men­te co­mi­che e in­ve­ro­si­mi­li che quan­do me ne an­da­vo scuo­te­vo il ca­po di­ver­ti­ta.

    «Ma gli dei ov­via­men­te! La not­te scor­sa so­no pas­sa­ti in due. Mi sem­bra che una fos­se Freya men­tre il suo com­pa­gno non l’ho vi­sto in vol­to per­ché ave­va il cap­puc­cio, e mi han­no det­to che se vo­le­vo ave­re una vi­ta sta­bi­le, do­ve­vo fa­re in que­sto mo­do».

    «Sai, Gler, è pos­si­bi­le che fos­se un so­gno» spie­gai con le so­prac­ci­glia al­za­te per es­se­re più con­vin­cen­te.

    «Ma che so­gno e so­gno! So di­stin­gue­re se una co­sa è suc­ces­sa per dav­ve­ro op­pu­re no!».

    «Co­me ti pa­re. Al­lo­ra ti la­scio ai tuoi ma­ca­bri espe­ri­men­ti o sa­cri­fi­ci. In­som­ma quel­lo che è».

    Men­tre mi al­lon­ta­na­vo da quel­la fi­gu­ra de­for­me lo sen­tii gri­dar­mi die­tro: «Do­vre­sti far­lo an­che tu. Ti aiu­te­rà!».

    Cer­to che nel mon­do, di per­so­ne stra­va­gan­ti ce ne so­no!

    Ri­tor­nai nuo­va­men­te se­ria quan­do fuo­ri da un ne­go­zio stra­na­men­te chiu­so in quell’ora del­la gior­na­ta, era ap­pe­so un fo­glio con po­che fra­si e, non sa­pen­do leg­ge­re, non po­tei ca­pi­re di co­sa si trat­tas­se, ma con ci­pi­glio ri­co­nob­bi il bol­lo che vi era ap­pli­ca­to: quel­lo di Sco­tland Yard. Nul­la di buo­no, al­lo­ra. Co­me un lam­po mi mi­si a pen­sa­re nuo­va­men­te al­la mia si­tua­zio­ne e al­le or­mai os­ses­si­ve pa­ro­le di Hol­land che mi pre­me­va­no nel­le tem­pie.

    No. Tut­to que­sto non an­da­va af­fat­to be­ne. Per la pri­ma vol­ta in vi­ta mia pre­si e rial­lac­ciai tut­ti i pro­ble­mi che ave­vo e ne ri­ca­vai del­le con­clu­sio­ni.

    C’era­no tre al­ter­na­ti­ve: con­ti­nua­re a fa­re quel­lo che ave­vo sem­pre fat­to e tro­va­re ben pre­sto la mor­te; as­se­con­da­re il vo­le­re di Hol­land; vi­ve­re ru­ban­do lo stret­to ne­ces­sa­rio per cam­pa­re.

    In ta­sca non c’era nean­che un sol­do quin­di ab­ban­do­na­re la cit­tà è as­so­lu­ta­men­te im­pos­si­bi­le.

    Cam­mi­nan­do avan­ti e in­die­tro, rac­co­glien­do ogni tan­to un sas­so per poi sca­gliar­lo a ter­ra mi ac­cor­ge­vo sem­pre più che la co­sa da fa­re era so­la­men­te una. Ci gi­ra­vo at­tor­no per non ve­der­la fo­ca­liz­za­re nel­la mia men­te.

    Ero dav­ve­ro co­sì di­spe­ra­ta? La ri­spo­sta non era un sem­pli­ce sì e no. Era da una vi­ta che ero in quel­lo sta­to, ma cer­ca­vo di non dar­ci pe­so da­to che non po­te­vo fa­re as­so­lu­ta­men­te nien­te per cam­biar­lo.

    Con un so­spi­ro de­ci­si­vo ri­vol­to ver­so il cie­lo cer­cai di far­mi for­za fa­cen­do stra­ri­pa­re quel­le tre pa­ro­le che cer­ca­vo di te­ne­re in­gab­bia­te.

    Hai vin­to de­tec­ti­ve.

    ~ capitolo due ~

    Mi mi­si al­la ri­cer­ca di Earl Hol­land chie­den­do in gi­ro se qual­cu­no lo co­no­sces­se ma pa­re­va che nes­su­no ne sa­pes­se nien­te. Con il cuo­re in go­la ar­ri­vai ad av­vi­ci­nar­mi ad un pee­ler e a chie­der­gli di lui.

    «Mi stai pren­den­do in gi­ro?» fu la sua ri­spo­sta e lo sen­tii bron­to­la­re in­di­gna­to men­tre si al­lon­ta­na­va. Mi ven­ne­ro un po’ di so­spet­ti, a di­re la ve­ri­tà. Com’era pos­si­bi­le che un po­li­ziot­to non co­no­sces­se un in­ve­sti­ga­to­re?

    Pro­vai un al­tro pa­io di vol­te a fa­re la stes­sa do­man­da ad al­tri pee­lers, ma nien­te.

    As­so­lu­ta­men­te nien­te.

    Gio­cai la mia ul­ti­ma car­ta an­dan­do all’ana­gra­fe. Un uo­mo del suo ran­go do­ve­va es­se­re re­gi­stra­to e, do­po aver di­scus­so ani­ma­ta­men­te col re­spon­sa­bi­le, riu­scii ad ac­ce­de­re al­le car­tel­le. Era co­me se la per­so­na che mi aves­se par­la­to non fos­se rea­le. Non ri­sul­ta­va nes­su­no con quel no­me. Earl Hol­land non esi­ste­va.

    Mi sta­va gio­can­do un brut­to scher­zo? Mi ero im­ma­gi­na­ta tut­to? Ave­vo ca­pi­to ma­le il no­me?

    In un tar­do po­me­rig­gio, pas­san­do lun­go una via dei bas­si­fon­di pie­na di pub da due sol­di e ler­ciu­me con uo­mi­ni roz­zi e pe­ren­ne­men­te ubria­chi che ur­la­va­no, m’im­bat­tei in un’in­se­gna raf­fi­gu­ran­te il To­wer Brid­ge con il no­me scrit­to in ros­so, or­mai sco­lo­ri­to per via del co­lo­re di po­ca qua­li­tà e dal­la quan­ti­tà di ac­quaz­zo­ni che si so­no ro­ve­scia­ti nell’au­tun­no. In quel mo­men­to mi ar­re­stai im­me­dia­ta­men­te in­cu­ran­te di due per­so­ne che mi ven­ne­ro ad­dos­so, tra cui una che riu­scì a fru­gar­mi in una ta­sca nel­la spe­ran­za di tro­va­re qual­co­sa di va­lo­re o del de­na­ro. No­no­stan­te l’aves­si sen­ti­to non eb­bi nes­su­na rea­zio­ne, tan­to non pos­se­de­vo nien­te e la ta­sca era mi­se­ra­men­te vuo­ta. Non fe­ci al­tro che os­ser­var­lo at­ten­ta­men­te per im­pri­me­re nel­la men­te il suo vol­to, in ca­so l’aves­si rin­con­tra­to nuo­va­men­te.

    Ri­guar­dai l’in­se­gna e co­me se fos­si sta­ta mor­sa da una pul­ce, mi mi­si a cor­re­re. E se in­ve­ce l’in­ve­sti­ga­to­re vo­le­va met­ter­mi al­la pro­va?

    La si­tua­zio­ne in­co­min­cia­va a stuz­zi­car­mi la cu­rio­si­tà. Era pos­si­bi­le che mi sta­vo im­ma­gi­nan­do tut­to ma vol­li an­da­re fi­no in fon­do per es­ser­ne si­cu­ra.

    An­dai nel luo­go in cui sa­pe­vo per cer­to fos­se espo­sta una car­ti­na geo­gra­fi­ca e fe­ci scor­re­re tut­ti i no­mi del­le vie del­la Ci­ty, fi­no a quan­do non scor­si un no­me ab­ba­stan­za fa­mi­lia­re: Hol­land Eark.

    All’ini­zio ri­ma­si un po’ in­ter­det­ta. Era quel­lo il gio­co che sta­va gio­stran­do? Mi vo­le­va met­te­re al­la pro­va? Be­ne, avreb­be vi­sto di che pa­sta ero fat­ta. Ini­zia­va la cac­cia!

    Men­tre ri­pren­de­vo la mia cor­sa ver­so la via, un lam­po squar­ciò il cie­lo an­nun­cian­do l’ar­ri­vo di un tem­po­ra­le. Le pri­me goc­ce di piog­gia cad­de­ro pic­chiet­tan­do al suo­lo.

    Ec­co, do­ve­vo gi­ra­re a si­ni­stra e sa­rei sta­ta in Hol­land Eark.

    Per stra­da la gen­te si af­fret­ta­va a tro­va­re un ri­pa­ro. Un frut­ti­ven­do­lo tra­spor­ta­va i suoi pro­dot­ti all’in­ter­no del­la bot­te­ga men­tre le car­roz­ze fi­la­va­no ve­lo­ci schiz­zan­do un po’ di fan­go in­tor­no. Ri­pen­sai al­la con­ver­sa­zio­ne per tro­var­ne qual­che trac­cia ma non c’era nul­la che po­tes­se es­se­re scam­bia­ta per un aiu­to. Mi mi­si al­la ri­cer­ca di qual­co­sa, an­che se ero io la pri­ma a non sa­pe­re co­sa spe­ra­vo di tro­va­re. An­da­vo avan­ti e in­die­tro lun­go la via scru­tan­do co­me un se­gu­gio ogni an­go­lo e spre­men­do­mi le me­nin­gi per ca­pi­re co­sa do­ve­vo tro­va­re. Sem­pre che ci fos­se sta­to qual­co­sa. Chis­sà se il pre­sun­to in­ve­sti­ga­to­re mi stes­se os­ser­van­do dall’al­to del­la sua fi­ne­stra, nel suo ap­par­ta­men­to, al cal­do e all’asciut­to?

    Lan­ciai del­le oc­chia­te tra le fi­ne­stre del­le abi­ta­zio­ni ma non scor­si nes­su­no.

    Do­ve­vo tro­va­re un se­gno pe­rò nel­la con­fu­sio­ne del­la via non era sem­pli­ce ma poi, pro­prio die­tro a dei ba­ri­li po­sti fuo­ri da un pub, scor­si un fle­bi­le ba­glio­re. Qual­cu­no ave­va per­du­to qual­co­sa. Po­sto in­so­li­to per smar­ri­re de­gli og­get­ti. Mi av­vi­ci­nai e vi­di che nel fan­go luc­ci­ca­va una spe­cie di me­da­glio­ne. No, non era un me­da­glio­ne. Stan­do at­ten­ta a non ruo­tar­lo pre­si in ma­no l’og­get­to e pu­len­do­lo con una ma­ni­ca, mi ac­cor­si che era una bus­so­la. Guar­dan­do­mi at­tor­no non vi­di nes­sun ne­go­zio che po­tes­se ven­de­re nien­te del ge­ne­re. Mi con­cen­trai nuo­va­men­te sull’og­get­to e vi­di che l’ago pun­ta­va al­le mie spal­le vi­ran­do leg­ger­men­te al­la mia de­stra do­ve sor­ge­va un’abi­ta­zio­ne a due pia­ni tra uno stu­dio me­di­co e un ne­go­zio di no­leg­gio di abi­ti. Vol­tan­do la bus­so­la mi ac­cor­si che nel bor­do era­no in­ci­se tre let­te­re: K.T.S.

    Mos­si dei pas­si ver­so la ca­sa e do­po aver su­pe­ra­to tre gra­di­ni mi tro­vai di fron­te al­la por­ta di le­gno ver­ni­cia­ta di ver­de scu­ro do­ve in ot­to­ne era se­gna­to il nu­me­ro ci­vi­co 43A. Bus­sai. Dei pas­si si sta­va­no av­vi­ci­nan­do e quan­do la por­ta fu aper­ta mi ri­tro­vai di fron­te ad un uo­mo asciut­to mol­to al­to, dal­la car­na­gio­ne chia­ris­si­ma, i ca­pel­li qua­si bian­chi che non si ad­di­ce­va­no al­la sua età e ca­pii che era al­bi­no dall’iri­de dei suoi oc­chi, di un co­lo­re gri­gio chia­ro, qua­si bian­co an­ch’es­so. Quan­do mi vi­de sta­va per chiu­de­re di nuo­vo la por­ta sen­za fa­re una pie­ga ma io la trat­ten­ni.

    «Per­ché mi chiu­di la por­ta in fac­cia?».

    «Non vo­glia­mo sen­za-tet­to qui».

    «Sto cer­can­do il si­gnor K.T.S.».

    «Cer­chia­mo sem­pre qual­cu­no che ci ospi­ti per poi por­tar­gli via tut­to quel­lo che ha in ca­sa».

    «Ho la sua bus­so­la» sbot­tai pun­ta sul vi­vo.

    «Oh» l’al­bi­no la­sciò la pre­sa e la por­ta si spa­lan­cò. «Po­te­vi dir­lo su­bi­to».

    «Non me ne hai da­to il tem­po».

    Mi fe­ce en­tra­re an­che se con­ti­nua­va a guar­dar­mi co­me se fos­si un ser­pen­te ve­le­no­so. Il pia­no ter­ra si pre­sen­ta­va co­me una zo­na am­pia ar­re­da­ta fi­ne­men­te. Non ave­va un ge­ne­re ben pre­ci­so ma nell’in­sie­me mi par­ve mol­to ac­co­glien­te. Ne ave­vo vi­ste mol­te di abi­ta­zio­ni, quel­le del­le mie vit­ti­me, e an­che so­lo guar­dan­do il mo­bi­lio si po­te­va ca­pi­re il ca­rat­te­re di una per­so­na. Ov­via­men­te non ho mai pre­so par­te ad una le­zio­ne uni­ver­si­ta­ria di psi­co­lo­gia. Qua­si non sa­pe­vo nean­che co­sa si­gni­fi­cas­se quel­la pa­ro­la. Ave­vo sen­ti­to par­la­re di uno striz­za­cer­vel­li che ave­va tro­va­to il me­to­do per stu­dia­re l’es­se­re di una per­so­na. Co­me si chia­ma­va? Freud. Può dar­si? In ogni mo­do, chis­sà co­sa avreb­be de­dot­to os­ser­van­do quell’ap­par­ta­men­to. Ab­brac­cia­va un gu­sto qua­si eclet­ti­co e fi­ne, con tut­ti gli og­get­ti­ni e di­spo­si­zio­ne dei mo­bi­li al po­sto giu­sto. L’al­bi­no mi in­di­cò di en­tra­re nel­la sa­la, lu­mi­no­sa e fre­sca, e nel pas­sar­ci scor­si un’al­tra stan­za adia­cen­te, mol­to co­lo­ra­ta. Ave­va qual­che ma­sche­ra afri­ca­na ap­pe­sa al di so­pra di un pia­no­for­te a cor­da mol­to clas­si­co. Quell’ab­bi­na­men­to par­ti­co­la­re mi in­cu­rio­sì. Avrei da­to quel po­co che pos­se­de­vo per dar­ci una sbir­cia­ta e per sco­pri­re qua­li al­tre co­se con­te­nes­se. Stra­na­men­te ero so­lo cu­rio­sa. Sa­na e in­no­cen­te cu­rio­si­tà. Qua­si in­fan­ti­le, ad es­se­re sin­ce­ra, ma era quel­lo che era.

    L’uo­mo mi vol­le far se­de­re su una pol­tro­na ma mi op­po­si per co­me ero mes­sa, fra­di­cia e pie­na di fan­go. Per tut­ta ri­spo­sta ac­ce­se il ca­mi­net­to e spin­se di fron­te ad es­so uno sga­bel­lo in le­gno scom­pa­ren­do su­bi­to do­po la­scian­do­mi lì da so­la. Mi ac­co­stai al­la fiam­ma per scal­dar­mi e mi ac­cor­si che pro­prio so­pra la men­so­la del ca­mi­no era­no po­ste due pi­sto­le e sul­la pa­re­te del­la can­na fu­ma­ria era­no ap­pe­se una spa­da, una sci­mi­tar­ra e un mo­schet­to. Os­ser­van­do­mi at­tor­no vi­di un’am­pia li­bre­ria men­tre un oro­lo­gio a pen­do­lo oscil­la­va in un an­go­lo. Dei mo­vi­men­ti mi fe­ce­ro per­ce­pi­re che qual­cu­no si sta­va av­vi­ci­nan­do e mi al­zai dal­lo sga­bel­lo do­ve ero se­du­ta un at­ti­mo pri­ma di ve­de­re l’uo­mo che mi ave­va fat­to vi­si­ta all’ospe­da­le. Era pro­prio lui ed era di fron­te a me.

    «Earl Hol­land, ve­ro?!» escla­mai iro­ni­ca­men­te.

    Lui sor­ri­se av­vi­ci­nan­do­si ad un ta­vo­li­no-bar e pren­den­do due bic­chie­ri.

    «Mi hai tro­va­to lo stes­so, a quan­to ve­do. Bran­dy?» chie­se.

    «No, gra­zie» ri­spo­si, co­sì che lui ri­mi­se a po­sto i bic­chie­ri, si se­det­te su una pol­tro­na e mi guar­dò men­tre io mi ri­mi­si sul­lo sga­bel­lo.

    «Sga­bel­lo» com­men­tò scan­den­do le sil­la­be. «Che pes­si­mo per­so­na­le. Sie­di­ti di fron­te a me su quel­la pol­tro­na».

    «So­no con­cia­ta piut­to­sto ma­le e non vor­rei ro­vi­nar­glie­la». Pri­ma vol­ta che fa­ce­vo ca­so al mio aspet­to e pri­ma vol­ta in cui cer­ca­vo di non in­su­di­cia­re e non dan­neg­gia­re nien­te. Che mi sta­va suc­ce­den­do?! La bus­so­la era co­spar­sa di qual­che so­stan­za tos­si­ca che mi ri­du­ce­va in quel­lo sta­to?!

    «Scioc­chez­ze».

    An­che se ugual­men­te ti­tu­ban­te, mi mi­si co­mo­da e lo os­ser­vai men­tre pren­de­va la sua pi­pa e l’ac­cen­de­va.

    «E co­sì hai

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1