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Anteprima del libro
Agrodolce - Valeria Triglia
633/1941.
~ prologo ~
Sentii uno sparo e un dolore acuto al fianco. Reagii premendo il grilletto e come risposta un altro colpo, questa volta alla spalla.
Caddi bocconi.
Ecco… Era finita.
Mi avevano trovata alla fine.
Ma non importava, il mio compito era stato assolto. Se quella era la mia morte sarebbe stata quasi piacevole. Meglio dello schifo che c’è in questo mondo, è ovvio.
E fu così che davanti a me si presentò un abisso infuocato, un abisso dove i giochi di colore si fondevano o combattevano con tenacia. Ed io ero lì, alla mercé di luce ed ombra, di fuoco e dolore, in bilico tra vita e morte. In quel momento non desideravo altro che essere un fantasma, o più semplicemente non esistere. Ma si sa, tutti devono affrontare le proprie paure, i propri problemi… i propri rimorsi.
Il silenzio attorno a me strozzava, era come un nodo alla gola. Volevo gridare con tutto il fiato che avevo in corpo ma allo stesso tempo ero intimorita da quell’atmosfera di pace, quasi di silente agonia. Non c’era fiato che muoveva il paesaggio né nuvola che strisciava in cielo, solo un immutato rancore che attraversava la città serpeggiando in ogni suo angolo luminoso o buio, e più mi rendevo conto di questo fatto, più mi accorgevo che da questa vita nessuno può sfuggire senza aver avuto un momento di dolore.
~ capitolo uno ~
Un crepitio quasi caldo e rassicurante.
È stato questo il mio risveglio in una stanza dalle pareti neutre e illuminata solamente dal fuoco nel camino. Mi girava la testa e un senso di nausea crescente mi riportava pian piano alla realtà.
Il duro letto su cui ero sdraiata odorava leggermente di muffa e ad ogni minimo movimento scricchiolava. La vestaglia che indossavo era un po’ macchiata di sangue.
Scoprii poco dopo di essere in un ospedale da un’infermiera troppo premurosa per i miei gusti che mi curò le ferite e si dimostrò molto aperta nei miei confronti. Ma non è tutto oro ciò che luccica. Cosa credeva? Secondo lei non mi ero accorta di quella siringa riempita con un sonnifero o una dose di bromuro posta nella tasca del suo camice, pronta per essere utilizzata in caso di reazioni ostili o avverse da parte mia?
Che stupida.
La cosa che non capivo era cosa ci facevo in un ospedale. Non ricordavo l’ultima volta in cui ero stata lì dentro. Magari era possibile che quella fosse la prima volta che vi avevo messo piede. Chissà.
Chiusi gli occhi. Mi sentivo inerme e debole.
Un giorno, mentre guardavo fuori da una finestrella il cielo cupo di Londra, cercando di non fare caso al fastidioso prurito e bruciore delle ferite che si stavano rimarginando, sentii bussare alla porta. Mi girai appena in tempo per vedere la maniglia girare e sulla soglia comparire un uomo fra i trenta e i quarant’anni d’età, ben vestito e con la barba curata. A spezzare la totale serietà c’era un cappello a bombetta che gli dava un aspetto quasi bizzarro con i capelli che gli facevano capolino assumendo una piega verso l’alto. Portava una specie di foulard color vinaccio annodato al collo che conteneva il bavero della camicia che portava sotto ad un cappotto nero. Lo guardai negli occhi e quello che vi vidi non corrispondeva al suo aspetto esteriore. Lì dentro c’era impulsività e grande fermezza nelle decisioni. Un carattere forte, quindi. Bene, ero abituata a quel tipo di persone.
Si avvicinò e si sedette lentamente sulla sedia accanto al letto dove stavo io, stando attento ad ogni movimento che assumeva.
«Ci potreste lasciare da soli, signorina?» chiese riferendosi all’infermiera che l’aveva accompagnato, ferma alla soglia, rivolgendole una lieve occhiata accompagnata da un’alzata di sopracciglio. Voce seria e pacata, con l’ormai ricercato accento cockney. Secondo le mie deduzioni un uomo a sangue freddo.
Quando la porta si richiuse aspettò qualche secondo per parlare.
«Vedo che le ferite ti si stanno richiudendo».
«È passato qualche altra volta per confermarlo?». Alzai un sopracciglio con fare ostile.
«Sì, effettivamente sì. Eri ancora priva di sensi. Ti ho portata io qui».
«Allora mi saprete dire chi mi ha sparato? Così appena esco da qui giuro che non sbaglierò mira!».
«Oh non ce n’è bisogno» rispose lui alzandosi in piedi e afferrando una mela posta sul comodino accanto al letto. La guardò e rigirandosela tra le mani disse: «Sono stato io».
Io risi.
«Non può uccidermi, se ne accorgerebbero tutti che è stato lei».
«Non ho mai parlato di volerlo fare». Si girò verso di me «E per la precisione ho una mira favolosa».
«Seh, certo. A quest’ora, se la sua mira è come lei la elogia, sarei diventata pasto per i cani e vermi e non starei su un lettino di un ospedale».
«Non ho mai detto di volerti uccidere».
«Ti sto dando la caccia da mesi ormai, e sei sempre riuscita a sfuggirmi». Sembrava un po’ ingobbito ora, con una spalla più in alto dell’altra.
«Ah perfetto! Ci mancava solo un peeler» dissi sarcastica sbattendo una mano sul materasso.
«E qui ti sbagli di nuovo. Non sono un poliziotto ma un investigatore privato». Abbassò il capo senza staccare gli occhi da me, assumendo un’espressione quasi divertita.
«Poco cambia. Ho capito quello che vuole fare. Appena esco di qui, anzi no! Proprio fra pochi secondi mi sbatterà in faccia un mandato e io mi ritroverò più veloce di un fulmine in gattabuia per poi trovarmi appesa per il collo. Se è per questo preferivo morire in mezzo alla strada, è stata da sempre la mia casa e mi avrebbe accolta ancora una volta».
«Parli con rassegnazione. Ma per essere una ragazza che ha commesso tanti crimini e a cui do la caccia da molto, senza essere mai beccata, ed è una cosa strana, pensavo fossi più intelligente e anche meno sensibile. Ma per questo non ti biasimo perché quello che voglio non è quello che hai enunciato».
Continuavo a fissarlo senza capire…
Mi aveva in pugno.
Che strano, non succede spesso.
«Ti sto offrendo di più di sfuggire alla forca».
Ritornò al comodino e posò la mela su di esso.
«Per tua fortuna nessuno sospetta di quello che hai fatto. Ti credono una ladruncola da quattro soldi, ma questo è il pregiudizio per tutti gli orfani e gente che vive in strada. Non si aspettano proprio che tu abbia tolto la vita a così tante persone, e in modi così silenziosi che in alcuni casi non sono neanche andati in stampa».
«Arrivi al dunque» lo interruppi.
«Io so, oramai, ogni cosa su di te e nonostante tutto sono qui a pagarti le cure e a dirti che hai l’onore di lavorare, da adesso in poi, per me».
Era un pazzo!
Non mi sarei mai messa a lavorare con un peeler.
«Perché lo sta facendo?».
«Tutti devono avere una seconda opportunità e secondo me tu potresti fare grandi cose. Intravedo una grande voglia di vivere, anche se è nascosta da molta rabbia e questo ti proietta a tirare avanti come hai fatto fino ad adesso».
Rimasi senza parole.
«C’è però da dire che dovrai imparare molte cose, ma parti con delle buone basi e, chissà, in futuro potrai sostituirmi e avere una vita agiata in questa Londra piena di dolore».
Si alzò e dirigendosi alla porta concluse: «La scelta è tua. Ci rincontreremo, sia per la buona che per la cattiva sorte».
Girò la maniglia per uscire.
«Aspetti. Non mi ha detto il suo nome».
Lo guardavo e anche se era girato di spalle potevo intuire un suo sorriso.
«Earl Holland» rispose prima di scomparire.
Rimasi molto a riflettere su quella visita.
Il presunto Holland non si fece più vivo nel periodo del mio ricovero ma io continuavo a rimuginare sulle sue parole. Non riuscivo a capire perché ma c’era qualcosa che mi sfuggiva, avevo la sensazione che non dovevo guardare tanto lontano, tutto quello di cui avevo bisogno per scoprire e conoscere la parte del puzzle che mi mancava, era proprio lì, in mezzo alle sue parole.
Anche quando mi fui ristabilita e ritornai a girovagare per le vie sporche, il pensiero era lì e riflettevo sulle parole che non mi sarei mai sognata di sentire.
Non c’era che dire, non avevo parole. La vita mi ha insegnato che possono succedere degli imprevisti, alcuni dei quali anche piacevoli. Ma qui non si parla di misericordia come la mia esperienza mi ha suggerito. Qui c’è dell’altro e non mi sapevo spiegare cosa, né il motivo di quel colloquio. Cosa voleva da me quell’uomo?
Rubavo qualche pagnotta avendo sempre più consapevolezza che ero etichettata ‘ladruncola da quattro soldi’ ma questo è il pregiudizio per tutti quelli che vivono sulla strada, come aveva detto l’investigatore. Per tutti quelli come me. Anzi no, io ero mille volte peggio di quelli.
Vidi passare proprio di fronte a me un uomo anziano, ben vestito con un completo blu scuro che ne esaltava la figura minuta. La cosa che mi attirò di lui erano gli arti. Con una mano si teneva il petto come se volesse reggerlo e sostenerlo al suo posto, mentre con l’altra stringeva il bastone che faceva picchiettare a ritmo sul lastricato. La testa, coperta da un bel cappello a cilindro era leggermente reclinata in avanti. Immediatamente pensai che sarebbe potuta essere una mia vittima se solo me l’avessero chiesto. Così come quella signora dalla risata a fischietto. Il suo corpo simile ad una botte si teneva eretto su delle basse e malferme gambette che terminavano con due piedi simili a piccole canoe.
«Ah! Guarda chi si rivede!» esclamò una voce maschile dalla cadenza nordica e dal timbro che altalenava dall’acuto al baritonale. «Rowen, è da un’eternità che non ti vedevo. Credevo che fossi a marcire nella polvere».
«Ciao Gler» salutai io.
Gler era un ometto sbilenco che passava le sue giornate a parlare da solo, catturare le lucertole per svago e spettegolare di fatti mai avvenuti.
«Stavolta cosa ci devi fare con quei topi?» domandai mentre lo guardavo appendere mezza dozzina di sorci stecchiti su un filo di spago.
«Mi hanno chiesto di fare un sacrificio» spiegò come se la cosa fosse ovvia.
«Chi te l’ha chiesto?» feci scettica e preparata in anticipo ad ascoltare una risposta che già in partenza sapevo che non stava né in cielo né in terra. A volte però, le cose che uscivano dalla bocca di Gler erano talmente comiche e inverosimili che quando me ne andavo scuotevo il capo divertita.
«Ma gli dei ovviamente! La notte scorsa sono passati in due. Mi sembra che una fosse Freya mentre il suo compagno non l’ho visto in volto perché aveva il cappuccio, e mi hanno detto che se volevo avere una vita stabile, dovevo fare in questo modo».
«Sai, Gler, è possibile che fosse un sogno» spiegai con le sopracciglia alzate per essere più convincente.
«Ma che sogno e sogno! So distinguere se una cosa è successa per davvero oppure no!».
«Come ti pare. Allora ti lascio ai tuoi macabri esperimenti o sacrifici. Insomma quello che è».
Mentre mi allontanavo da quella figura deforme lo sentii gridarmi dietro: «Dovresti farlo anche tu. Ti aiuterà!».
Certo che nel mondo, di persone stravaganti ce ne sono!
Ritornai nuovamente seria quando fuori da un negozio stranamente chiuso in quell’ora della giornata, era appeso un foglio con poche frasi e, non sapendo leggere, non potei capire di cosa si trattasse, ma con cipiglio riconobbi il bollo che vi era applicato: quello di Scotland Yard. Nulla di buono, allora. Come un lampo mi misi a pensare nuovamente alla mia situazione e alle ormai ossessive parole di Holland che mi premevano nelle tempie.
No. Tutto questo non andava affatto bene. Per la prima volta in vita mia presi e riallacciai tutti i problemi che avevo e ne ricavai delle conclusioni.
C’erano tre alternative: continuare a fare quello che avevo sempre fatto e trovare ben presto la morte; assecondare il volere di Holland; vivere rubando lo stretto necessario per campare.
In tasca non c’era neanche un soldo quindi abbandonare la città è assolutamente impossibile.
Camminando avanti e indietro, raccogliendo ogni tanto un sasso per poi scagliarlo a terra mi accorgevo sempre più che la cosa da fare era solamente una. Ci giravo attorno per non vederla focalizzare nella mia mente.
Ero davvero così disperata? La risposta non era un semplice sì e no. Era da una vita che ero in quello stato, ma cercavo di non darci peso dato che non potevo fare assolutamente niente per cambiarlo.
Con un sospiro decisivo rivolto verso il cielo cercai di farmi forza facendo straripare quelle tre parole che cercavo di tenere ingabbiate.
Hai vinto detective.
~ capitolo due ~
Mi misi alla ricerca di Earl Holland chiedendo in giro se qualcuno lo conoscesse ma pareva che nessuno ne sapesse niente. Con il cuore in gola arrivai ad avvicinarmi ad un peeler e a chiedergli di lui.
«Mi stai prendendo in giro?» fu la sua risposta e lo sentii brontolare indignato mentre si allontanava. Mi vennero un po’ di sospetti, a dire la verità. Com’era possibile che un poliziotto non conoscesse un investigatore?
Provai un altro paio di volte a fare la stessa domanda ad altri peelers, ma niente.
Assolutamente niente.
Giocai la mia ultima carta andando all’anagrafe. Un uomo del suo rango doveva essere registrato e, dopo aver discusso animatamente col responsabile, riuscii ad accedere alle cartelle. Era come se la persona che mi avesse parlato non fosse reale. Non risultava nessuno con quel nome. Earl Holland non esisteva.
Mi stava giocando un brutto scherzo? Mi ero immaginata tutto? Avevo capito male il nome?
In un tardo pomeriggio, passando lungo una via dei bassifondi piena di pub da due soldi e lerciume con uomini rozzi e perennemente ubriachi che urlavano, m’imbattei in un’insegna raffigurante il Tower Bridge con il nome scritto in rosso, ormai scolorito per via del colore di poca qualità e dalla quantità di acquazzoni che si sono rovesciati nell’autunno. In quel momento mi arrestai immediatamente incurante di due persone che mi vennero addosso, tra cui una che riuscì a frugarmi in una tasca nella speranza di trovare qualcosa di valore o del denaro. Nonostante l’avessi sentito non ebbi nessuna reazione, tanto non possedevo niente e la tasca era miseramente vuota. Non feci altro che osservarlo attentamente per imprimere nella mente il suo volto, in caso l’avessi rincontrato nuovamente.
Riguardai l’insegna e come se fossi stata morsa da una pulce, mi misi a correre. E se invece l’investigatore voleva mettermi alla prova?
La situazione incominciava a stuzzicarmi la curiosità. Era possibile che mi stavo immaginando tutto ma volli andare fino in fondo per esserne sicura.
Andai nel luogo in cui sapevo per certo fosse esposta una cartina geografica e feci scorrere tutti i nomi delle vie della City, fino a quando non scorsi un nome abbastanza familiare: Holland Eark.
All’inizio rimasi un po’ interdetta. Era quello il gioco che stava giostrando? Mi voleva mettere alla prova? Bene, avrebbe visto di che pasta ero fatta. Iniziava la caccia!
Mentre riprendevo la mia corsa verso la via, un lampo squarciò il cielo annunciando l’arrivo di un temporale. Le prime gocce di pioggia caddero picchiettando al suolo.
Ecco, dovevo girare a sinistra e sarei stata in Holland Eark.
Per strada la gente si affrettava a trovare un riparo. Un fruttivendolo trasportava i suoi prodotti all’interno della bottega mentre le carrozze filavano veloci schizzando un po’ di fango intorno. Ripensai alla conversazione per trovarne qualche traccia ma non c’era nulla che potesse essere scambiata per un aiuto. Mi misi alla ricerca di qualcosa, anche se ero io la prima a non sapere cosa speravo di trovare. Andavo avanti e indietro lungo la via scrutando come un segugio ogni angolo e spremendomi le meningi per capire cosa dovevo trovare. Sempre che ci fosse stato qualcosa. Chissà se il presunto investigatore mi stesse osservando dall’alto della sua finestra, nel suo appartamento, al caldo e all’asciutto?
Lanciai delle occhiate tra le finestre delle abitazioni ma non scorsi nessuno.
Dovevo trovare un segno però nella confusione della via non era semplice ma poi, proprio dietro a dei barili posti fuori da un pub, scorsi un flebile bagliore. Qualcuno aveva perduto qualcosa. Posto insolito per smarrire degli oggetti. Mi avvicinai e vidi che nel fango luccicava una specie di medaglione. No, non era un medaglione. Stando attenta a non ruotarlo presi in mano l’oggetto e pulendolo con una manica, mi accorsi che era una bussola. Guardandomi attorno non vidi nessun negozio che potesse vendere niente del genere. Mi concentrai nuovamente sull’oggetto e vidi che l’ago puntava alle mie spalle virando leggermente alla mia destra dove sorgeva un’abitazione a due piani tra uno studio medico e un negozio di noleggio di abiti. Voltando la bussola mi accorsi che nel bordo erano incise tre lettere: K.T.S.
Mossi dei passi verso la casa e dopo aver superato tre gradini mi trovai di fronte alla porta di legno verniciata di verde scuro dove in ottone era segnato il numero civico 43A. Bussai. Dei passi si stavano avvicinando e quando la porta fu aperta mi ritrovai di fronte ad un uomo asciutto molto alto, dalla carnagione chiarissima, i capelli quasi bianchi che non si addicevano alla sua età e capii che era albino dall’iride dei suoi occhi, di un colore grigio chiaro, quasi bianco anch’esso. Quando mi vide stava per chiudere di nuovo la porta senza fare una piega ma io la trattenni.
«Perché mi chiudi la porta in faccia?».
«Non vogliamo senza-tetto qui».
«Sto cercando il signor K.T.S.».
«Cerchiamo sempre qualcuno che ci ospiti per poi portargli via tutto quello che ha in casa».
«Ho la sua bussola» sbottai punta sul vivo.
«Oh» l’albino lasciò la presa e la porta si spalancò. «Potevi dirlo subito».
«Non me ne hai dato il tempo».
Mi fece entrare anche se continuava a guardarmi come se fossi un serpente velenoso. Il piano terra si presentava come una zona ampia arredata finemente. Non aveva un genere ben preciso ma nell’insieme mi parve molto accogliente. Ne avevo viste molte di abitazioni, quelle delle mie vittime, e anche solo guardando il mobilio si poteva capire il carattere di una persona. Ovviamente non ho mai preso parte ad una lezione universitaria di psicologia. Quasi non sapevo neanche cosa significasse quella parola. Avevo sentito parlare di uno strizzacervelli che aveva trovato il metodo per studiare l’essere di una persona. Come si chiamava? Freud. Può darsi? In ogni modo, chissà cosa avrebbe dedotto osservando quell’appartamento. Abbracciava un gusto quasi eclettico e fine, con tutti gli oggettini e disposizione dei mobili al posto giusto. L’albino mi indicò di entrare nella sala, luminosa e fresca, e nel passarci scorsi un’altra stanza adiacente, molto colorata. Aveva qualche maschera africana appesa al di sopra di un pianoforte a corda molto classico. Quell’abbinamento particolare mi incuriosì. Avrei dato quel poco che possedevo per darci una sbirciata e per scoprire quali altre cose contenesse. Stranamente ero solo curiosa. Sana e innocente curiosità. Quasi infantile, ad essere sincera, ma era quello che era.
L’uomo mi volle far sedere su una poltrona ma mi opposi per come ero messa, fradicia e piena di fango. Per tutta risposta accese il caminetto e spinse di fronte ad esso uno sgabello in legno scomparendo subito dopo lasciandomi lì da sola. Mi accostai alla fiamma per scaldarmi e mi accorsi che proprio sopra la mensola del camino erano poste due pistole e sulla parete della canna fumaria erano appese una spada, una scimitarra e un moschetto. Osservandomi attorno vidi un’ampia libreria mentre un orologio a pendolo oscillava in un angolo. Dei movimenti mi fecero percepire che qualcuno si stava avvicinando e mi alzai dallo sgabello dove ero seduta un attimo prima di vedere l’uomo che mi aveva fatto visita all’ospedale. Era proprio lui ed era di fronte a me.
«Earl Holland, vero?!» esclamai ironicamente.
Lui sorrise avvicinandosi ad un tavolino-bar e prendendo due bicchieri.
«Mi hai trovato lo stesso, a quanto vedo. Brandy?» chiese.
«No, grazie» risposi, così che lui rimise a posto i bicchieri, si sedette su una poltrona e mi guardò mentre io mi rimisi sullo sgabello.
«Sgabello» commentò scandendo le sillabe. «Che pessimo personale. Siediti di fronte a me su quella poltrona».
«Sono conciata piuttosto male e non vorrei rovinargliela». Prima volta che facevo caso al mio aspetto e prima volta in cui cercavo di non insudiciare e non danneggiare niente. Che mi stava succedendo?! La bussola era cosparsa di qualche sostanza tossica che mi riduceva in quello stato?!
«Sciocchezze».
Anche se ugualmente titubante, mi misi comoda e lo osservai mentre prendeva la sua pipa e l’accendeva.
«E così hai