Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Sporchi delitti: La nuova indagine del commissario Cataldo
Sporchi delitti: La nuova indagine del commissario Cataldo
Sporchi delitti: La nuova indagine del commissario Cataldo
E-book345 pagine4 ore

Sporchi delitti: La nuova indagine del commissario Cataldo

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

A Sestola, noto centro di villeggiatura dell’Appennino modenese, una donna della ricca borghesia viene orribilmente sgozzata. Quando, pochi giorni dopo, un’altra donna viene uccisa a coltellate nel suo appartamento a Modena, delle indagini viene incaricato il commissario Giovanni Cataldo, al culmine della maturità professionale. Coadiuvato dal sovrintendente De Pasquale e da un giovane agente di Sestola, Cataldo inizia un’inchiesta resa difficile dall’assenza di ogni rapporto tra le donne uccise, a parte l’essere entrambe separate da tempo dai propri mariti. Finché, a forza di scavare, un legame emerge, rappresentato dalla clinica di chirurgia estetica del dottor Roversi, un rinomato professionista la cui moglie è inspiegabilmente scomparsa un anno prima. Le indagini, protratte fra mille ostacoli, coinvolgono via via un noto politico, un fotografo di moda e un giornalista sportivo, ma senza risultati concreti, complicandosi anzi ancora di più dopo l’omicidio di una ricca cartomante, specialista nella lettura dei tarocchi. E se la chiave del mistero fosse nascosta in un piccolo villaggio trentino, dove il tempo si è fermato? Affidandosi al proprio intuito e alla propria tenacia, Cataldo porterà alla luce un’agghiacciante storia di violenze, silenzi e vendetta, entrando nel cuore di esistenze quotidiane e scoprendo il peso di un passato doloroso che esige ancora il suo prezzo di sangue.

Luigi Guicciardi modenese, docente di liceo e critico letterario, è autore di una serie di mystery: La calda estate del commissario Cataldo (1999; Heyne, München, 2000; Hersilia Press, Oxfordshire, 2010), Filastrocca di sangue per il commissario Cataldo (2000; Heyne, München, 2001) – entrambi finalisti al Premio Scerbanenco – Relazioni pericolose per il commissario Cataldo (2001), Un nido di vipere per il commissario Cataldo (2003), Cadaveri diversi (2004) per Piemme; Occhi nel buio (2006), Dipinto nel sangue (2007), Errore di prospettiva (2008), Senza rimorso (2008), La belva (2009), La morte ha mille mani (2010) per Hobby Una tranquilla città di paura (2013) per LCF Edizioni; Le stanze segrete (2014), Paesaggio con figure morte (2015), Giorni di dubbio (2016), Una tranquilla disperazione (2017) per Cordero Editore; Nessun posto per nascondersi (2018) per Fratelli Frilli Editori. Ha contribuito con un racconto alle antologie Scosse. Scrittori per il terremoto, Felici Editore, (2012); GialloModena, Damster, (2016); L’anno di fuoco: il Sessantotto a Modena, Il Foglio, (2018), e 44 gatti in noir, Fratelli Frilli Editori, (2018).
LinguaItaliano
Data di uscita18 mar 2019
ISBN9788869433368
Sporchi delitti: La nuova indagine del commissario Cataldo

Leggi altro di Luigi Guicciardi

Autori correlati

Correlato a Sporchi delitti

Ebook correlati

Gialli hard-boiled per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Sporchi delitti

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Sporchi delitti - Luigi Guicciardi

    PROLOGO

    L’amore.

    È sempre questo il principio di tutte le cose. Ma quello che non ho capito è che ne è anche la fine.

    Nel cuore, le cose non finiscono mai. Era il verso di una poesia, mi sembra. Un po’ come una canzone: I ricordi del cuore. I ricordi non passano mai, diceva; stanno con noi. Perché sono più forti di noi.

    E io ci credo. Soprattutto di notte, quando cerco di dormire e non ci riesco, ho la percezione netta di quanto siano vere quelle parole.

    Tornano, i ricordi, al confine tra la veglia e il sonno, quando le strade sono silenziose o mentre l’alba penetra dalle fessure della finestra, rischiarando la stanza con una luce fioca che cresce lentamente. Tornano, e io rivedo le sagome, nella penombra.

    Nessuno sfugge a nessuno.

    Sono sempre stato affascinato dai piccoli crocevia della vita, dalle biforcazioni inattese, dalle strade senza segnaletica, che non figurano su nessuna mappa. A volte guardo il mio passato e cerco di capire.

    Avrei avuto il destino che ho avuto se non avessi desiderato così tanto Carla? Se non le fosse stata strappata la vita? Se non fossero accadute queste cose, sarei ugualmente diventato ciò che sono? Non lo so.

    Ho fatto questo mestiere con la benedizione di mia madre. Credo che sospettasse che la mia scelta aveva a che fare con quella morte. Quasi certamente aveva immaginato per me un futuro diverso, ma era mia madre e mi sostenne.

    Così ho cominciato a lavorare. Senza mai dimenticare lei. Eravamo giovani di ogni livello sociale: studiavamo, scherzavamo, dicevamo cazzate, parlavamo quasi solo di donne, sognando folli rapporti sessuali. O meglio, ne parlavano loro, quasi sempre. E io stavo ad ascoltare, senza sentire niente. Perché pensavo sempre a Carla.

    Vivevo in un appartamento da scapolo, con un letto a una piazza, un tavolo, una sedia che mi aveva dato mia madre e una piccola libreria. Imparai a cucinare sfogliando le riviste e lessi tutti i libri della biblioteca. Una volta al mese, tra un turno di lavoro e l’altro, riuscivo anche a passare la notte con qualche donna. Erano incontri veloci, disperati, che non lasciavano tracce dentro. Solo i segni fisici della lotta dei corpi. Perché c’era solo Carla. Solo lei era viva.

    Le prove che ho disseminato ad arte sono state scoperte. Facevano parte del mio piano. Un piano che ha subito diverse correzioni, modifiche. La cartomante è stata una di queste. Ma alla fine il piano mi si è ritorto contro. Trasformandosi nell’umiliazione, nella vergogna. Nell’ergastolo.

    I pensieri mi riportano sempre là, a quel giorno orribile. Chiudo gli occhi con forza e sento le lacrime che non ho mai permesso a nessuno di vedere. Strisciano da sotto gli occhiali, lasciandosi dietro una scia di ricordi.

    E rammento quel giorno con perfetta chiarezza. Posso vederne ogni dettaglio, come se il film della mia vita scorresse fotogramma per fotogramma, ognuno nitido e chiaro, dai colori accesi e definiti.

    Allora scuoto la testa. Come devono ridere di noi gli dèi. Per anni ho desiderato che il colpevole fosse proprio qui. In un buco come questo, un metro e venti di larghezza, due e mezzo di lunghezza e due e mezzo di altezza, con un cesso privo di asse e un lavandino. E ora c’è davvero. Per sempre.

    Nessuno sfugge a nessuno.

    L’estate è sempre stata la stagione del perdono, perché il caldo del sole cancella i problemi, li dissolve. Così a volte dico a me stesso che, se riesco a resistere ancora per un po’, ad arrivare all’estate, tutto questo passerà.

    Ricordo che cosa ho dovuto provare, mentre organizzavo tutto: i nervi che mi facevano fremere lo stomaco, l’ansia che mi inumidiva di sudore il palmo delle mani, l’eccitazione che oscurava qualunque incertezza, qualunque dubbio, in quei momenti.

    Perché è questa la verità, Carla. L’amore non nasce dall’affinità di istruzione, dall’affinità dell’ambiente di origine, dall’affinità di esperienze. L’amore nasce dal niente creando se stesso lungo il cammino. E se non c’è questo, c’è solo il caos. La sofferenza.

    Sì, c’è troppa sofferenza, troppo dolore. Che nasce dalla consapevolezza, dall’attaccamento, dal coinvolgimento. Lo so che è inutile, ma continuo a chiedermi come sarebbero potute andare le cose, se tanti anni fa non fossi andato al liceo, se non avessi conosciuto Carla, se avessi finito l’università, e reso orgogliosi i miei genitori...

    Mi bruciano gli occhi. Non so che ore sono, ma mi sembra che lo schermo scuro sospeso oltre la finestra cominci a volgere al grigio. Dico a me stesso che per ora ho pensato abbastanza.

    Ieri mi ha chiamato il direttore. Avrà sì e no quarant’anni. S’è seduto, in cortile, su una sedia di tela, le gambe accavallate, i jeans rimboccati e i calzini arrotolati in modo da scoprire una striscia di pelle bianca su ciascuna gamba. Quella posizione lo faceva sembrare vulnerabile, molto giovane. Teneva le mani intrecciate intorno alle gambe e i polsi gli spuntavano dalle maniche della giacca.

    Sottovoce, mi ha chiesto qualcosa, ha accennato alla buona condotta. Non riuscivo a fissarlo negli occhi e allora ho spostato lo sguardo oltre quelle mura. I salici fornivano un riparo che fra non molto diventerà uno schermo, dietro il quale gli innamorati potranno stendersi, in quella lieve depressione del terreno dove chissà quanti amanti si sono già stesi in passato. Ma io non sarò mai uno di loro.

    Il mondo è davvero cambiato. Un grande spazio dentro di me si è svuotato, e io non so se riuscirò a riempirlo di nuovo. A volte ho paura.

    Ma il passato è passato. Se me lo ripeterò a sufficienza, può anche darsi che diventi vero.

    È ora di decidere. Mi sembra quasi di sentire la voce di Cataldo. Decidere, e poi vivere per sempre con la propria decisione. Come farò io. Come ho già fatto.

    È stata una brutta storia, mi dico, in risposta alla domanda silenziosa dei miei occhi nello specchio. Di sangue, di delitti. È qui che è cominciata, ed è qui che finisce.

    Dei passi nel corridoio, una chiave che gira nella serratura della porta grigio acciaio, lo stridore del metallo che sfrega su altro metallo. Un’ombra mi si para davanti, mi conduce fuori, precedendomi. Finché entriamo in una stanza, dove un uomo seduto mi sta aspettando.

    Un uomo massiccio, dall’aspetto curato, in giacca sportiva, pantaloni grigi e una cravatta dai colori neutri accostata con finezza.

    Un altro avvocato, probabilmente.

    PRIMA PARTE

    L’OMICIDIO

    1

    È giorno di mercato, a Sestola, e corso Libertà brulica di bancarelle e di veicoli. Forse per questo nessuno nota in modo particolare la donna ferma sul marciapiede. Come paralizzata.

    È appena uscita da un negozio e tiene in mano un sacchetto nero. A prima vista le si darebbe una trentina d’anni, ma a uno sguardo attento non sfuggirebbero parecchie rughe intorno ai suoi occhi. È ben vestita: giacca di pelle sopra un maglione di cachemire, e gonna scozzese a pieghe. E strizza gli occhi, come un gatto timoroso. Sta fissando un uomo dall’altra parte della strada.

    È il 21 marzo, il primo giorno di primavera, ma si può quasi credere che sia già maggio. Il vento fa scorrere masse di nuvole sopra un cielo splendidamente azzurro. E anche lì, nel centro di Sestola, c’è un profumo speciale, una maggiore intensità di luci e di ombre, perché l’inverno se n’è andato. Anche i suoni hanno più eco, quasi a rivaleggiare con la marcata brillantezza dei colori.

    In principio l’uomo non si accorge della donna. È un agricoltore, lo si capisce dall’aspetto. Alto, robusto, sulla cinquantina, pantaloni di velluto e scarpe pesanti. E si muove come soprappensiero, mani ficcate in tasca, urtando ogni tanto qualcuno. Faccia abbronzata, capelli brizzolati e ispidi, senza cappello. Una faccia triste. Dà l’impressione di un uomo solitario; un vedovo, forse. Ma anche un uomo energico.

    Poi, è come se lo sguardo intenso della donna penetrasse dentro di lui. Alza la testa di scatto e si guarda intorno, gli occhi subito attirati da quelli di lei. E di colpo si blocca, spalancando anche lui occhi increduli. Restano a fissarsi diversi secondi, dai marciapiedi opposti di corso Libertà.

    Alla fine l’uomo passa dall’altra parte. Dove esita, incerto, gli occhi pronti al rifiuto.

    E... può essere?

    Lei, con occhi ora sorridenti, annuisce.

    Dio mio... Dopo quanti anni?

    Troppi, per me. Ma tu non sei quasi cambiata.

    Lui sembra frastornato, confuso. Si passa una mano sui capelli, fa per parlare, poi rinuncia. Mentre vengono urtati dai passanti, donne con borse della spesa, uomini coi loro pacchi.

    Senti... possiamo andare da qualche parte?

    Stavo per andare a prendere un caffè.

    Dei due è lei la più controllata, ha già superato l’emozione iniziale dell’incontro.

    Sai, è ridicolo, ma da quando sono tornato tu sei la prima persona che incontro che mi conosceva da prima.

    È tanto che sei tornato?

    Un anno.

    Cosa fai qui a Sestola?

    Coltivo un podere qui vicino. Piccolo aggiunge.

    Lei gli tocca il gomito e insieme proseguono lungo il marciapiede affollato. Si fermano per il caffè nella saletta dell’hotel Del Corso e occupano un separé, sedendosi l’uno di fronte all’altra. Lui esamina a lungo il viso levigato di lei, il suo naso piccolo e la bocca ben fatta. C’è eccitazione nei suoi occhi. Lei conserva il sorriso durante l’ispezione.

    Oh, Signore... Non sei cambiata affatto. Sei ancora la ragazza che conoscevo anni fa.

    Magari! Ma dimmi, cosa ci fai in Italia?

    Lui fa un gesto di frustrazione. Accidenti, se lo so. Mi sembrò una buona idea allora. Ma non ha funzionato. Ho perso le mie radici, sai. Una smorfia ironica. Sposai una del Sudafrica... Ora è sposata con un professore universitario che ha un nome olandese. E ha con sé i miei figli, una femmina e un maschio, che ormai sono grandi. Fine della storia del mio matrimonio.

    Ma i tuoi?

    Mio padre è morto. La mamma sta con mia sorella a Johanne-sburg.

    E tu sei tornato qui?

    Sono di Sestola, no? Almeno lo ero, prima di andarmene.

    La sua voce è sorprendente. Pacata, educata, ben diversa da quella che ci si aspetterebbe da un contadino. Ma la sua pronuncia non è neanche più modenese, ha come un lieve difetto nelle vocali.

    Eri giovane quando sei partito.

    Troppo giovane. Avrei dovuto sposare te prima di andarmene. Perché non mi hai mai scritto?

    Mi sembrò inutile. Avevo tagliato i ponti col passato, e dovevo ricominciare daccapo.

    Mi sono chiesta spesso che fine avevi fatto.

    Lui annuisce. Ma tu eri qui, e io laggiù. Un nuovo mondo, altra gente... Poi conobbi quella ragazza, aveva dei parenti che andava a trovare a Cape Town, poi finì col restare da noi, e più o meno allora papà comprò la fattoria vicino alla loro. A quell’epoca era bello impegnarsi. Non prevedevo affatto di tornare. Ma poi s’è sfasciato tutto, e sono rimasto solo...

    Ci furono dei problemi?

    No. Se si escludono quelli che mi portavo dentro.

    Beve nervosamente stringendo forte la tazzina, lo sguardo ora sfuggente. Nonostante i capelli grigi, il volto segnato, c’è un tocco giovanile nel suo aspetto. Nella sua camicia col collo aperto, e nella giacca di tweed, entrambe non nuove.

    E tu?

    Oh, io. Ho un marito.

    Lui non sa che cosa dire.

    È a Modena, adesso continua. Io sto in un appartamento mio, qui a Sestola.

    E lui?

    È più vecchio di me... ci teniamo compagnia. E poi ero rimasta sola come te. Una pausa. Così mi sono legata a lui.

    E tu lo ami?

    Parliamo di te. Cosa c’è che non va, a fare l’agricoltore a Sestola?

    Lui resta un poco a fissarla, prima di rispondere.

    Sono io, immagino. Non Sestola.

    Che fesseria.

    Scuote la testa. Non sono più attaccato a questa terra. E non appartengo neanche più al Sudafrica. Tutte le mie radici... sì, sono recise sorride, come l’ebreo errante di quel romanzo. Vivo da solo in una casa di campagna, con una donna che viene a cucinare e a pulire. Ho avuto un’offerta da un amico in Egitto per gestire un’agenzia di viaggi... un altro sorriso, nel sud del Paese, e forse finirò per accettarla, mi trascinerò là, diventerò il bwana del Nilo. Poi scivolerò un po’ nella pazzia, ci saranno ragazze nere, whisky al mattino, a pranzo e a cena, poi una qualche malattia e uno stregone che accompagna col canto il mio trapasso. Chissà...

    Nei suoi occhi c’è di nuovo quella fiamma di eccitazione, e suda. È certamente una conversazione insolita per la saletta dell’hotel Del Corso.

    Stai scherzando, spero.

    Tento. Continuo a far tentativi.

    Dai tempo al tempo.

    Il podere non rende. Sono in deficit.

    Ascolta. In un certo senso sono obbligata verso di te.

    Perché dovresti?

    Non lo so sospira. I vecchi tempi, forse... Allora mi sentivo obbligata. E tu hai bisogno di un’amica, è chiaro. Di una che conoscevi prima. Tu puoi appartenere di nuovo a questa terra.

    La fissa duramente. Tu sei matta.

    No, che non lo sono. Parlo con molto buon senso. Non sei così sbandato...

    Sono una causa persa. Meglio che mi lasci andare al diavolo.

    No.

    Lui prosegue a fissarla, colpito dalla fermezza della sua voce. Attorno a loro i paesani spettegolano e ridono, come le loro mogli, robuste e compiacenti, mentre dalla finestra si vede il flusso di quelli che passano. L’uomo aveva un nome. Non ha importanza. La donna aveva un nome. Non ha importanza. Non ne aveva in quel giovedì ventilato di marzo, giorno di mercato e di affari, a Sestola. La luce del sole filtra dalle finestre, traendo riflessi ramati dai lucidi capelli castani della donna. Quando batte le palpebre, le lunghe ciglia si abbassano sui sui occhi.

    E lei pensa. Che col tempo lo aveva dimenticato, come tanti altri uomini senza volto che le sono passati accanto per la strada, sagome disegnate su una tela piatta. Soltanto ora lo vede davvero, il caldo vigore della sua pelle, la ragnatela di rughe d’espressione intorno agli occhi. Un volto vissuto. Affascinante.

    Ma qualcuno li sta spiando. Prima, sul marciapiede di corso Libertà, girato verso la vetrina dell’agenzia di viaggi Dragon Fly, li ha osservati attraverso il riflesso a specchio dei vetri. E dopo, quando si sono messi a camminare fianco a fianco, li ha seguiti a distanza, con prudenza, fino alla soglia dell’hotel Del Corso. Non ha avuto il fegato di entrare dopo di loro, e poi, pensandoci, non ne ha neanche il bisogno. Ormai sa tutto quel che serve, e il suo piano è pronto. Pronto da tempo.

    Sogghigna.

    Appunto. È solo questione di tempo.

    2

    Sono trascorsi alcuni giorni, è mercoledì. Mercoledì 27. E sono le otto di sera. Lei lo capisce dalla sigla del TG1, proveniente dal soggiorno. Sospira e sorride appena: c’è tempo, ancora. Finisce di darsi lo smalto alla mano sinistra, la solleva davanti a sé come un vigile che fermi il traffico e poi piega le dita. Infine versa del solvente su un batuffolo di cotone e si toglie tutto lo smalto. Le sue mani sono molto più belle senza, conclude.

    Si veste senza fretta. Vestiti comodi, per adesso. Scarpe da ginnastica. E mentre chiude automaticamente la porta e scende i gradini, dà un’occhiata all’orologio. Le otto e mezza. Lui le ha detto che telefonerà alle dieci. E lei, scioccamente, gli ha dato il numero del telefono fisso.

    Aggrotta le sopracciglia. Non deve rientrare in ritardo per la telefonata. Non vuole perderla.

    Ha calcolato tutto. Il tempo di una passeggiata, lì vicino, poi rincasare, farsi una doccia e aspettare. E dopo, la sua voce. E dopo ancora, chi lo sa...

    Al tramonto, il cielo passa sempre dal blu scuro all’azzurro chiaro, al grigio pallido, al grigio scuro, e poi fa buio. Ma c’è tempo, ripete a se stessa.

    S’incammina. Supera un pugno di villini ai margini di una curva della strada, che danno l’impressione di essere riflessi da uno specchio deformante. Poi attraversa un prato e scende per un sentiero che passa in mezzo agli alberi. Si riesce quasi a vederla, l’umidità, sospesa come una nuvola sopra il sentiero.

    Chiude la lampo della tuta, tira indietro la testa, chiude gli occhi e trae un profondo respiro a bocca chiusa. È dentro al bosco, adesso. All’orizzonte balenano lampi di luce. Si sente già odore di pioggia. E l’aria pura, mista a quel profumo, le riempie di colpo le narici.

    Qualcosa produce un fruscio nel sottobosco. Lei si immobilizza all’istante, esplora con gli occhi i lati del sentiero. Qualche animale? La maggior parte è perfettamente innocua, lo sa bene. Quindi...

    Il fruscio cresce d’intensità. La donna si irrigidisce. È già pronta a voltarsi e a correre verso casa, quando un grosso cane sbuca da una macchia di cespugli alla sua sinistra. E si dirige verso di lei, ansimando.

    Ehi, ma guarda un po’ chi c’è! esclama, con una risata di sollievo. È la terza serata di fila che lo vede. È inconfondibile: ha un pelo nerissimo e sembra aver stampato sul muso un sorriso perpetuo. Le si avvicina scodinzolando e lei si china per accarezzarlo. Non ha idea di che razza sia, ma pensa che sarebbe bello se qualcuno pensasse a fargli un bagno.

    Povera bestia borbotta.

    Il cane le cammina vicino per un po’, alzando di tanto in tanto gli occhi come a cercare una qualche forma di approvazione. Intanto lei dà un’altra occhiata all’orologio. Le nove meno due minuti. Fra un quarto d’ora rientrerà, così potrà farsi la doccia e prepararsi, prima della telefonata delle dieci.

    Sorride, fra sé, e aumenta l’andatura. Altri cento, duecento metri seguendo il sentiero. Il cane solleva lo sguardo verso di lei con trepidazione. Forse ha voglia di giocare. Va bene dice. Si china, prende da terra un ramo e lo getta lontano, tra gli alberi. Il cane si lancia subito a prenderlo. Ma non torna, come dovrebbe fare, per deporlo ai suoi piedi. Però lo sente abbaiare. Dopo, i latrati si affievoliscono. Forse ha individuato qualche altro animale e lo sta inseguendo.

    All’improvviso un brontolio, in lontananza. La donna alza gli occhi al cielo. Sta per scoppiare un temporale, e lei non l’ha previsto. Adesso non è il momento di cercare il cane. E poi ha lasciato due finestre aperte e la sua auto nuova nel vialetto, sotto un albero, invece che in garage.

    Si volta e muove qualche passo affrettato giù per il sentiero. I rami dei faggi si curvano già e scricchiolano per il vento. Un fulmine squarcia il cielo grigio. Un altro rumore, più forte di un fruscio, la fa fermare di colpo. Gira la testa. Pare quasi che il rumore stia avanzando verso di lei.

    Il cane?

    Poi il rumore si interrompe. Ora c’è silenzio, ma è un silenzio sinistro. Qualcosa la sta osservando. Le mani le si ghiacciano all’istante.

    Non è il cane. Passi improvvisi risuonano nel sottobosco. Scricchiolano, schiacciando prima gli arbusti e poi le foglie. Lei si volge alla cieca, incerta su quale direzione prendere. Ma ormai non ha più importanza.

    Sente una mano pesante stringerle la spalla. Solo un fantasma può essere così veloce, così silenzioso, pensa. Gira su se stessa, ma sa già che è troppo tardi.

    La pioggia ha cominciato a cadere quando il cane ritorna, pochi minuti dopo. Subito corre verso la donna, ma poi si blocca e lascia cadere il ramo, mettendosi a uggiolare. Alla fine si avvicina cautamente al suo corpo. Quando annusa il sangue, il pelo sulla schiena gli si drizza. Si accuccia contro di lei e prende a fissarla coi suo occhi color ambra, ma sul suo muso non c’è più traccia di sorriso. Con delicatezza, quasi con reverenza, allunga il collo oltre lo squarcio nella gola di lei, come a proteggerla. E mentre il temporale si scatena con forza, il cane si mette a ululare a intervalli nella notte.

    3

    Giovedì 28, un quarto d’ora prima che scoprano il cadavere, il lattaio di via Passerino sta facendo le consegne.

    È una bella mattinata, senza pioggia né nuvole. C’è appena un soffio di brezza che spira da est, col cielo di un azzurro lattiginoso e il sole che ammicca riflettendosi sullo specchietto retrovisore del furgone del latte.

    E una ragazza ha appena cominciato a fare jogging.

    Sta entrando nel bosco, seguendo il sentiero. Qualche volta però cammina anche fuori, a passo svelto. I rami secchi degli alberi abbattuti le graffiano le gambe, e le foglie ogni tanto la fanno scivolare, mentre avanza tra i tronchi, i rampicanti e le buche che rendono difficile l’equilibrio.

    Ma c’è gioia nella sua stanchezza, e un senso di conquista nel sudore.

    Si inoltra sempre più, dove la vegetazione è un po’ più folta. E adesso si muove con più cautela, evitando rami e ramoscelli, cercando di tenersi il più possibile lontano dalle foglie secche e, nei punti in cui non le è possibile, affondando la punta dei piedi sotto lo strato superiore, incurante del terreno umido appena sotto.

    A un tratto, però, rallenta.

    Perché ha registrato un rumore da qualche secondo, ma senza prestarvi particolare attenzione. Foglie che frusciano. Rametti che schioccano. Un gocciolio di foglie. Ora si ferma. E ora il silenzio è completo. Neanche un uccello cinguetta. Nemmeno un trillo.

    C’è qualcuno nel bosco, pensa.

    Un altro fruscio. Poi scorge la testa. Il muso lungo, le orecchie piccole e marroni. Il corpo nero. Si acquatta davanti a lei, quasi si aspetti di venir colpito. Quando alla fine lei allunga il braccio, a invitarlo a venire, il cane annusa due o tre volte e comincia a uggiolare.

    Un randagio, di sicuro. Strano, però. Non ne ha mai visto uno, da quelle parti, e dire che ci viene spesso, a fare jogging.

    Si mette in ginocchio e lui non scappa. Allora gli massaggia il collo, poi gli pone delicatamente le mani ai lati del muso e lo solleva. E subito inghiotte a vuoto. Sbalordita da quel che vede.

    Sangue secco su tutto il collo. Ma nessuna ferita.

    Ehi... fatti guardare...

    All’improvviso il cane si mette a correre. Per fermarsi di scatto una trentina di metri più in là, dove il ramo di un’enorme quercia, forse abbattuto da un fulmine, giace in mezzo al sentiero. Il ramo è coperto da minuscoli fiori bianchi e gialli, che diffondono un odore forte e dolciastro.

    Il cane si mette di colpo ad abbaiare. Lei avrà percorso quel sentiero decine di volte, in precedenza, ma non ha mai sperimentato quella sensazione. Di trovarsi in un posto buio e freddo. Estraneo e ostile.

    Incrocia le braccia sul seno, in un gesto inconscio di difesa. E a un tratto si rende conto che il cane è tornato indietro.

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1