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Freddo fuoco bruciato
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E-book372 pagine5 ore

Freddo fuoco bruciato

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Info su questo ebook

La fiamma di una candela accesa si trova ad affrontare condizioni climatiche avverse e sembra sia destinata a spegnersi, cedendo al suo inevitabile destino. Il suo calore e la sua volontà di ardere sono però così forti da spingerla a combattere vento, freddo e pioggia. Proprio dentro se stessa troverà la capacità e la forza di rinascere, più viva e vigorosa di quanto non lo sia mai stata.
Questa è la leggenda che il nonno raccontava sempre a Riccardo da piccolo e che lo ha segnato per tutta la vita. Ma questa è anche la metafora puntuale del percorso di crescita che i due protagonisti si trovano ad affrontare, superando ostacoli e avversità, ma, soprattutto, superando se stessi.
Freddo Fuoco Bruciato non è però un romanzo di formazione; non è un romanzo rosa, anche se l’amore è il suo motore; non è un thriller, anche se la morte viene inflitta e il colpevole deve essere trovato. Questo romanzo è piuttosto un insieme profondo e avvincente di tutti questi elementi, che l’autrice mescola con grazia e sapienza.
LinguaItaliano
Data di uscita25 gen 2016
ISBN9788868671327
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    Anteprima del libro

    Freddo fuoco bruciato - Marisa Pezzella

    Amleto

    Premessa

    Perché forse la vita è questo: un girare di cose, il rincontrarsi di eventi e di persone; è tutta una questione di causa ed effetto. Se il presente non esistesse, non potrebbe esistere il passato. Bisogna stare attenti al presente allora, è proprio questo che può causare abissi nel futuro. È la circolarità del tempo a fregare le persone; pensano che la vita sia fatta di attimi singoli, saturi e colmi solo di se stessi, invece no. Gli attimi sono il tutto, sono delle tessere di un domino. Ne sbagli uno e sei fregato. 

    Capitolo 1

    6 gennaio 2008

    Eva

    Cosa c’è che non va in me? Sono una specie di calamita acchiappa tristezze?

    Quanto odio quelle persone che sembrano perennemente felici. Ma è solo la mia ruota ad andare sempre storta o esistono anche persone come me, sfigate?

    Le mie continue paranoie, le mie tristezze e afflizioni, quel senso di inferiorità che ormai mi assilla in ogni momento delle mie giornate dovranno restare per sempre? Mi libererò prima o poi della mia mente contorta? Ho l’impressione di avere un’altra me all’interno che mi stressa e mi porta a una lenta distruzione. Che schifo.

    E mia madre che ormai è persa di quell’uomo? Del mio – per quanto assurdo – vero padre. Uno schifo.

    Pedalo con più forza, la bici rapidamente scatta.

    Quanto vorrei che i dolori se ne andassero insieme al vento che mi fruga fra i capelli. Prendete i vostri danni e andatevene, lasciatemi vivere in pace. Almeno per una notte.

    Arrivo al parcheggio multipiano della cittadina accanto al mio paese. Scendo dalla bici e piano mi avvio verso la salita.

    Non sarei riuscita a superare un’altra notte in quella casa che ormai non sento più mia. Odio quell’uomo, che legame può esserci tra di noi? Perché è proprio lui mio padre?

    Ma dov’è stato lui per tutti questi anni? Ah sì, me ne stavo dimenticando… Era impegnato a vivere nell’oscurità e a scoparsi mia madre in segreto. Mentre Claudio cercava di insegnarmi ogni cosa di questa vita, credendomi figlia sua. Mia madre, puttana, giocava con l’uomo più dolce su questa terra, colui che mi ha insegnato a credere nei sogni.

    Cerco di allontanare i pensieri dalla mia mente, cerco una distrazione sui muri e sui cartelli appesi. Raggiungo il terzo piano, l’oscurità mi fa tremare, due o più luci sono spente.

    Non fare la vigliacca Eva. Dormirò meglio qui, no? I brividi mi percuotono la schiena. No. Qui non ci sto.

    Continuo la salita, raggiungo l’ultimo piano. Le stelle illuminano il buio. Sospiro. Le nuvole grigie in lontananza cercano di distruggere il quadro di perfezione sopra la mia testa. Il cielo immobile e illuminato delicatamente mi dona una leggera speranza. C’è sempre una piccola luce al di là del tunnel buio. Sorriderò anche io prima o poi.

    Mi guardo intorno, tutto è così fottutamente immobile da rilassarmi ulteriormente. Qui non potrà accadere nulla di tremendo. A casa avrei assistito ad altre effusioni vigliacche. Che stupida giustificazione: «Non devi prenderla a male Eva, non è un estraneo Luca: è il tuo vero padre».

    Poi qualcosa improvvisamente si muove, catturando la mia attenzione. Qualcosa di chiaro, distante una ventina di metri da me. Una sagoma, una sagoma chiara, con braccia e gambe. Inizio a tremare, il cuore mi sale in gola. Stringo le mani sul manubrio, mi preparo a salire in sella per fuggire…

    Il ragazzo, con la sua camicia bianca, dondola sul bordo del muretto, sul limite del vuoto di cinque piani.

    Alza un braccio, nella mano stringe una bottiglia trasparente. La porta alla bocca, beve una gran sorsata e poi la getta nell’aria davanti a lui. Barcolla ancora.

    Atterrita, non so come reagire. Mi abbandono all’impulsività, lascio cadere la bici e inizio a corrergli incontro.

    Nell’attimo in cui sta per lasciarsi andare nel vuoto sotto di lui, afferro la sua camicia. Lo tiro verso di me, come un pugno mi viene addosso.

    Quasi come se volesse salvarmi dal suo peso si spinge di lato verso il pavimento. Perdo l’equilibrio e cado insieme a lui. Un tonfo sordo mi fa capire che ha sbattuto la testa contro il cemento.

    Terrorizzata lo guardo tremante. L’ho salvato? O con questa botta alla testa l’ho fatto morire comunque?

    Disteso sulla schiena si contorce piano. Poi tra un rantolo e l’altro muove piano la mano per raggiungere il punto colpito. Piange. Guardo il suo viso afflitto dal dolore.

    Puzza di vodka.

    Mi avvicino a lui, senza rendermene conto gli sfioro il viso.

    «Ci sei?»

    Mi afferra la mano e la stringe, poi pare svenire. Impietrita non riesco a smettere di guardarlo. È morto stringendomi la mano? L’ansia mi invade. Afferro il cellulare dalla borsa, sconvolta non ricordo nemmeno il numero delle emergenze. Qual è?

    Torno a guardare il ragazzo. È giovane, avrà sì e no la mia età.

    Scorro la rubrica del cellulare, 118. Chiamo.

    «Sono nel parcheggio multipiano di Porto Mantovano. Un ragazzo ha cercato di… buttarsi giù. È svenuto, io l’ho spinto a terra, ha battuto la testa e puzza di vodka. Non so cosa fare, vi prego, siamo all’ultimo piano. Raggiungeteci al più presto. È…»

    La sua mano si muove fino ad afferrare l’altra mia mano libera. La stringe. L’anello sul suo pollice mi sfrega la pelle disidratata dal freddo. Sulla parte superiore dell’anello c’è un’incisione: A Dylan

    «Va bene, aspetto qui…» Chiudo la telefonata.

    «Senti, io non ho idea di chi tu sia. Ma lasciati dire che sei un deficiente, Dylan.»

    Riccardo

    Alzo gli occhi al cielo. Il cielo di Verona è luccicante. Le stelle e la luna illuminano tutto il nero di cui sembra essere fatto di notte il nostro tetto.

    Porto la sigaretta alle labbra, inspiro potentemente fino a sentir la gola bruciare. Perché continuo a ciondolare per le strade?

    Arrivo in piazza Bra e, come un qualsiasi turista, mi volto a guardare l’Arena. Questa costruzione mi sorprende sempre. Così maestosa e gloriosa. Eppure non la guardo mai abbastanza e con la giusta attenzione.

    Quante volte l’ho vista negli ultimi anni? Almeno tre volte al giorno, ogni giorno.

    Raggiungo una delle panchine verdi poste di fronte ai ristoranti, vicino ai giardinetti. Mi siedo su quella centrale. Osservo le persone che mi passano davanti e quelle sedute ai tavoli dall’altra parte della strada. Chissà com’è che sembrano sempre gli stessi: la coppia mal assortita, i quattro turisti tedeschi, due genitori e due figli, sempre felici e sempre rilassati… Non ho mai visto una famiglia tedesca litigare in vacanza.

    Poi, adocchio una famiglia che a prima vista sembra italiana; lei mora, bella, ma non curata, la maglia delle belle occasioni vecchia di chissà quanti anni, i capelli lisciati, ma abbandonati a se stessi, tutta nervosa perché il figlio la fa dannare e il marito è impegnato a smanettare col cellulare… Chissà perché poi. Ecco, lui mi fa ridere. Con il riporto laterale, la camicia che gli sta stretta, jeans vecchi di dieci anni e scarpe mal abbinate. Mi fa ridere perché penso a quanto si senta ancora interessante, molto più della moglie; almeno questo dà a vedere.

    E io, sinceramente, con la moglie ci andrei.

    Distolgo lo sguardo. Devo smetterla di allontanare i miei pensieri con questi discorsi inutili.

    Domani dovrò tornare a Mantova. E per me è una tragedia.

    Questa è la mia ultima notte qui e non ho voluto nessuno con me. Ho rifiutato feste con amici, cene strappalacrime, una partita a calcetto, una notte di sesso con la mia… con Veronica. Veronica, la donna incomprensibile per metà, e a me va bene così. Dopotutto è una non relazione; andiamo a letto, non c’è amore tra noi, tranne forse che per lei, per un piccolo punto, insignificante. Afferma ogni volta di essere innamorata del contrasto che creano i miei occhi blu con i capelli neri, e del mio corpo. Ma tra noi non c’è altro. Di lei non ho bisogno, almeno non stasera. Quando si sta così male neanche il sesso riesce ad aiutare.

    Non voglio nessuno, penso che nessuno sia in grado di fare qualcosa. Preferisco affogare la disperazione nella solitudine.

    Devo sostituire un posto vacante nella caserma di polizia lì, a Mantova. Praticamente è un trasferimento d’autorità.

    Proprio lì. A Mantova. La città in cui sono nato, da cui sono fuggito, in cui non sarei voluto mai più tornare.

    Mantova è stata la città che ha distrutto la mia adolescenza e che mi ha indirizzato a questa carriera.

    La città in cui mia sorella Margherita è morta, a nove anni, legata, percossa, violentata e abbandonata a un lento spegnimento.

    Ad appena diciassette anni ho dovuto comprendere tutto questo. E dopo nove anni ancora non sono riuscito a elaborare che la colpa non è mia. Se l’avessi accompagnata io a scuola, non sarebbe successo, ma quel giorno io a scuola non volevo andarci e ho lasciato che lei facesse l’ultimo tratto di strada da sola. Altre volte era già successo. Facevamo lo stesso percorso, le nostre scuole erano una di fronte all’altra, quindi i miei genitori lasciavano che l’accompagnassi io in autobus. Non mi era mai pesato, io stravedevo per lei, la mia piccola sorellina.

    Accendo un’altra sigaretta. Finiscono troppo alla svelta queste bastarde, in queste occasioni.

    Arrivati alla fermata le dissi di scendere, avrebbe dovuto fare solo cinque minuti a piedi. C’erano altri studenti, credevo di potermi fidare.

    Non è mai arrivata a scuola, non è più tornata a casa.

    In quei cinque minuti non si è mai capito cosa sia successo. È stata ritrovata un mese dopo, in un sottoscala abbandonato in quella zona. A un minuto di distanza dalle nostre scuole.

    Ricordo ancora come se fosse accaduto ieri tutto quello che ho fatto io quella mattina. Nella prima ora dopo aver abbandonato mia sorella sono stato in un bar lì vicino, a bere spritz e mangiare patatine, poi ho giocato a briscola con altri miei compagni di classe, tra cui la mia ragazza dell’epoca, Sara. In quattro avevamo saltato la scuola quel giorno.

    Nella seconda ora dopo averla abbandonata ero insieme a loro a fumare la prima canna della mia vita su un muretto nella zona di Piazza Virgiliana, lontanissimo dalle nostre scuole.

    La terza l’ho passata a ridere della forma delle gomme da cancellare.

    La quarta mi sentivo affamato, da solo ho fatto fuori tre panini con la porchetta in un bar lì vicino, con Sara.

    La quinta iniziavo a sentirmi preoccupato, l’effetto dell’erba faceva fatica ad andare via, ogni tanto sentivo ancora il viso tirare per colpa del sorriso da coglione.

    Ho dimenticato mia sorella e insieme agli altri sono tornato al mio paese. Forse avevo dato per scontato che Margherita sarebbe tornata da sola.

    Arrivato a casa i miei genitori ci aspettavano a braccia conserte, si aspettavano di trovare accanto a me Margherita, e invece c’era Sara, con il viso pallido e gli occhi lucidi.

    Mia madre aveva chiesto alle scuole di avvisare nel caso di assenza, i miei genitori per tutta mattina ci avevano cercati.

    Mio papà mi afferrò per il braccio e mi tirò in casa.

    «Sei pazzo? Hai portato tua sorella in giro? Mio Dio! Puzzi di erba… hai fumato? Guardami in faccia!»

    E mentre lui esaminava con disprezzo le sfere arrossate dei miei occhi, mia madre iniziava a urlarmi contro, chiedendomi dove fosse Margherita. Sara fuggì via senza nemmeno salutarmi.

    Forse quella è la parte che ricordo meno. Mio padre mi riempì di botte in quei minuti, e al momento credevo fosse perché avevo fumato, non perché Margerita non era lì con noi, a causa mia.

    Gli assassini non furono mai trovati, i miei non sapevano a chi dare la colpa e quindi la diedero a me.

    Da allora tra noi cambiò tutto. Non c’era momento in cui i miei genitori non mi disprezzassero.

    Quel giorno morirono due figli. E io qualche anno dopo fuggii, metaforicamente, nella polizia, non riuscivo più a sostenere la vita in quella famiglia.

    Mia madre mi ignorava, era troppo impegnata a imbottirsi di calmanti. Credeva di essere diventata una medium, poiché era convinta di vedere ancora Margherita, e io, condizionato da lei, quasi ogni notte vedevo mia sorella camminare per casa.

    Mio padre mi odiava e basta.

    9 gennaio 2008

    Eva

    «E così tua sorella ha fatto la spia…» dico a Dylan senza nascondere un velo di piacere.

    La sorella di Dylan, Elena, lo ha quasi obbligato a cercarmi su Facebook. Come lui mi ha riferito, lei mi ha descritto come una ragazza adorabile, anche se in realtà non mi ha vista quella sera. Da quello che ho potuto capire, l’uomo che frequenta era uno della croce rossa; ha riconosciuto Dylan, ha conosciuto me, ha raccontato tutto a Elena, e lei, che è una tipa un po’ particolare, con idee strambe sul destino e sull’oroscopo, mi ha descritto al fratello come il suo angelo custode. Da conoscere assolutamente.

    «Come ti ho già detto, è stato il suo ragazzo…»

    Poi mi sorride. Ha un viso particolarmente bello, forse sono i suoi occhi a creare una specie di dipendenza dal guardarlo. Sono intensi e colorati di luce, scuri ma lucidi. Le ciglia nere e le palpebre leggermente ombrate rendono lo sguardo ancora più irresistibile. Come il suo sorriso. Sembra un’altra persona; e pensare che se non lo avessi afferrato in tempo, questo sorriso non lo avrei mai visto.

    «Eva, non so come ringraziarti. Ero fuori di me, ubriaco marcio e immerso nei pensieri più schifosi che possano esistere. Mi dispiace per quello che hai visto».

    Mi mordo le labbra agitata. Se non avessi pedalato più rapidamente, innervosita dai miei pensieri, non lo avrei mai salvato. Tutto ciò che di orrendo è successo nella mia vita sembra sia dovuto accadere solo per arrivare a questo. Per salvare la vita a questo ragazzo bellissimo che, preso da chissà quale diavolo, aveva deciso di perder l’unica cosa che gli era mai davvero appartenuta, la vita.

    Dovrei rispondergli ma non ho idea di cosa dire.

    Lui mi afferra la mano con una sicurezza disarmante, e ancora il suo anello mi sfiora la pelle.

    «Grazie.»

    Annuisco, mangiandomi ancora di più il labbro inferiore. Fa per andarsene. Ma come? Ci siamo appena incontrati! Per questo appuntamento ho movimentato tutte le mie tre migliori amiche, annullato impegni di studio, distrutto una camera, ingarbugliato un armadio e lui già se ne va?

    Sbuffo dentro di me sentendomi una merda, insicurezza di merda. Stupida illusa di merda.

    Ti aspettavi davvero che tutto andasse secondo le tue aspettative? Ti aspettavi davvero che mentre in chat ti raccontava dei castelli mentali di sua sorella stesse davvero parlando di te come della sua anima gemella? Ricordati di quanto ti sentissi un insulso topo nel guardare le foto sul suo profilo. Un insulso topo. Con labbra troppo grosse, un naso troppo appuntito e arrotondato allo stesso tempo, un fisico da taglia M –sì perché la mamma ti ha fatta con le forme, mentre le altre sono magre e basta– e tanta voglia di sistemarti i capelli quanta ne ha un topo di farsi la manicure. Un topo di fogna.

    «Eva? Che fai? Resti lì?»

    Mi volto a guardarlo interdetta. Mi regala un sorriso da mozzarmi il fiato.

    Forse non sono proprio un topo come pensavo.

    10 Gennaio 2008

    Eva

    Ci sono tutte e tre le mie migliori amiche, Ania, Cristina e Chantal. Si sono posizionate davanti a me, al di là del tavolo del bar. Quasi fosse un interrogatorio, sarò sottoposta a una raffica di domande.

    «È figo come nelle foto?» chiede la seconda, Cristina. I suoi capelli marroni sono legati in una coda di cavallo, la sciarpa voluminosa le copre i segni di una notte di sesso con il suo amico. La sua filosofia è: se vuoi nascondere una cosa, mettila bene in mostra. Oggi, quindi, si è legata i capelli, convinta che nessuno penserà mai che sul collo abbia dei succhiotti; al massimo che non si sia lavata i capelli e che abbia un po’ di mal di gola.

    Inizialmente io e lei ci odiavamo, ora la nostra amicizia è mediamente forte; battibecchiamo spesso solo perché siamo molto simili…

    «Le foto non rendono» rispondo senza nascondere un tono malizioso. Mi sento gasata, ho conosciuto un ragazzo bellissimo solo grazie al mio destino contorto.

    Ania risponde con un ululato ridicolo, Cristina le dà una gomitata nello stomaco. Ania a mio parere non è una bellissima ragazza, ma può piacere. Ha i capelli rossi, mossi, e un naso leggermente in disarmonia con i suoi lineamenti. Ma ciò che distrugge la sua figura è soprattutto l’eccessiva magrezza. È alta quanto me, ma a differenza mia, non ha nessuna forma da mostrare. Ai ragazzi piace forse per la sua bellezza inusuale: i capelli sono in sintonia con gli occhi di un colore particolare, un marroncino chiarissimo, la sua pelle chiara è ricoperta solo sugli zigomi da leggere lentiggini. L’unica cosa positiva del suo fisico è che può indossare tutto ciò che le piace e fare la sua figura.

    «Sì, ma… gli piaci?» chiede ancora lei, mettendomi subito in difficoltà.

    «Probabilmente… Mi ha chiesto di restare in contatto.» Tutte e tre tacciono interdette.

    «Siamo stati insieme tutto il giorno, fino alla sera, mi ha portato a casa poco prima di cena.»

    «Com’è che si chiama?» chiede Chantal; è una tipa silenziosa, parla solo al momento giusto. È quasi perennemente immersa nei suoi pensieri, spesso ho provato a entrarci, mal riuscendoci. Si confida molto poco con noi, inizialmente la richiamavamo per questo, poi abbiamo capito che lei è fatta così. Si confida solo quando esplode, quando i pensieri iniziano a mangiarle l’anima. Ci chiama, anzi, chiama una di noi, ne parla con lei e poi da lì chiama le altre, pian piano.

    Mi mordo il labbro quando torno a pensare a Dylan.

    «Dylan Fusari. Adoro anche il suo nome. A pensare a lui sento la mente consumarsi. Ho cercato di ricordare così tanto il suo viso in queste ore che non ricordo già com’è. E la cosa mi strazia. Mi ha detto di restare in contatto, eppure non ci siamo scambiati nemmeno i numeri di cellulare. Ieri sera dopo cena l’ho visto online nella chat di Facebook, ma non mi ha scritto, ha condiviso due frasi strane sul senso della vita e poi basta» sbuffo. «Ci sono rimasta di merda. Io non riesco a tirarmelo via dalla mente. Ho memorizzato già la morbidezza della sua mano, la forma del suo anello e il suo profumo. Il suo modo di pronunciare con morbidezza le parole e…»

    «Frena, frena…» Ania blocca il flusso delle mie parole.

    «Ricordati che è un mezzo pazzo, bellissimo sì, ma un mezzo pazzo.» Cristina annuncia la sua sentenza: da eliminare. «Non lasciarti suggestionare da quello che è successo.»

    «Sei solo gelosa perché non lo hai conosciuto tu. Esattamente come con Paolo, ti stai comportando alla stessa maniera!» le urlo addosso. Mi altera quando cerca di comandarmi.

    «Ah! Che peccato! Anche io avrei voluto una storia così piacevole! Dopotutto è sapere comune che Paolo Restani sia la persona più dolce e tranquilla al mondo» mi risponde lei con sarcasmo.

    «Eva, non dire stupidate. Paolo era un mostro, tutte lo sapevamo, tu non volevi aprire gli occhi» dice Ania.

    Chantal la guarda di sbieco e si prepara alla risposta: «Ania, prima che Paolo facesse del male a Eva avevamo tutte un debole per lui. È che Cristina non era molto amica di Eva e ci aveva provato… e Cristina non dire di no».

    Paolo è il mio ex ragazzo, ed è colui che ha distrutto il mio senso dell’amore. Ero una ragazzina quando l’ho conosciuto. È stato il primo e unico ragazzo. Ricordo ancora come fosse oggi l’incredulità nell’essere stata scelta da lui. Lui che non aveva mai voluto una storia seria, voleva da me quello che tutte le altre ragazze che erano passate fra le sue mani avrebbero desiderato. Poi, con il passare del tempo, tutto si è distorto; voleva obbligarmi ad avere rapporti sessuali, mi ha tradita ripetutamente e spesso picchiata. Mi sono sentita una nullità con lui. Mi aveva portato lontano da ogni cosa, da ogni persona che potesse sentirmi urlare, e lontano dai miei sogni da bambina.

    Quel giorno, quando lo vidi arrivare fuori casa mia in macchina, tremai nel vederlo, non aveva ancora diciassette anni, perché rischiare così tanto per andare a prendere un gelato?

    Mi obbligò a salire in macchina, era nervoso, arrabbiatissimo. Non potevo parlargli, non lo avevo mai visto così, aveva il viso rosso di rabbia, gli occhi sembravano bruciare. Mise la musica ad alto volume, guidava in maniera spericolata, senza rispettare alcuna regola stradale. È stato un dispetto verso suo padre rubare la macchina, mi dissi, sicura che avesse avuto una discussione con lui. Poi si immise in una strada di campagna buia, spense i fanali e ci ritrovammo nel nulla.

    Non disse nemmeno una parola, mi afferrò per il braccio e mi obbligò ad andare nei sedili posteriori. A quel punto sembrava che il mondo si fosse fermato per ascoltare le mie urla.

    Tentò di violentarmi. Resistetti, lo picchiai, mi malmenò, ma riuscii a difendermi. Non ottenne quello che voleva. Poi, senza dirmi un parola, mi lasciò piangente sui sedili posteriori, tornò al posto di guida e mi riportò a casa.

    Fermi davanti al cancello, con la macchina ancora accesa, aspettava che me ne andassi.

    Entrai in casa ed evitai Claudio e mia mamma, mi rinchiusi in camera e piansi tutta la notte. Continuavo a chiedermi se ero ancora vergine o no, se quella poteva essere reputata come prima volta. Non mi aveva violentata o, almeno, non ci era riuscito, ma quella notte mi sentivo diversa.

    Lo rividi a scuola due giorni dopo, non mi salutò. Poi un giorno della settimana seguente mi chiese di vederci per parlare, e lì mi chiese scusa, non voleva che finisse tra noi. Lo perdonai, per l’intero mese successivo cercò di ricostruire quella che era la nostra storia, ma le sue intenzioni svanirono presto e di nuovo mostrò la sua vera essenza. Cercò di violentarmi ancora e riprendendo poi coscienza mi baciava sulle labbra con dolcezza, come per chiedermi perdono immediato oppure giustificare il tutto in nome del desiderio e dell’amore.

    «Il passato deve restare tale. Io voto per Dylan. Chiedigli come sta appena torni a casa» termina poi Chantal. Io annuisco, allontanando i brutti ricordi.

    Capitolo 2

    11 gennaio 2008

    Eva

    Mia madre e Luca ridono nell’altra stanza. Lei ride come non ha mai fatto prima. Lui le dice qualche frase stupida e lei ride. Chissà perché ride. Come è possibile che si sia dimenticata di Claudio?

    Che stronzata, lei non lo ha mai amato. Ha sempre finto. Come si può sentire la mancanza di una persona che non si ha mai amato?

    E se gli avesse voluto solo bene? Anche quando si vuole bene a qualcuno si sente la mancanza, no?

    Oppure la mancanza si sente quando qualcuno ti fa star bene? Mio papà, Claudio, a me manca da morire. Durante le vacanze ogni mattina si presentava in camera. Si metteva nel mio letto. E giuro, odiavo ormai quell’abitudine. Mi voleva sentire vicina al suo cuore, perché io ero il suo cuoricino.

    Quando ero bambina non vedevo l’ora di svegliarmi e ritrovarmi fra le sue braccia. In una stretta di amore e calore. Poi sono diventata grande, ho avuto a che fare con i ragazzi e ho iniziato a odiare che mio padre mi abbracciasse.

    Solo ora mi rendo conto di quanto quegli abbracci fossero importanti.

    Poi, un giorno, è tornato a casa dal lavoro e ha trovato Luca vicino alla tavola che lui aveva comprato per noi. Non sapeva nemmeno chi fosse, anzi, penso l’avesse preso per un barbone anche lui… o almeno questa era l’idea che mi ero fatta io nel vederlo.

    Mi obbligarono a restare in cucina con loro. Ricordo che avevo un appuntamento con Paolo e non potevo tardare mai con lui. Già immaginavo le urla che mi avrebbe tirato addosso, se solo avessi tardato di qualche minuto.

    Mia mamma mi ha tenuta ferma sulla sedia, le sue mani stringevano sulle mie spalle.

    «Claudio, dobbiamo parlare» disse.

    Lui guardò Luca e poi me, chissà quale idea orrenda gli spuntò in quel momento in testa.

    Come proseguì il tutto? Fu mia madre a parlare, scaricava la tensione sulle mie spalle, questo lo ricordo bene.

    «In verità, sedici anni fa…» Si fermò, forse sperando che quella frase bastasse. Ma la mente di Claudio non poteva permettersi di fare viaggi così dolorosi.

    «Eva non è tua figlia.»

    Concluse così, mi pare, in modo secco e diretto.

    Claudio aveva in mano qualcosa, gli cadde. Mi chiedo come apprese così facilmente la notizia, con sicurezza, come se l’avesse sempre dubitato. Io tutt’ora mi chiedo se io non sia veramente sua figlia; forse desidero così tanto esserlo che cerco di nascondere l’evidenza anche a me stessa.

    Eppure, forse se lo aspettava. Troppe battutine sul postino nell’arco degli anni. Lui rosso di capelli, mia madre mora, io ho sempre avuto capelli neri come la pece. La loro pelle bianca e candida, la mia olivastra. Forse si giustificava con tante teorie sulla sesta generazione, forse in passato qualcuno in una delle due famiglie aveva avuto influenze ispaniche o mediterranee.

    Io ero lì davanti a lui, immersa nei miei capelli neri, con le mie labbra carnose e i miei occhi scuri. Poco distante, un uomo così simile a me.

    Mi fa schifo pensare quanto io e Luca ci assomigliamo.

    Mia madre ride ancora. Luca le ha fatto altri regali oggi, sempre per il suo compleanno di pochi giorni fa; quest’anno ha compiuto trentadue anni, Luca fra qualche mese ne compirà quarantatré. Più guardo la loro relazione e più ho l’impressione che lei non pensi minimamente a me. Spesso la sento parlare al telefono con le sue amiche e mi sembra di ascoltare una mia qualsiasi conversazione con Ania. Sembra essere tornata all’adolescenza, per lei la storia con Luca è aria pura, adrenalina. Una volta l’ho sentita dire che quella vita, quella con Claudio, era deprimente, si sentiva vecchia voleva vivere, e Luca era il bastardo di cui aveva bisogno. Dopotutto è il vero padre di Eva, aggiungeva a ogni frase, non so se per giustificare la sua scelta egoista di tornare con quell’uomo o se per mostrare che qualcosa per me lo stava facendo.

    Come fa a ridere dopo avere distrutto la vita all’uomo che ha vissuto quindici anni con noi? L’uomo che mi ha cresciuta. Probabilmente a lei di lui non è mai fregato nulla; voleva solo uno da incastrare e Claudio era caduto a pennello. Lei era troppo giovane per dire ai suoi di aver fatto sesso con un venticinquenne, aveva solo quattordici anni. Claudio era il suo vicino di casa, bellino, anche se non tanto quanto lo era Luca al tempo. Luca girava in macchina, aveva un lavoro e un fascino tutto suo. Claudio era all’ultimo anno di liceo, con un vestiario trito e ritrito dai suoi fratelli e l’acne protagonista assoluta del suo viso.

    Non ho mai capito come abbia fatto a far quadrare i conti, ma probabilmente aveva rapporti con entrambi, non mi sorprenderebbe. D’altronde per sedici anni ha poi proseguito con quello stile di vita saltando da un uomo all’altro, no?

    Come può essere mia madre? E come può Luca essere mio padre?

    All’ennesima risata dei miei mi invade il nervosismo.

    Mi cambio velocemente, quando passo per il corridoio sento uno strano odore dolciastro. Assomiglia alla puzza del fumo di uno spinello. Cristina ne aveva fumato

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