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La voce di un incubo
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E-book238 pagine3 ore

La voce di un incubo

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Info su questo ebook

Weird - romanzo (184 pagine) - Quando il cuore smette di battere si possono ancora avere degli incubi.


Quando il cuore smette di battere, il cervello vive ancora per pochi secondi. In quel breve frangente, si può ancora sognare. E avere incubi.

Giacomo si trova nella terra di nessuno, in compagnia delle sue paure, affacciato alla finestra dei suoi ricordi.

La mano fredda della morte è poggiata sulla sua spalla e voci inquietanti gli sussurrano all'orecchio, esortandolo a varcare la soglia del buio.

Lui è convinto che continuando a sognare possa sfuggire al suo destino. Ma ciò che vede è solo il frutto della sua immaginazione. Oppure c'è dell'altro?


Marco Toffanin è nato a Desio nel 1977 e vive a Casatenovo, in provincia di Lecco. Una laurea in economia arrivata in un’altra vita, ha cambiato tanti lavori, ma non ne ha mai amato nessuno. Dal falegname al magazziniere, all’impiegato commerciale, al ragioniere, è costantemente alla ricerca di quello che non esiste. Non ama nemmeno i social, e non è social.

La voce di un incubo è il suo primo romanzo. Forse un modo per descrivere il niente.

LinguaItaliano
Data di uscita12 lug 2022
ISBN9788825421163
La voce di un incubo

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    Anteprima del libro

    La voce di un incubo - Marco Toffanin

    C’è un breve frangente che separa il sonno dal risveglio,

    la finestra tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

    Oltrepassato quel confine, esiste soltanto il buio.

    1

    Quando mi sono impiccato non sono morto.

    Mi sono risvegliato in una stanza bianca, in compagnia delle mie paure. Questo è soltanto un breve passaggio, lo so. È una trasformazione, la transizione da tutto a niente. Sono affacciato alla finestra dei miei ricordi, confusi, con la mano fredda della morte che mi spinge verso la porta blu, verso il buio. Qui il tempo non esiste, e in un battito di ciglia si può sognare. E avere incubi. Ci puoi restare quanto vuoi, nella stanza bianca, e puoi tenere gli occhi aperti.

    Quando mi sono impiccato non li ho chiusi. La corda mi ha spezzato il collo e non posso più tornare indietro, questa e l’unica cosa certa.

    Il resto è soltanto un parlottio sommesso e vigliacco.

    – Chiudi la finestra – dice il mio volto nella penombra. – Nel pozzo non esiste la speranza.

    Ero bambino. Urlavo con gli occhi aperti, e leggevo le parole al contrario.

    Sento il braccio destro informicolato, sotto il cuscino.

    – Quello che vedi è il tuo passato – afferma nuovamente quel viso codardo, mentre fugge.

    Credo di avere ancora una coscienza.

    – Non puoi restare nella stanza bianca per sempre – ribadisce un’altra faccia, smagrita e pallida, mentre l’eco della mia voce si propaga come lo strillo acuto di un bimbo sotto un portico.

    Non è ancora il momento di andare, rispondo. Ho gli occhi aperti. Non li ho chiusi, non ancora!

    Con chi sto urlando?

    Molte persone parlano da sole. E litigano, spesso.

    Non riesco più ad uscire da questo reiterarsi di discussioni con i miei stati d’animo. E di incubi. Forse dovrei tornare in analisi dallo psichiatra, il ciccione con le occhiaie. Somigliava a un panda.

    – Stai prendendo le tue medicine?

    Il tic-tac dell’orologio a pendolo appeso al muro accompagna la mia attesa nella stanza bianca. Vorrei chiudere gli occhi, sono stanco, le mie palpebre sono pesanti. Lacrime di sudore gli rigano il viso tozzo e paonazzo, gocciolando come cera sul ripiano in pelle della sua scrivania. Anche lui, il panda-psichiatra, mentre mi parla senza guardarmi negli occhi, crede che la mia situazione sia irrecuperabile. Chissà cosa pensano gli altri di me. Sicuramente parlano alle mie spalle. E ridono, di me. Mi sento diverso, fuori luogo. Anche qui, nella sala d’attesa della morte. Mi sembrava tutto così reale, ma ora non ne sono più sicuro. Forse mi sforzo di ricordare una cosa che non è successa.

    – Ti sei buttato – mi dice. – Ti ricordi?

    La mia voce colpisce con violenza le pareti umide di una caverna, restituendo un nuovo incubo. E poi un altro. E un altro ancora.

    – Ti stanno osservando, anche qui…

    Ossessioni. Il risultato della mia insicurezza. Mi accompagnano da una vita. Sono sempre pronte a sussurrarmi cosa devo dire, come devo dirlo e come devo pensare. Non posso essere come voglio perché mi confondono e mi fanno prendere le decisioni che vogliono loro. È un’inerzia psicologica che mi fa rotolare sempre nello stesso imbuto di paure e insicurezze. Alle mille facce delle mie personalità interessa solo che io abbia paura, perché è la mia paura che le rende forti. Sono volti vigliacchi, cercano di insinuare in me dubbi e poi fuggono.

    Parassiti. Amici immaginari.

    Li ho creati da bambino, e non vogliono mai lasciarmi solo, perché sanno che sono stato abbandonato. Le loro voci sono come corvi che gracchiano in lontananza. Sono il frutto della mia fantasia, sono solamente nella mia testa. Ma le facce di pietra no. Quelle sono reali, sono qui con me. E sono orrende.

    – Sei sicuro di quello che vedi? E di quello che senti?

    Quando il cuore cessa di battere, il cervello continua a vivere per un breve periodo. Sono prigioniero di quel frangente, ma posso fermare il tempo. Posso viaggiare con la memoria, posso volare sopra vallate, boschi e distese erbose, posso sentire i profumi, scivolare sull’arcobaleno e abbracciare le emozioni come non ho mai fatto prima. Posso percorrere i sentieri che conducono alla cima, dove c’è sempre la luce e non esiste il buio.

    Posso ancora sognare, e sfuggire alla morte. La sua mano fredda è ancora poggiata sulla mia spalla, e il suo alito rivoltante mi avvolge il collo come una sciarpa.

    La porta blu è aperta.

    2

    Il sentiero per la cima inizia proprio dietro l’hotel.

    Bordato sulla destra da una recinzione di legno e con il fondo perfettamente lastricato, si inerpica gradualmente verso il bosco di faggi e abeti rossi, costeggiando sulla sinistra una vecchia baita costruita con pietre di montagna e legno, ormai abitata solo da una colonia di gatti.

    L’hotel è un vecchio fienile ristrutturato, posizionato all’interno di una piccola valle bordata da cime innevate. I gerani rossi che fanno da ornamento ai balconi, spiccano sul bianco delle facciate. Tulipani colorati delimitano i bordi del vialetto di ingresso, costituito da pavimentazione in beole. Formano anche piacevoli aiuole e cespugli talmente fitti che quasi nascondono il trattore arancione del dopoguerra fermo in giardino, proprio sotto una quercia secolare.

    Sento una mano fredda poggiata sulla spalla destra. Da morto posso solo ricordare l’odore piacevole dei fiori.

    Alla destra del vialetto d’ingresso, oltre la recinzione in legno del giardino, c’è una piccola porzione di terreno delimitata da alcuni paletti che ne stabiliscono il confine. Adagiata sul versante della montagna, è perlopiù incolta, ma con una striscia larga pochi metri perfettamente arata. Grandi pezzi di terra grassa sollevati uno dopo l’altro dall’azione di una zappa, forse proprio quella appoggiata alla quercia e probabilmente utilizzata dall’uomo in camicia a scacchi verde e nera che sta tagliando la legna, utilizzando come base un ceppo di fianco al trattore.

    Con le sue mani enormi e forti come morse, prende ogni singolo pezzo di legno, lo appoggia al ceppo e lo taglia con un colpo netto di ascia. Ad ogni colpo, gocce di sudore si lanciano dal volto dell’uomo svolazzando in aria prima di ricadere sull’erba appena tagliata.

    Sto osservando un orso bruno dallo spioncino della porta blu.

    Respiro profondamente.

    Ricordo.

    Il tic-tac del metronomo del mio psichiatra mi colpisce alle tempie, risuonando nel cassetto della mia memoria.

    Il rumore del ciocco di legno posizionato sul ceppo e del colpo secco dell’ascia che lo taglia perfettamente a metà è il ritmo che mi accompagna da quando sono arrivato, circa dieci minuti fa, con la mia utilitaria rossa, un po’ vecchia ma ancora perfettamente funzionante. Quel suono ipnotizzante riconduce i miei pensieri al viaggio che ho intrapreso per venire fin qui, in questo luogo isolato e lontano da tutto, dove il tempo non esiste, non scorre, le lancette sono ferme. Il vento non soffia, la brezza non mi accarezza la pelle, non sento i profumi, non sono vivo.

    Ma nemmeno morto.

    Sono nel mezzo.

    Posso immaginare, ricordare, rivivere le mie emozioni all’infinito. Posso tornare indietro, riavvolgere il nastro e farlo ripartire in un sogno.

    La strada taglia a metà la campagna, principalmente coltivata a granoturco e con qualche piccolo bosco di latifoglie che separa i vari appezzamenti di terreno. È noiosamente piatta fino alla salita, che mi porterà alla mia destinazione. Dapprima lentamente e poi sempre più ripidamente, la strada si inerpica in quattordici tornanti, sette a destra e sette a sinistra, e attraversa folti boschi di conifere.

    Un sogno vissuto dal parabrezza della mia auto.

    La vegetazione è talmente fitta che i rami degli alberi non solo si intrecciano con quelli del fusto a fianco, ma anche con quelli delle piante che si trovano dall’altro lato della strada. Gli alberi scorrono a destra e a sinistra senza soluzione di continuità, tanto che sembra di essere all’interno di una galleria, con le pareti che sfoggiano una moltitudine di colori in continuo cambiamento, come se migliaia di foglie stessero cadendo dai rami degli alberi mostrando tutti i colori dettati dal susseguirsi delle stagioni. Un tunnel infinito dentro l’arcobaleno, dove il tempo non esiste, si comprime, si riduce ad un’unica pennellata coinvolgente, scatenando in me emozioni contrastanti, le quali amplificano e palesano il mio equilibrio precario sulla corda sottile tra felicità e angoscia. La paura irrazionale di esser chiuso in questo tubo naturale entra in conflitto con l’allegria provocata dai colori luminosi e cangianti.

    Questo è il tunnel cieco delle mille voci.

    Proprio nel mezzo della galleria, passo accanto ad un cartello di pericolo attraversamento animali selvatici, un po’ arrugginito e piegato verso l’esterno nella parte superiore, proprio sulla punta del triangolo. La strada è una striscia di asfalto larga sei metri che taglia in due il bosco. Ettari di alberi sradicati e vegetazione spianata, flora e fauna distrutta per far circolare scatole di metallo e plastica come quella in cui mi trovo adesso.

    Le persone sono cattive.

    Mi hanno rinchiuso in questa stanza in attesa della fine, e mi spingono a correre con la fantasia, su questo nastro di asfalto, proprio per fuggire lontano da loro, attraversando un tunnel, verso il buio.

    Le stesse persone che adesso mi suggeriscono di stare attento perché animali selvatici potrebbero attraversare la strada, a casa loro. Fanno anche del sarcasmo…

    Mentre sono immerso nelle mie considerazioni, finalmente esco dal tunnel ed entro in un piccolo paese, di cui non c’è nemmeno il cartello a segnalarne il nome. È formato perlopiù da case vetuste e fienili anticamente ristrutturati, ora adibiti solo a magazzini per attrezzi agricoli. Intravedo qualche negozio e poche persone in giro, esclusivamente anziane.

    Una vecchia signora sta spazzando calcinacci da un marciapiede malridotto davanti all’ingresso di casa. Mollette colorate pinzano lenzuola bianche e bordate con pizzi ricamati probabilmente da lei stessa, stese sul davanzale del piccolo balcone di metallo arrugginito. Ondeggiano lentamente mosse dal vento, proprio sopra la sua testa.

    – Immagina qualcosa di rilassante – mi suggerisce il panda ciccione, seduto sulla sua poltrona in pelle.

    L’esplosione dell’hotel, rispondo. I detriti che arrivano fin qui.

    Stranamente, dato che non vedo nessuno in giro, un semaforo pedonale segna rosso e mi devo fermare. Intorno a me non c’è neanche una persona in bicicletta, un’auto che circola o un pedone che deve attraversare la strada.

    Deserto.

    Mi solletica l’idea di partire lo stesso, anche se non potrei, ma preferisco aspettare il verde, tanto non ho fretta. Guardandomi intorno, noto un gallo all’interno di un piccolo spazio delimitato da un rete di metallo arrugginita, che una volta deve essere stata di colore verde, proprio a ridosso della statale. Se è vivo, vuol dire che qualcuno gli porta da mangiare e si prende cura di lui. Se è vivo, vuol dire che qualcuno abita ancora in questo posto situato all’interno di un arcobaleno, protetto in un certo modo dal bosco circostante, dove il tempo improvvisamente si è fermato.

    Il gallo mi osserva, gonfia il petto coperto da piume azzurre e marroni ed emette il suo possente chicchirichì. Dopo di che, allunga il collo e sbatte le sue ali, per poi tornare a cercare qualcosa da beccare nel terreno.

    Aspettando il verde che fatica ad arrivare, mi accorgo che poco più avanti c’è una via sulla destra. A giudicare dal campanile che svetta tra i tetti delle case, deduco che conduca al centro del paese, dove dev’esserci una chiesa.

    Con le dita che picchiettano sul volante, mi domando come si legge campanile al contrario.

    Finalmente scatta il verde. Inserisco la prima marcia e parto. Dopo aver percorso poche centinaia di metri, lascio il paese alle mie spalle e mi addentro nuovamente all’interno del tunnel, nel bosco di pini cembri e abeti. Percorsi cinque tornanti a destra e quattro a sinistra, la strada diventa sempre più stretta e dissestata, con buche grandi come la mia auto. Devo rallentare, quasi fermarmi per non finire in queste grosse bocche sul manto stradale che vogliono divorare i miei pneumatici, farli esplodere con i loro denti nascosti dalla fanghiglia e dall’acqua marrone che le riempie fino allo stomaco. Enormi occhi scuri dipinti sul suolo all’interno del tunnel che, con il riflesso del sole che filtra tra le foglie degli alberi, sembrano sbattere le palpebre per distrarmi. Sguardi tristi ma al contempo ammalianti, che provano ad attrarmi verso di loro e a farmi scivolare dentro il fango, nella bocca di un pozzo che vuole prendersi la mia auto.

    Lentamente, percorro anche le ultime curve che si snodano nella foresta. Dopo il quattordicesimo e ultimo tornante, giungo ad un piazzale sterrato che funge da parcheggio dell’albergo, oggi solo per la mia auto. L’hotel è situato in una piccola conca ai piedi di alte vette, ed è il punto più alto dove poter arrivare con la propria auto. Da qui in poi, si può proseguire solo a piedi.

    Qui inizia il sentiero per la cima.

    Il tic-tac della legna tagliata dall’uomo-orso scandisce il ritmo con cui scarico il mio trolley e mi avvio verso l’ingresso dell’hotel, attraversando con lo sguardo rivolto verso il basso il vialetto di beole del giardino.

    E contandole, una ad una.

    Passandoci di fianco, mi fermo a osservare il trattore arancione, ipnotizzato dall’armonia del suono della legna tagliata, e quasi non mi accorgo che l’orso bruno è qui di fianco a me.

    Insieme all’odore rancido di sudore.

    Un uomo massiccio, sulla sessantina, poco più alto di me, con i capelli nerissimi e folti, a dispetto dell’età.

    – Buongiorno – dice con voce calma e pacata, asciugandosi il sudore dalla fronte con il braccio destro. – Sono Agostino, il proprietario dell’hotel. Mi segua.

    Senza nemmeno darmi il tempo di presentarmi, si volta e si avvia verso l’ingresso dell’albergo.

    L’orso è di poche parole, ovviamente.

    Prima di darmi le spalle per farmi strada, mentre emetteva quei brevi grugniti, ho notato un suo tic nervoso, che non mi sembrava avesse mentre stava tagliando la legna. Anzi, ne sono convinto, perché i particolari non mi sfuggono. Ha una contrazione involontaria del nervo facciale sul lato sinistro che gli provoca il movimento del labbro verso l’alto e gli fa strizzare l’occhio, sempre da quel lato. Un gesto quasi impercettibile, ma che, effettuato in continuazione e solo quando parla con me, denota uno stato di agitazione causato dalla mia presenza. E, credo, causato dalle persone in generale.

    Ogni emozione, un volto.

    Seguendolo verso l’ingresso, dopo aver contato quarantaquattro beole a formare il vialetto in giardino, la mia attenzione viene richiamata dall’ascia conficcata sul ceppo, di fianco alla grande quercia secolare, con la lama che riflette a rovescio e in maniera distorta le nostre immagini. La mia figura più larga del normale e quella di Agostino più sottile, quasi una semplice linea, anzi più linee fuse insieme, ondulate e sinuose come le zampe nere di un ragno della polvere che iniziano a muoversi lentamente, come a voler tessere una ragnatela, ma che improvvisamente cercano di afferrarmi in maniera subdola alla gola. Sono lunghi e sinuosi come i tentacoli di una medusa. Nera.

    Qui è tutto nero.

    Istintivamente mi fermo e mi scanso per evitarli, spaventato e senza respiro, tornando a guardare verso il proprietario, che nel frattempo si sta allontanando con il suo passo tranquillo e dinoccolato. È stata solo la mia immaginazione, oppure solo uno scherzo della prospettiva.

    Potrebbe essere la spia di un disturbo schizofrenico.

    Così mi diceva il mio psichiatra, il dottor Stani, masticando la bacchetta dei suoi occhiali. Quel vizio mi provocava un senso di disgusto misto ad apprensione nei suoi confronti, perché non si rendeva conto del rischio che correva nel compiere quel gesto, non aveva idea della quantità di germi e batteri che ingeriva ogni volta che metteva in bocca la montatura mangiucchiata dei suoi occhiali.

    Ho immaginato tante volte il suo collo, peraltro già tozzo, che si gonfiava come un palloncino, con le vene enormi che mostravano il sangue e quei minuscoli esseri che scorrevano al loro interno. I suoi occhi enormi e impauriti, grossi come palline da golf, che imploravano il mio aiuto. Ho immaginato la sua gola dilatarsi e diventare verde come quella di una rana. Ho immaginato anche l’esplosione della sua testa, mentre le sue mani continuavano a gesticolare, come se niente fosse accaduto. Ho immaginato me stesso mentre, impassibile, mi alzavo e me ne andavo sbattendo la porta blu alle mie spalle.

    Non mi sono mai fidato di lui. Non ho mai creduto alle sue valutazioni sul mio stato di salute mentale e non ho mai voluto prendere le medicine che mi prescriveva ogni volta che andavo a trovarlo. Mi faceva sdraiare sul divano in pelle marrone e mi faceva tante domande. Voleva che gli descrivevo nei minimi dettagli le emozioni e le sensazioni che provavo durante i miei incubi. Ma era molto difficile, perché a distanza di diverse ore era parecchio complicato raccontare un sogno. E poi, soprattutto, l’ho sempre odiato e non volevo aprirmi con lui.

    Il suo studio non era molto grande, ma i mobili in stile Luigi XV, il tappeto persiano, i quadri d’autore raffiguranti paesaggi montani e la luce soffusa creavano la giusta atmosfera per rilassarsi e concentrarsi sui propri turbamenti. L’unica nota stonata era l’odore di muffa, pungente, che mi entrava nelle narici e mi faceva spesso lacrimare. Ma forse era solo la conseguenza delle sedute sulla mia immaginazione.

    Mi fissava e mi scrutava, come se volesse studiare ogni mio movimento e ogni mia parola, ogni accento posto all’interno di una

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