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Quando hai scelto di essere eterosessuale? Tredici racconti
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E-book114 pagine1 ora

Quando hai scelto di essere eterosessuale? Tredici racconti

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redici racconti che vi porteranno dentro la realtà di altrettante persone, a volte colorate e un po’ folli, altre professionali come un dentista o inopportune come un assicuratore. Persone che hanno un comun denominatore: sono gay, e non per scelta. Perché nessuno può scegliere cosa essere.
Io razzista? Ma se mangio e compro sempre dai cinesini! BEH… CERTO!
Ho tanti amici gay, sono così sensibili! PIÙ O MENO DI UN PANDA?
Sei gay? Rispetto la tua scelta! SCUSA, TU QUANDO HAI SCELTO COSA ESSERE?
Il titolo del libro è: “Quando hai scelto di essere eterosessuale?”
Perché la risposta più sensata a questa domanda all’apparenza banale è molto seria, a pensarci bene: NESSUNO PUÒ SCEGLIERE COSA ESSERE.
Una verità narrata in tredici racconti che vi porteranno dentro le storie di altrettante persone. Ognuna di queste vi parlerà di sé e della sua vita: chi con ironia, chi con dolore, chi con fierezza o con nostalgia ma sempre e solo sinceramente. Sono state scritte per tutti e forse in special modo per chi è eterosessuale. Vi emozioneranno, vi affascineranno, vi faranno sorridere e pensare o vi terrorizzeranno per quanto uguale alla vostra storia sarà il racconto della loro vita.
ATTENZIONE! NON CONTIENE: storie pallose, amori infranti tra personaggi ridicoli, caricature o barzellette sui gay ma esclusivamente normali esperienze di persone che ci vivono accanto, qualche volta sfarfalleggiando colorate e un po’ folli, come in un musical, a volte seriose e professionali come il vostro dentista o noiose e inopportune come il vostro assicuratore.
Avete mai pensato che se le statistiche dicono che una persona su dieci è omosessuale i gay sono dei supereroi con il dono dell’invisibilità? Avete mai pensato a quante bugie sono costretti ad abbassarsi a dire perché si sentono in colpa con le persone che amano? Questi tredici racconti busseranno ai vostri cuori per farvi scoprire che non bisogna attraversare uno specchio o sbattere i tacchi di scarpette rosse per raggiungere un mondo che a volte ci sfiora appena ma esiste (e brulica di gioia, allegria e fantasia malgrado tutto!).
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2019
ISBN9788833282435
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    Anteprima del libro

    Quando hai scelto di essere eterosessuale? Tredici racconti - Salvatore G. Buccellato

    Cover

    I nuovi barbari

    La bruttezza è oggettiva, almeno per me. Comunque dovrebbe esserlo per tutti e ciò renderebbe le cose molto, molto più semplici.

    La televisione, che in passato ha unito gli italiani, insegnando loro a leggere e a parlare una sola lingua comune, ora è diventata l’informazione e la cultura tout court, senza alcuna mediazione né contraddittorio. In una società che non si sofferma più su niente - perché non ha tempo per approfondire le notizie - si crede a quello che si vede e questo diventa la verità.

    Il nostro linguaggio si sta sempre più impoverendo, semplificando. Sta perdendo asperità e preziosismi, unicità e peculiarità. Tutto si appiattisce e nella testa della gente non c’è più la voglia di sperimentare, di cercare strade meno facili e battute.

    I nuovi media sono diventati un enorme blob, veloce, colorato e rutilante, e ci avvolgono suadenti in un abbraccio letale. Grazie ai social anche un gatto strano, uno scherzo idiota - o l’idiota che fa lo scherzo - possono aspirare alla notorietà, sfruttando la risonanza di questa enorme piazza dove quasi tutti mettono in scena cose di ogni tipo senza alcun pudore.

    Vengono spacciate per mode alternative che poi tutti copiano. Così i giovani, anziché suonare la chitarra, pestano dei tasti e campionano, mettono il cappello da baseball appena poggiato sulla testa in un modo che farebbe sembrare cretino Stephen Hawking e, volendo essere alternativi e unici, si fanno fare un tatuaggio in mezzo al polpaccio.

    Questi moderni barbari si ritrovano in branchi nei bar lounge per i nuovi riti socializzanti come l’apericena o il brunch. Adorano, non amano. Tutto è top, non il meglio o unico. Abbracciano nuove feste come Halloween. Aprono nuovi negozi per la cura delle unghie alla maniera delle donne nere d’America, mentre i ragazzi non sanno più il proprio dialetto e hanno adottato il rap come forma di vita e di comunicazione. Non sanno più usare il congiuntivo ma conoscono benissimo la differenza tra un Temaki e un Gunkan.

    Al giorno d’oggi ci si ubriaca o ci si sballa il venerdì sera, perché l’eccesso è l’unica modalità di divertimento. Se ci si deve sposare la dichiarazione va fatta alla presenza di tutti i parenti e va, in ogni caso, filmata e postata su Facebook, sperando che riscuota più mi piace dell’analogo video fatto dal collega di ufficio.

    Gli All you can eat e le Steak house hanno soppiantato le vecchie trattorie e gli ipermercati sono diventati i nuovi luoghi di aggregazione, sostituendo le piazze dei centri storici.

    La gente si ritrova perciò a uno dei tanti piani di un centro commerciale. Si affaccia dalle balconate e guarda gli altri passare tra due file di materassi in offerta, una promozione di libri scontati o, a seconda delle stagioni, di pentole vendute a peso. In ognuno di questi centri, all’apparenza diversi, si possono trovare gli stessi negozi, bar e catene di ristoranti. E questi sono uguali in ogni città, in ogni regione. In ogni parte del mondo.

    Perfino la pizza, che è così bella e italiana ora, imbastardita, la si trova ovunque, da Mosca a Parigi, anche se all’estero la fanno hawaiana - con l’ananas - e nella Ville Lumière ci tocca sentire che la chiamano pitzà!

    Ammettiamolo: è più che giusto chiamare i francesi nostri cugini. Come nella parentela vera, i cugini sono quelli che esistono solo in particolari momenti della vita, o dell’anno. Ci sono antipatici, al massimo indifferenti, e ci rendono felici solo quando capita loro qualcosa di brutto.

    L’imbarbarimento della gente lo vedo ogni giorno. Per esempio nella devastante omologazione del modo di abbigliarsi. I ricchi mettono in mostra i loro marchi, e chi non può compra le copie e sfoggia un presunto spirito di ribellione con tatuaggi ovunque e jeans che non arrivano a coprire il culo, lasciando natiche e mutande in bella vista.

    Ci si veste come quel personaggio della TV o si copia l’ultimo look visto nell’ultima puntata di Jersey shore su MTV. Ma questi schiavi della moda - quando abbiano un loro concetto di cosa sia moda - questi forzati da quel vero e proprio dress code che è l’abbigliamento di gruppo, chi sono e cosa rappresentano? Che riferimenti culturali hanno?

    Oggi pomeriggio, in macchina, mentre ero fermo al semaforo ho visto venire verso di me un ragazzo con una tuta in triacetato lucida e coi colori dell’Argentina. Camminava tenendo per mano il nonno. Questi era alto trenta centimetri meno di lui e avanzava sotto un bananone bianco di capelli lunghi e compatti che lo facevano somigliare a un sosia di Elvis afflosciato e incanutito.

    Non ho potuto fare a meno di sorridere e mi sono chiesto, a parte l’affetto o la parentela, cosa li potesse legare.

    Mi è venuto in mente che il vecchio, probabilmente, era stato sfiorato dalla Seconda Guerra Mondiale mentre l’altro forse non era nemmeno a conoscenza che si fosse svolta, né delle sue motivazioni.

    A volte mi chiedo: se quelli che durante la guerra hanno combattuto per i diritti di tutti - arrivando a dare la vita per un ideale - potessero vedere com’è ora il nostro paese, lo rifarebbero?

    Mi domando anche: se i valori in cui credevano erano forti e inequivocabilmente giusti, chi ha sbagliato nel lasciarli morire? Chi ha permesso che diventassero un’eredità scomoda e dolente, della quale quasi ci vergogniamo?

    Il più delle volte queste domande le ignoriamo o, se posti di fronte a esse, abbassiamo lo sguardo come alla vista di un compagno di scuola che non incontriamo da anni e a cui vorremmo sfuggire per paura che ci chieda di noi, di cosa facciamo e ci veda per come siamo adesso.

    La mancanza di una coscienza sociale, le carenze della politica e l’inaridimento di un sentimento nazionale ci stanno facendo precipitare verso una società senza rispetto delle regole, senza morale né valori. Ognuno a curare il proprio orto, a crearsi una idea di libertà e di tolleranza che vuol dire - essenzialmente - mettere davanti a tutto le proprie esigenze e quelle della propria famiglia.

    Siamo una civiltà allo sbando affascinata dai propri rituali, in pieno periodo di Basso Impero. Siamo i nuovi indiani trascinati verso il baratro da abili venditori che ci attirano con collanine, perline e specchietti. Pronti a entusiasmarci per qualsiasi cosa ci permetta di bamboleggiare: ancorati al nostro passato prossimo e pronti ad annullarci nell’attuale vuoto in cui tutto è adorabile, incredibile, fantastico. Siamo falene eccitate dalle luci, decise a ballare come se avessimo una sola estate, avendo invece davanti una vita troppo lunga.

    Immagino che visti da fuori possiamo sembrare un branco di dinosauri pronti a sparire, concentrati solo sull’oggi. Siamo arrivati al punto di non indignarci più per niente e nessuno. Niente sembra scalfirci: né l’indifferenza nei confronti della verità, né la perdita di dignità, né la mancanza di una giustizia uguale per tutti. Poiché nulla è importante finché non arriva a toccarci personalmente.

    Cosa penseranno di noi le badanti dei nostri vecchi, che li vestono, svestono e puliscono loro il culo ogni giorno al posto nostro?

    Io non ho mai aspirato a essere come gli altri per una scelta non mia ma dovuta, probabilmente, a una sottile vena di snobismo. Forse grazie alla sacra fiamma dell’arte che alimento dentro.

    Io amerei, nella mia diversità, essere amato per le cose che faccio, per l’arte che creo, per le cose che ho da dare.

    L’essere diverso in un piccolo paese della profonda e sospirosa provincia è già una sfida se vivi di arte e soffri della pochezza di quelli che ti circondano, dei tuoi amici, dei tuoi ex compagni di scuola. Di quelli che, solo perché ogni anno si danno da fare per organizzare un cineforum in paese, si sentono la coscienza a posto, pensando di essersi pagati un viatico per affrancarsi dal branco.

    Io soffro e mi sento diverso dagli altri perché l’urgenza del bello mi fa sentire fuori posto, perché non riesco a guardare più di dieci secondi un brutto palazzo, una brutta pubblicità e mi incazzo a morte se, alla radio, durante un quiz, un cretino che non sa individuale le tre canzoni proposte, dice che ha avuto un lapsus freudiano e non una amnesia.

    Mi fanno star male quelli che non rispettano le regole. Soffro quando sento la gente grufolare nel piacere del pettegolezzo, pronta ad azzannare

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