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La guerra dei rossi: Racconti di famiglie e di violenze prima e durante il Covid-19
La guerra dei rossi: Racconti di famiglie e di violenze prima e durante il Covid-19
La guerra dei rossi: Racconti di famiglie e di violenze prima e durante il Covid-19
E-book258 pagine3 ore

La guerra dei rossi: Racconti di famiglie e di violenze prima e durante il Covid-19

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Info su questo ebook

Questo libro di Gian Ettore Gassani è la raccolta di storie di vita forense di uno dei più famosi avvocati matrimonialisti italiani, che con orgoglio,  ha posto l'accento sul ruolo dell'avvocato nel processo e nella società e ha descritto con un linguaggio scorrevole e graffiante i profondi cambiamenti culturali del nostro Paese degli ultimi decenni. Questa volta l'autore non racconta soltanto di crisi di coppia, ma di conflitti tra genitori e figli, di padri che non sono mai stati papà e di  madri che non sono mai state mamme. L'ennesima emozionante  testimonianza di un avvocato-scrittore, alle prese, nella sua bottega, con le vicende familiari  più difficili e drammatiche che si sono consumate prima e durante il Covid 19. Il racconto contiene il “Manuale del perfetto fedifrago”, un capitolo dove, fra ironia e dissacrazione dei più diffusi luoghi comuni, si danno consigli preziosi per prevenire o affrontare, sia dal punto di vista legale che sociale, queste situazioni.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita9 dic 2020
ISBN9788836160983
La guerra dei rossi: Racconti di famiglie e di violenze prima e durante il Covid-19

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    Anteprima del libro

    La guerra dei rossi - Gian Ettore Gassani

    Prefazione

    di Maurizio De Giovanni

    Ho la fortuna di vivere sulla sommità di una collina che affaccia sulla città, una distesa multicolore a perdita d’occhio di edifici disarticolati e disordinati e di strade e piazze sempre brulicanti di veicoli e persone.

    Questo assurdo periodo di solitudine e distanziamento ha prodotto un cambiamento sostanziale nel panorama, e mi sono ritrovato a osservare per ore da dietro le lastre un deserto innaturale di silenzio e di assenza, sul quale i gabbiani volteggiavano sorpresi, quasi a disagio. Guardavo questa moltitudine di finestre e balconi serrati, fermi in un tempo sospeso. La città sembrava abbandonata dalla sera alla mattina, evacuata in fretta, lasciando tavolini ammassati e sedie impilate all’esterno dei bar, manifesti di spettacoli mai rappresentati, automobili mal parcheggiate a impolverarsi nel vento, ormai unico padrone della strada. Eppure, all’interno di quei palazzi la vita proseguiva, secondo nuovi ritmi e nuovi parametri. E all’interno di quelle famiglie, abituate a rari e frettolosi contatti, si sviluppavano nuove profondità di relazione e nuovi rancori.

    Scrivo di crimini passionali. Sono abituato a cercare nei fatti di cronaca gli aspetti sentimentali, quelli universali e narrativi, che si prestano a costruire storie che rimangono nel cuore dei lettori. Raccontare è un modo di rappresentare emozioni di cui raramente abbiamo la forza o il coraggio di parlare. Ed è tristemente frequente che la realtà, il brutale racconto degli avvenimenti superi di gran lunga la fantasia più sfrenata e che il telegiornale sia più agghiacciante e atrocemente assurdo di ogni possibile invenzione dello scrittore.

    Il lockdown e la parziale chiusura sociale che lo ha preceduto e seguito, e che in buona sostanza ancora dura, sono stati una dimensione sociale dalla portata e dagli effetti non prevedibili e per la maggior parte perniciosi. Le statistiche, che troverete in queste pagine, raccontano con la freddezza dei numeri un’esplosione delle violenze domestiche, del femminicidio, della sopraffazione e delle prevaricazioni. E, con ogni probabilità, delle separazioni tra coniugi.

    La famiglia, questo istituto così antico e così traballante, ha retto poco al colpo del contatto forzato, dell’espandersi del tempo insieme, dello spazio ristretto. E a farne le spese sono stati, al solito, i più deboli.

    I libri di Gian Ettore Gassani sono frustate sulla carne viva della sensibilità affettiva, e questo non fa di certo eccezione. Il suo dolente e coinvolgente punto di osservazione è quello dello straordinario professionista chiamato in aiuto da una delle parti, ma anche del padre di famiglia che non riesce a sviluppare una corazza di insensibilità per proteggersi da quello che è costretto a vedere.

    Il racconto, lo capirete leggendo, diventa necessario. Non un voyeuristico occhio che guarda dallo spioncino quello che succede al di là delle porte chiuse, ma la sofferente analisi degli effetti di piccoli errori, all’apparenza irrilevanti, che invece costituiscono il seme di devastanti guerre civili che non fanno prigionieri e che soprattutto, come il fallout di una bomba nucleare, propagano i propri effetti a distanza di anni e anni, deviando sotto l’aspetto affettivo generazioni di innocenti in nome di un ristretto ed egoista interesse immediato.

    I bambini. I teneri bambini. Diventano il campo di battaglia, il territorio da minare e da bombardare per colpire e uccidere l’avversario. Nella finzione di tenere presente il loro interesse si perpetrano delitti e infamie che proprio su di essi si ripercuotono, inevitabilmente.

    Soffrirete, leggendo: non posso e non voglio nascondervelo. Soffrirete e parteciperete insieme allo scrittore, che non farà sconti perché questa non è materia che si può scontare, della tempesta perfetta che si sta verificando dietro molte delle finestre che da lontano sembrano deserte.

    Soffrirete nel non poter intervenire, nel non poter far niente per aiutare gli innocenti portatori di dolore. Vi verrà voglia di gridare e di chiamare aiuto, per impedire il male e la dannazione che emergeranno dai racconti. Perché ogni singola storia, ogni fatto di cui Gassani vi racconterà, vi sembrerà avvenire proprio nel vostro palazzo, sul vostro pianerottolo, nell’appartamento di fianco al vostro.

    E magari sarà proprio così.

    Maurizio De Giovanni,

    ottobre 2020

    Prefazione

    di Valerio De Gioia

    – E vissero tutti…

    – … felici e contenti.

    – Buona notte amore mio.

    – Papà?

    – Sì?

    – Ma la nonna è morta?

    Ecco, lo sapevo… prima o poi me l’avrebbe chiesto. Tanto vale essere sincero. Del resto è una cosa naturale, succede… in questo caso un po’ troppo presto, ma succede.

    – Sì.

    – E chi l’ha uccisa?

    – Ma come chi l’ha uccisa? Nessuno amore mio: la nonna purtroppo si è ammalata ed è morta. Dormi, non ci pensare, lei sta in cielo e da lassù ci vede e ci protegge.

    Cecilia, tre anni e mezzo, il nome della nonna e gli occhi azzurri della madre, grandi come la curiosità che agita le domande impertinenti della sua età.

    Il fatto che una settimana prima abbia chiesto chi avesse rubato la macchina, in realtà venduta, e domandato emozionata, vedendomi in foto con un gruppo di carabinieri, se mi avessero arrestato, mi ha dato due certezze: la deformazione professionale è ereditaria e farla addormentare deve rimanere una prerogativa materna.

    La risposta, evidentemente rassicurante, coglie però nel segno: finalmente si addormenta, me ne accorgo dal respiro che si fa sempre più profondo, lento, con un ritmo contagioso.

    Uno sbadiglio mi allarma. Non devo cedere alla stanchezza, adesso inizia la fase più difficile: la fuga.Non c’è manovra più intricata dell’evasione dal letto di una figlia: un mix tra il gioco dello Shangai e dell’Allegro chirurgo, complicato dal buio e dall’abitudine della bambina di dormire a quattro di bastoni. Solo il caso e un’abilità fuori dal comune, guadagnata sul campo e nel corso del tempo, consente di non sfiorare le braccia o le gambe che di notte si trasformano in lunghi tentacoli, recettori sensibili ad ogni più piccolo movimento o contatto.

    Un improvviso scotimento del materasso o un semplice scricchiolio dei tendini – i papà lo sanno bene –, vanificano l’intera operazione: non sono ammessi errori. I piccoli hanno la rara capacità di avvertire ogni minima incertezza: muniti di una sorta di sesto senso, percepiscono ogni tentennamento e, cosa ancora più preoccupante, non distinguendo tra dolo e colpa, ti fanno pagare a caro prezzo anche la più piccola distrazione.

    Se si sveglia adesso si riparte dal via e stasera non me lo posso permettere. Non ho né la voglia né la forza. Domani sarà una giornata impegnativa: un’altra udienza con processi le cui vittime, dirette o indirette, sono perlopiù bambini, spesso non più grandi del cucciolo che ho appena fatto addormentare, che subiscono la cosiddetta violenza assistita.

    Alle volte penso che il codice, oltre a impormi di dare del tu a quel minore presente in udienza, dovrebbe obbligarmi a dargli un abbraccio, una carezza così da fargli capire che non è colpa sua se le cose non vanno, se si trova lì in quel momento.

    Ma soprattutto vorrei che capisse che quegli adulti che vede all’interno dell’aula, nascosti dalle pesanti toghe nere e da un linguaggio incomprensibile, stanno lavorando con un unico obiettivo: che il prima possibile qualcuno la sera torni a dirgli "buona notte amore mio".

    Valerio De Gioia,

    giudice presso il tribunale penale di Roma

    Presentazione

    Questa porzione di vita agli arresti domiciliari, a causa del Covid-19, ha confermato che a questo mondo noi non siamo niente. Neanche un re, se ci pensiamo un attimo, conta realmente qualcosa. Basta un minuscolo virus ed è finita pure per lui.

    È stato il periodo dei bilanci per tutti. Ognuno ha rivisto il film della propria vita perché perdere i contatti con il mondo ci ha fatto ritornare con i piedi per terra.

    Ho pensato ai miei fine settimana a studiare, alle mie quattordici ore di lavoro ogni giorno, ai cialtroni e agli onesti che incontro tutti i giorni, alle gioie e delusioni della mia professione, al mio ruolo di testimone quotidiano di conflitti irrisolti, alle mie notti insonni, alla mia ansia alla vigilia dei processi, alla mia solitudine tra i fascicoli, alle facce e ai nomi di quanti mi hanno consegnato la loro vita spericolata da difendere, alla imperdonabile inadeguatezza del nostro sistema giustizia, e soprattutto ai tanti bambini contesi, abusati, barattati, alienati, abbandonati per i quali mi sono battuto.

    Ho pensato alla violenza assistita, lasciandomi guidare dalla mia iniziale esperienza di penalista, agli orfani dei femminicidi, a quei ragazzi assoldati dalla malavita per spacciare droga o per estorcere danaro con le pistole giocattolo, a quelle bambine – con calze a rete e tacchi a spillo – sbattute sul marciapiede da chi le ha messe al mondo, alle migliaia di bambini rinchiusi nelle case famiglia, alle infibulazioni nel centro delle nostre città e alle spose di undici anni, tra l’indifferenza di chi predica solidarietà senza metterla mai in pratica, girando la faccia dall’altra parte.

    Il tempo che il virus mi ha consegnato per pensare, con la mia immancabile tuta da detenuto e l’autocertificazione in tasca, ha rievocato gli insegnamenti di un mio maestro di diritto, Alfredo Carlo Moro. Mi legano a questo eccelso giurista ricordi fantastici. Sento ancora la sua voce nelle nostre conferenze in sale gremitissime di avvocati, magistrati, psicologi, assistenti sociali e soprattutto giornalisti.

    Fu il primo a battersi per una nuova cultura dell’infanzia e dell’adolescenza, per il rispetto di bambini finalmente protagonisti attivi all’interno della società, e non più meri destinatari di tutele.

    Moro aveva precorso la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia. La sua fu una delle più grandi rivoluzioni culturali del secolo scorso.

    I conflitti familiari – che mi hanno fatto perdere il sonno negli ultimi anni – sono stati quelli tra genitori e figli. Anzi di genitori contro i figli.

    In questo libro ho portato le testimonianze di gente che è stata al centro di conflitti feroci, di figli abbandonati, strumentalizzati, usati, discriminati. E ho narrato anche di vicende a lieto fine e di coraggio. In ogni storia c’è una guerra dei Rossi. C’è sempre una contesa di gente che non si ama più e che non risparmia nemmeno i figli.

    La guerra è il filo conduttore di questa mia ennesima testimonianza di avvocato che, per puro diletto, scrive racconti senza nulla a pretendere.

    Leggerete in questo libro storie di vita reale (con nomi di fantasia) che vi faranno accapponare la pelle. Che vi offriranno la prova di come e quanto un genitore possa devastare un figlio, di come la cattiveria e l’ignoranza possano travolgere l’istintivo senso di protezione verso le proprie creature. Di quanto i luoghi comuni e le omertà incidano sull’eterno Medioevo che viviamo.

    Chissà quante volte avrò sentito che i figli so piezz e core. Già, pezzi di cuore. Una frase meravigliosa, non c’è che dire, che descrive in modo efficace l’amore più istintivo del regno animale. Ma è un sentimento che prescinde dalla biologia. Perché l’amore per i bambini non è una questione genetica, ma di attenzione, di sensibilità, di generosità. Si può essere moralmente genitori senza aver mai generato. E non esserli mai stati pur avendo messo al mondo figli.

    Non confondiamo i padri e le madri, con le mamme e i papà! È questo il senso di questa raccolta di piccoli romanzi, più che di un saggio.

    Ho conosciuto intellettuali e personaggi pubblici che hanno dimostrato la loro imbarazzante incapacità genitoriale. E gente di periferia da prendere come limpido esempio di maternità e paternità.

    Ecco la storia di Tina, una meretrice un po’ stagionata della via Salaria a Roma. Fu trascinata in tribunale dall’ex compagno con delle accuse vergognose.

    Secondo le tesi del legale di costui, chi vende il proprio corpo non può crescere un figlio. Questa causa fu una gogna per questa madre, intrisa di richiami morali, di scomuniche dei servizi sociali e iniziali pregiudizi del giudice. Non era mai stata tanto denudata come in un tribunale. Non si arrese e provò di aver tenuto il figlio lontano anni luce dalla sua vita da marciapiede, e di aver destinato parte consistente dei propri guadagni per far fronte alle spese della scuola privata e delle attività sportive del suo cucciolo (così lo aveva definito davanti al giudice). Poi produsse in giudizio la bellissima pagella del figlio in uno ai lusinghieri giudizi di valutazione dei professori che lo avevano elevato a esempio per tutta la classe.

    Il consulente tecnico del tribunale, incaricato di valutare le qualità genitoriali della mignotta in questione – così era stata definita dal suo ex in varie occasioni – segnalò al giudice che questa signora a luci rosse era madre modello avendo posto al centro della propria esistenza gli interessi e i diritti di suo figlio, tanto da risultare responsabile, accudente e premurosa.

    Il tribunale, pertanto, respinse il ricorso del suo ex, condannandolo alle spese del giudizio. La prostituta aveva stravinto, e con essa la giustizia.

    Più o meno nello stesso periodo difesi un papà contro la sua ex, una madre insegnante, nota frequentatrice di salotti romani, laureata in pedagogia. Provai in giudizio che la donna, che precedentemente aveva scatenato l’inferno per ottenere la collocazione dei due figli (di nove e sette anni), con il passare del tempo li aveva trascurati in modo oserei definire vergognoso. Aveva dato carta bianca ad una colf per la loro cura quotidiana. I due bambini erano sempre soli, non studiavano mai, erano in preoccupante sovrappeso. In tale marasma era emerso che la madre non fosse mai stata a scuola dei figli per conferire con gli insegnanti né aveva mai visto il pediatra. Evidentemente i suoi tornei di burraco erano la cosa più importante della sua vita.

    Quello descritto dai servizi sociali incaricati dal tribunale, confermato dagli psicologi di ufficio, fu un quadro familiare a dir poco desolante.

    La pedagoga, che ostentava un’aria da perfettina, non era capace nemmeno di infilare una supposta ai figli o percepirne i più elementari bisogni.

    Il tribunale non poté fare altro che collocare i ragazzi dal padre ricorrente, disponendo per la signora un percorso di recupero della propria genitorialità.Prostituta di strada batté la pedagoga dei Parioli 3 a 0!

    Se nella vita è tutto relativo, figuriamoci in amore.

    Covid-19

    Ho iniziato a scrivere questo libro in pieno lockdown e l’ho finito il 27 agosto 2020 alle 22.45. Questa volta di tempo a disposizione ne ho avuto, anche se accompagnato da un’angoscia terribile, comune a tutti gli abitanti del pianeta.

    È stata un’emergenza sanitaria, economica e sociale. Ma non tutti hanno avuto la percezione dell’emergenza familiare che si è scatenata durante questi arresti domiciliari di massa. Per le coppie, specie quelle già in crisi da tempo, è stata una tortura condividere tempi e spazi, senza poter uscire di casa, senza staccare la spina della tensione, senza alcuna tregua.

    All’improvviso il mondo si è chiuso, ma in molti hanno continuato a lavorare e a perdere la vita. La gratitudine verso medici e infermieri, molti dei quali morti sul campo, è un sentimento doveroso. Ma meritano un grazie anche quanti hanno lavorato con coraggio e a contatto con la gente per non far mancare i beni essenziali alla popolazione.

    Anche noi avvocati abbiamo fatto la nostra parte. Ma pochi lo hanno riconosciuto. Siamo una categoria disunita e piena di individualisti patologici, incapaci di veicolare messaggi convincenti per rivendicare l’importanza del nostro ruolo. Ma questa è storia vecchia. Mentre i tribunali sono stati chiusi a chiave per mesi e le cancellerie hanno operato da casa, i nostri telefoni sono diventati bollenti per le infinite richieste di aiuto che ci sono pervenute a qualsiasi ora del giorno e della notte.

    Siamo stati il 118 legale e lo abbiamo fatto con onore. Le stime dei centri antiviolenza hanno denunciato un aumento di violenze intrafamiliari pari al 74 per cento e un’impennata vertiginosa dei femminicidi del 15 per cento.

    Alla fine di questa emergenza, che chissà quanto tempo durerà ancora, riemergerà tutta la polvere che nelle case di tante famiglie era stata tenuta nascosta sotto il tappeto. E di sicuro si registrerà nei prossimi tempi un vertiginoso aumento del numero delle separazioni e di crisi familiari.

    La giustizia non doveva fermarsi o comunque non doveva paralizzarsi del tutto, con le cancellerie in smart working, con i ricorsi congelati, con rinvii in alcuni tribunali (non si sa a quando) anche per cause urgenti. A un certo punto – visto l’aumento delle violenze intrafamiliari – si sarebbero dovuti reperire locali pubblici alternativi (cinema, teatri, palestre, caserme) in cui sarebbe stato possibile il distanziamento sociale, e lavorare anche il sabato e la domenica, specie nelle zone in cui la pandemia era risultata meno grave. L’emergenza c’era e ci sarà ancora per molto tempo e pertanto dobbiamo conviverci senza mollare, altrimenti più che di virus moriremo di altro. Qualcuno l’ha enfatizzata, qualcuno l’ha negata, sbagliando entrambi, e taluni ci hanno marciato o, volendo essere ottimisti, non ci hanno capito una ceppa.

    Come sono stati creati gli ospedali da campo, bisognava organizzare tribunali da campo, pur nel doveroso rispetto delle norme di sicurezza. Si poteva e doveva fare di più. Cosa accadrà adesso? Come faremo a recuperare il carico di lavoro che non è stato svolto? Che ne sarà di tante coppie separande, ancora sotto lo stesso tetto, in attesa che un giudice intervenga per loro? E della serenità dei loro figli cosa sarà?

    Dal marzo 2020 a oggi sono intervenuto quotidianamente – e lo hanno fatto tutti i colleghi – per fronteggiare la violenza in famiglia. Come sempre, le donne e i loro ragazzi sono state le principali vittime.

    In due occasioni ho deciso di contattare telefonicamente mariti violenti per scongiurare tragedie imminenti. Sono stato quanto più diplomatico possibile con questi due disgraziati, ma è stata durissima. Ho avuto paura, ma non avevo alternative.

    Nei casi più gravi, ho dovuto reinventare il mio modo di fare ed essere

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