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Bolognesi per caso
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E-book216 pagine3 ore

Bolognesi per caso

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Info su questo ebook

Con uno sguardo cristallino, Fagnoni racconta storie quotidiane di vita bolognese, tra piazza Maggiore e Corticella, da piazza Verdi al Pilastro, dal carcere al parco delle Caserme Rosse, fino a una corsia del pronto soccorso dell’ospedale Maggiore. Un uomo solitario e taciturno con la mania dell’ordine e la passione per Warcraft, un postale in pensione che, in amnesia totale, non ricorda di avere massacrato moglie e genero, un uomo di nome Gastone Fortuna che viene accusato di essere un “uccello del malaugurio” perché intorno a lui capitano sempre sciagure, ma si tratta veramente di superstizione?, e poi ancora un tagliatore di teste solitario che vaga in una Bologna scintillante illuminata a festa e si ritrova a trascorrere la vigilia di Natale con un vecchio tabaccaio e il figlio malato, un uomo con una sordità selettiva, un giovane al suo primo giorno come vigile urbano in via Petroni, un professore di liceo apparentemente riluttante alla tecnologia.
E poi storie di uomini e donne comuni, raccontati in un ventaglio di infinite variazioni sul tema della coppia, della solitudine, del matrimonio, della vecchiaia, del lavoro, dei rapporti umani e dei sentimenti di paura, rabbia, gioia, dolore, frustrazione.
Ventuno racconti brevi che ci danno nel loro insieme una matura e magistrale pennellata che è vividamente lucida, immediata, precisa e a volte spietata, del sostrato cittadino fatto di gente comune, famiglie, coppie, singoli, ultimi, perdenti, falliti, emarginati, ingenui, violenti, nostalgici, invecchiati in fretta, di invisibili che – ognuno nell’infrangibile mistero della propria esistenza – fanno ribollire l’anima di una città.

«Immagino una primavera qualsiasi in un futuro remoto, ma non impossibile, un futuro privo di uomini, privo di contraddizioni, dove le antiche mura della città turrita siano assediate da piante rampicanti, edere inarrestabili, crepe non riparabili, immagino una Bologna vuota, con ancora le case del centro storico in piedi in attesa della imminente riscossa della natura, una Bologna silenziosa, priva di gente, priva di miseria, di ipocrisia, di decadenza e arrivo alla conclusione che Bologna si può continuare ad amarla, annusandola attraverso la sua storia, attraverso i vecchi muri imbrattati da graffiti demenziali. Osservo la mia idea di una primavera bolognese privata dalla presenza dell’uomo e questo pensiero per me è fonte di pace, una pace duratura, quasi definitiva e rimango a contemplare il Navile che con il suo borbottio artificiale sembra quasi darmi ragione».
LinguaItaliano
Data di uscita3 gen 2017
ISBN9788861551718
Bolognesi per caso

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    Anteprima del libro

    Bolognesi per caso - Massimo Fagnoni

    Massimo Fagnoni

    Bolognesi

    per caso

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

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    ISBN 978-88-6155-171-8

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2017

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.

    A Cinzia

    Mai, o quasi, chiedono il perché gli umili,

    di tutto quello che sopportano.

    Si odiano gli uni gli altri, e tanto basta.

    Celine, Viaggio al termine della notte

    Nessun dolore

    Il mio nome è Sante, Sante Succi, professione addetto alla vendita in un grande centro commerciale bolognese, uno di quelli che potete incontrare durante la spesa del sabato con il carrello stracolmo e i bimbi urlanti aggrappati alle gambe. Io sono lì a riordinare i bancali delle merci, a etichettare il caffè, a impilare scatolette e bottiglie di vino, con il mio grembiule blu, e l’espressione assorta di chi sta svolgendo un compito importante, perché è essenziale l’ordine nello spazio, è nell’ordine l’equilibrio.

    Mi piace il lavoro nelle corsie, mi piacciono i colori della merce, riempiono gli occhi e spesso mi perdo a leggere le istruzioni per l’uso, gli ingredienti dei cibi, i coloranti, le calorie, le vitamine, i conservanti, trascorro ore in questa occupazione ma sono sempre attento ai tempi, uno dei più precisi, uno dei più veloci, uno dei più solerti magazzinieri. Non sono tagliato per lavorare alle casse, avrei l’ansia della folla, casalinghe nevrotiche, coppie dinamiche, anziani rincoglioniti, tutti con la propria idea, il proprio personalissimo obiettivo quotidiano, tutti più o meno poveri, più o meno disperati. Non mi piace trattare con le persone, preferisco le cose, gli oggetti quotidiani, potrei vivere su un’isola deserta per sempre, se circondato da migliaia di oggetti da riordinare, da catalogare. Ma non è di questo che voglio parlarvi, ho un’altra necessità oggi, quella di raccontarvi cosa mi è successo nelle ultime settimane, perché sono convinto che nella vita di ognuno di noi ci siano momenti precisi nei quali avviene qualcosa di definitivo, e non mi riferisco per forza alla morte, ma a una nuova consapevolezza, uno scatto di crescita nel quale ci si rende conto di un particolare nuovo che fino al giorno prima sfuggiva.

    Al compimento del mio trentesimo anno di vita, mentre festeggiavo con mia madre nel nostro piccolo appartamento di via Barbieri, proprio di fronte alla stazione dei carabinieri di Corticella, stavo guardando il telegiornale, raccontava di un attentato in America durante una corsa podistica, si vedevano persone scappare, il sangue. Il giornalista stava facendo la conta dei morti e dei feriti. Mia madre si è messa una mano davanti alla bocca e gli occhiali grossi, che usa per leggere, si sono appannati per un istante, sembrava davvero che stesse soffrendo e ha esclamato povero piccolo, si riferiva a un bambino di otto anni morto nell’attentato. Una lacrima solitaria e pigra è scivolata lungo le guance scavate, ricoperte da rughe sottili e venuzze azzurrine. Ho pensato, nell’ordine, quanto è invecchiata, non ricordo più com’era quando era giovane, quando c’era mio padre e ho concluso che stava fingendo. Perché per me, fino a poco tempo fa, era impensabile potere provare qualcosa per qualcuno morto dentro la televisione. Le notizie televisive escono dallo schermo piatto, scivolano sulla tavola, mentre di solito pranzo o ceno e si disintegrano più o meno fra frigorifero e lavello, scomparendo nel lavandino, senza lasciare traccia. È sempre stato così, e le risposte emotive della gente, madre compresa, le ho sempre catalogate con la definizione: reazioni sociali obbligatorie. Vi faccio un esempio, strage del sabato sera sull’autostrada Rimini-Bologna, causa alcool e droga, reazione tipica, movimento della testa da destra a sinistra, brontolio di disappunto e critica sociale alle discoteche che rimangono aperte tutta la notte, infine un sospiro accorato per le giovani vite stroncate nel fiore degli anni.

    Ho sempre considerato le reazioni degli altri atti dovuti, contrazioni psicologiche involontarie, consuetudini del vivere sociale. La differenza sostanziale fra me e il resto della collettività è che io non mi sforzo di fingere costernazione, me ne sto semplicemente in silenzio e continuo a osservare gli accadimenti esterni come fatti ineluttabili, come il tramonto del sole alla fine del giorno o le rughe di mia madre settantenne. Tutto questo era il mio modo di concepire la condivisone emotiva con il mondo esterno fino a poche settimane fa. Mia madre è forse la persona che mi conosce meglio, anche perché è l’unica che io frequento fuori dall’ambiente lavorativo e lei un po’ mi intuisce. Al funerale di mio padre rimasi fermo e rigido, vicino a lei, mentre piangeva, apparentemente disperata. In quel caso il suo coinvolgimento era diretto, la sua disperazione doveva essere il più possibile autentica. Io chiaramente non piangevo, non so cosa significhi piangere e mia madre non si ricorda che io abbia mai pianto in tutta la mia vita, nemmeno per un dolore fisico, nemmeno per una otite, o un mal di denti. Ma tutti pensarono, il giorno del funerale, che non piangevo perché i veri uomini non piangono mai, o forse pensarono che sono strano, ma chi se ne frega infine di cosa pensano gli altri, amici di mio padre, parenti lontani, ex colleghi di reparto, tutti assolutamente estranei per me, come ombre cinesi.

    Mia madre mi ha confidato, davanti a due dita di Varnelli, che quando avevo otto anni propose a mio padre di portarmi da un neurologo, per cercare di capire perché non piangevo mai. Mio padre scoppiò a ridere e la cosa finì lì. Fino a poche settimane fa la mia vita scorreva come una di quelle rotative dei quotidiani che si vedono in certi film, veloce, regolare, identica nella ripetizione perpetua del compito assegnato. Nel mio quotidiano esistenziale il luogo che prediligo fra tutti è la corsia di un reparto di cartoleria del centro commerciale dove lavoro, lì posso riordinare, sfiorare, contare, annusare, palpeggiare gli oggetti che al mondo amo di più, matite Weber sfuse o in confezioni da dieci, con quel colore marroncino chiaro sempre uguali nel tempo, con quel caratteristico odore di mina e i trucioli da raccogliere dopo avere affilato la punta con un temperamatite, le gomme per cancellare, i compassi, i quaderni di tutte le dimensioni, le agende, i pennarelli, le penne. Nel reparto cartoleria io potrei trascorrerci anche il mio tempo libero e a volte lo faccio, magari in un altro centro commerciale, anche per comparare differenze, articoli interessanti da scoprire. Ed è così che ho scoperto, in un centro commerciale dall’altra parte della città, una teca in vetro, chiusa con lucchetto e dentro un’intera collezione di miniature Warcraft. Non pretendo che sappiate cosa sono, io gioco molto con il mio portatile, acquistato a rate nel reparto informatico del centro commerciale dove lavoro, e mi piacciono i giochi dove bisogna organizzare un mondo, giochi strategici, soprattutto di guerra, come Warcraft appunto, che narra le vicende di diverse razze contrapposte in un universo fantasy. A me piace molto il gioco, uno strategico in tempo reale dove è necessario costruire una civiltà, farla diventare sempre più forte per poi distruggere il nemico. A me la parte che piace di più è quella della costruzione e accumulazione di beni, chiaramente, e la distruzione finale del nemico è indispensabile al proseguo del gioco. Poi ho scoperto le miniature, sono bellissime, colorate, alte fino a dieci centimetri e raffigurano le varie razze in campo. A me piacciono soprattutto gli orchi, con i loro corpi scolpiti di muscoli e quel colore della pelle grigio e oro che tanto ricorda i serpenti e le fauci spalancate nel momento dell’attacco. Una miniatura può costare fino a trenta euro, di solito le acquistano appassionati del gioco da tavola, e immagino ciurme di giovani adulti intenti a trascorrere sabati sera in tavernette illuminate da ampi camini, mentre fanno muovere su un grande tavolo tedesco marrone scuro le diverse miniature. A me non piacerebbe condividere con nessuno quelle miniature e non mi interessano i giochi sociali. Amo invece e molto le miniature di Warcraft e nel tempo ne ho raccolte una decina, solitamente si comprano per giocare insieme alla carte in sessioni di giochi di ruolo, ma a me piace collezionarle e cerco le rarità, quelle più vecchie che ormai non sono più in commercio. Un giorno fatidico trovai una miniatura che non speravo di incontrare, la principessa Lorenz degli elfi delle foreste, bellissima, dipinta in un azzurro tenue e oro, dentro la teca di un centro commerciale di periferia, il cuore cominciò a battere più velocemente, la bocca asciutta per l’emozione e mi avvicinai trepidante alla teca in vetro per leggere il prezzo. Cento euro per la miniatura della principessa, decisamente troppo per le mie finanze, mia madre non avrebbe capito, già guarda con sospetto la mia strana collezione protetta dentro una analoga bacheca in vetro a casa mia.

    Quella principessa è diventata una dolce ossessione, e con aria da cospiratore mi sono recato con il mio libretto di socio Coop presso l’ufficio soci (io sono socio della Coop dove lavoro da sempre, ancora prima di esserne diventato un meccanismo lavorativo quasi perfetto).

    Nel mio libretto ci sono i risparmi di dieci anni di stipendi, sono un sacco di euro, ma mia madre dice sempre di non spenderli perché dovranno servire per pagare il suo funerale, quando lo dice sospira lungo e io la trovo sempre scadente come interprete di quel sentimento che credo dovrebbe essere malinconia. Anna, la collega impiegata, mi ha guardato con occhi curiosi, solitamente mi vede solo quando prendo lo stipendio e come una formica operaia passo da lei per versarne una buona parte. Mi ha guardato, un faccione bianco, tondo, circondato da una testa di capelli riccioli e biondo parrucchiere, ha sorriso, sembrava lo stregatto di Alice.

    «Sante… che ci fai qui a metà mese, tu regolare come un orologio svizzero, hai perso la bussola?».

    Lei sorride sempre molto e ha un tono di voce alto ma musicale, secondo me potrebbe cantare o lavorare in radio. Mi sono tolto gli occhiali, io sono miope e astigmatico, uso lenti sottili leggerissime montate su un telaio al titanio, me le sono comprate al reparto ottico del centro commerciale, noi soci dipendenti abbiamo ottimi sconti.

    «Mi servono cento euro» ho sussurrato veloce per non farmi sentire in giro, ho un tono di voce abbastanza basso, non parlo spesso, ho poco da dire in realtà o poca voglia di dirlo a qualcun altro.

    Anna ha inclinato la testa di boccoli biondo Natale e sembrava davvero un albero delle feste luminoso e rassicurante.

    «Accidenti… e cosa ci vuoi fare con una cifra del genere Sante? Grossi acquisti in programma?».

    Ho sorriso, perché alla gente piace quando si sorride, l’ho notato, li rassicura, forse è per questo motivo che gli extracomunitari sorridono sempre quando mi chiedono un’informazione, avete mai notato? Non solo i cinesi, ma anche pakistani, bangladesi, e quando uno di questi si avvicina mentre sono concentrato sullo scaffale a volte mi tocca o aspetta che io mi volti e mi accorga della sua presenza, ma io li intuisco sempre prima di vederli, perché hanno tutti quello strano odore nauseante di cibo, deve essere qualcosa che usano per cucinare, spezie o che ne so. Li immagino in tanti, stipati dentro qualche appartamento piccolo, o in una cantina affittata abusivamente, assiepati intorno a una cucina alimentata con le bombole, mentre cucinano per ore i loro piatti immangiabili.

    Ma sto divagando, parlavo di sorrisi stereotipati, io sono un professionista delle espressioni facciali meccaniche. Lo so che Anna mi tratta come un ritardato, ma è meglio che non sospetti mai cosa penso io di lei e della maggiore parte dei miei colleghi.

    Tornando ad Anna, dopo averle sorriso le ho mormorato: «Mia madre compie gli anni, le voglio regalare un cellulare».

    Anna ha annuito, entusiasta, o almeno aveva deciso di fingere entusiasmo.

    «Che bravo figliolo che sei» poi deve avere pensato un istante, collegato informazioni, fatto due conti: «Certo che con cento euro non è che porti a casa un gran telefono».

    «Basta che funzioni, non deve mica fare fotografie o andare in rete» ho aggiunto. Avevo già previsto questa conversazione e so che mia madre difficilmente incontrerà Anna e anche se accadesse, pazienza, in fin dei conti i soldi sono i miei e io cerco di accontentare mia madre in questa sua ossessione senile del risparmio, perché non la sopporto quando comincia a lamentarsi con la sua angoscia per la miseria, tipica paura dei vecchi che con un piede nella fossa continuano ad accumulare i centesimi, come se all’inferno dovessero pagare un pedaggio per entrarci.

    Dopo avere salutato Anna sono uscito dal centro commerciale dove lavoro e sono salito sulla mia seicento bianca, ho tolto il blocco dal volante, è un simpatico marchingegno che ho acquistato su eBay per 10 euro, assomiglia a una piccola mazza da baseball e serve per fermare il volante dell’auto, l’ho riposto sul sedile del passeggero e mi sono diretto verso la tangenziale.

    Ho sentito il primo tuono quando mi apprestavo ad uscire dalla tangenziale in zona Pilastro, il cielo era talmente chiuso nel suo colore acciaio che sembrava dovesse cadere a terra e schiacciare tutte le auto in fila verso casa. Era l’ora di punta, l’ora nella quale la tangenziale si riempie e la gente normale torna dal lavoro. Io ero in ferie, perché per me era una giornata importante, stavo andando a comprare il pezzo più importante della mia collezione: la principessa Lorenz. Il cuore accelerava solo all’idea di possederla, come quando da piccolo attendevo l’arrivo nella cartoleria del quartiere del Manuale delle giovani marmotte, che ancora conservo fra i miei libri più cari. Gli oggetti non tradiscono, basta conservarli nel giusto modo e rimarranno sempre fedeli.

    Il centro commerciale mi ha aperto le sue porte automatiche come se mi stesse attendendo e tutti sembravano sorridenti e complici, ammiccanti e affettuosi, come se sapessero che stavo andando dalla mia principessa. L’unico che non mi è piaciuto è stato l’addetto alle vendite del settore video ludico, uno spilungone magro e ossuto, con un orecchino di metallo che s’intravedeva sotto una cascata di capelli unti e sporchi. Mi ha guardato con sufficienza protendendo in avanti il mento aguzzo, e io sporgendomi gli ho sussurrato: «Sono qui per la principessa Lorenz».

    Lui ha aggrottato la fronte guardandomi con sospetto.

    «Per chi?» ha chiesto con tono ironico.

    Ho contato fino a tre, il buzzurro non conosce Warcraft, evidentemente, come la maggiore parte dell’umanità, del resto.

    «La miniatura che tenete dentro la teca dei pezzi di Warcraft, quella che costa cento euro».

    Ci ha pensato qualche istante, grattandosi il mento appuntito ricoperto da una leggera lanugine nerastra, poi ha spalancato gli occhietti piccoli e si è aperto in un sorriso compiaciuto.

    «Ora ho capito, certo, ne parlavo proprio l’altro giorno con la Giusi, una collega del settore video, mi stavo chiedendo chi avrebbe mai speso una cifra simile per un pezzo di plastica dipinto».

    Ho sorriso, meccanicamente come al solito. Avrei potuto ucciderlo in quel sorriso, ma in quel momento il mio obiettivo prioritario era mettere le mani sull’oggetto del mio desiderio e non divulgare il verbo alle massi ignoranti, mi sono limitato ad annuire.

    «È un pezzo da collezione, sono miniature dipinte a mano, ma non pretendo che lei capisca» mi sono limitato ad aggiungere.

    Il giovane selvaggio è scoppiato a ridere.

    «Mi sa che siamo in tanti a non capire, sai con cento euro ci sono famiglie che ci mangiano una settimana di questi tempi».

    Anche il commesso comunista mancava, ho pensato, ma ho ingoiato la sua retorica populista e sono rimasto in attesa. Lui ha afferrato un grosso mazzo di chiavi e il suono che producevano mentre si avviava verso la teca sembrava un allarme, sentivo dentro

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