Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Pachamama y suerte: Cronache dal Brasile
Pachamama y suerte: Cronache dal Brasile
Pachamama y suerte: Cronache dal Brasile
E-book982 pagine15 ore

Pachamama y suerte: Cronache dal Brasile

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Una serie di circostanze spingono Davide, alle porte dei trent'anni, a tramutare in realtà un desiderio a lungo sopito: conoscere il Sudamerica nel corso di un viaggio in solitaria. Un tassello alla volta, il ragazzo organizza tutti i preparativi necessari a compiere l'impresa. Il malinconico congedo dalla famiglia, i primi contatti con altri viaggiatori, le riflessioni della vigilia in un ostello di Milano e infine il volo. São Paulo costituirà il punto di partenza di un'odissea itinerante "zaino in spalla". L'intero percorso, intervallato da innumerevoli soste verso minuscole realtà quanto mai remote, oltre a garantirgli la conquista di mete e paesaggi in passato solamente anelati con la fantasia, consentirà a Davide di relazionarsi con sistemi logistici, persone, ambienti e culture distanti anni luce dal suo abituale contesto ordinario, tanto da modificarne il punto di vista e proiettarlo in una dimensione esistenziale dalla quale non potrà mai più tornare indietro.
LinguaItaliano
Data di uscita11 apr 2019
ISBN9788833463650
Pachamama y suerte: Cronache dal Brasile

Correlato a Pachamama y suerte

Ebook correlati

Viaggi per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Pachamama y suerte

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Pachamama y suerte - Davide D’Arienzo

    Pachamama y Suerte. Cronache dal Brasile

    di Davide D’Arienzo

    Direttore di Redazione: Jason R. Forbus

    Progetto grafico e impaginazione di Sara Calmosi

    Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2020©

    Narrativa – Voyage

    www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com

    È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

    Pachamama y Suerte

    Cronache dal Brasile

    Davide D’Arienzo

    AliRibelli

    Proprio come un fiore sboccia dopo aver sopportato

    il rigido freddo invernale, un sogno può avverarsi solo se si è preparati a sopportare i tormenti che ne accompagnano la realizzazione e a compiere tutti gli sforzi necessari.

    Daisaku Ikeda

    Indice

    Premessa

    Preparativi e partenza

    Verso il Nuovo Mondo

    Approdo a São Paulo

    Free Walking Tour

    Perlustrazioni solitarie

    Una simpatica famigliola

    Il primo sogno si realizza

    Illusione delusione

    Tutto è bene quel che finisce bene

    Linguaggio universale

    Una giornata emotivamente complessa

    Adeguato congedo

    Il lontano Nordest

    Profumo d’Africa

    Una vigilia rilassata

    Compleanno indimenticabile

    Rotta per la capitale

    Metropoli surreale

    Traversata infinita

    Proseguendo per via fluviale

    Avvisaglie di dissapori

    La Parigi dei Tropici

    Polmone del mondo

    Recipiente di vita

    Da Manaus a Santarém

    Sentore di Caraibi

    Natura selvaggia

    Logoranti attese

    Genesi di un rapporto difficile

    Punto di non ritorno

    Ripristino dell’autonomia

    L’ultima spossante navigazione

    Spaesamento

    Melanconico addio

    Premessa

    Caro Lettore,

    onorato del fatto che i tuoi occhi adesso si stiano posando su queste poche righe, vorrei sottoporti una nota introduttiva che ritengo fondamentale per presentare l’opera seguente.

    Il testo che hai tra le mani rappresenta una narrazione fedele e veritiera degli accadimenti, tanto straordinari quanto ordinari, che mi hanno visto protagonista durante la prima parte di un viaggio durato circa sette mesi e mezzo, a cavallo tra il novembre 2013 e il giugno 2014, periodo nel quale ho avuto modo di transitare attraverso ciascuno dei tredici paesi che compongono il Sud America.

    Ti trovi davanti a una sorta di diario di viaggio, tutto incentrato sulla corposa parentesi iniziale, quella brasiliana: circa quaranta giorni itineranti dal sud al nord del paese, passando per la Foresta Amazzonica. Puoi immaginare che nel corso di questa voluminosa avventura non sarebbero mai potuti mancare eventi che hanno dell’incredibile e che a tratti sfiorano l’assurdo. Tieni presente che a questi è comunque sempre connessa una corposa componente introspettiva.

    L’ambizione della mia scrittura è quanto mai polivalente: mi piacerebbe indurti ad una riflessione, solleticare la tua sfera emotiva, oltre chiaramente a stimolarti la fantasia e la capacità di sognare tramite gli aneddoti e le esperienze di cui ti troverai via via a prendere coscienza. E quand’anche ti dovessi imbattere in descrizioni di fatti, luoghi, persone o dialoghi a tuo avviso inverosimili o poco credibili, non dubitare mai! Tutto è accaduto realmente nell’esatto modo che ho tentato di riportare qui.

    Infine un suggerimento: se fai parte di quella categoria di lettori che si intimoriscono, o vengono assaliti dalle perplessità di fronte allo spessore e al numero di pagine; che si aspettano l’essenziale e non anche il fronzolo; che desiderano un libro carico d’azione e avventura in tutte le sue parti, una scrittura asciutta, un linguaggio sempre semplice e scorrevole, allora forse questo testo non è il più adatto a te.

    Grazie a prescindere dell’attenzione che mi hai dedicato.

    Davide D’Arienzo

    A papà e mamma

    Capitolo I

    Preparativi e partenza

    Non saprei individuare con assoluta certezza quale fosse stato il fattore determinante che mi convinse ad accettare una sfida tanto ardua e piena di incognite, ma sta di fatto che intorno alla prima decade del gennaio 2013 presi la ferma decisione di imbastire i preparativi funzionali ad affrontare un lungo viaggio itinerante nel continente sudamericano.

    In realtà, proprio in quel periodo della mia vita, sussistevano diversi presupposti per dar seguito concretamente a un simile proposito: una relazione di coppia, durata ben quattro anni, con tanto di convivenza e più nessun mistero, naufragata inevitabilmente per molteplici concause; l’approssimarsi inesorabile di una data importante per molti, non così tanto per me, ma che avrebbe mutato una volta per tutte il peso della mia età: i trenta anni; l’assenza di legami viscerali, quelli dai quali non vorresti mai staccarti e che, quand’anche lo facessi, vi rimarresti sempre connesso cerebralmente, e con essi l’assoluta mancanza di impegni impeditivi, come può essere un impiego gratificante o un percorso di formazione stimolante: insomma una completa deficienza di tutti quegli aspetti che raramente si ha la forza di interrompere, rischiando di rimpiangerli poco più tardi; e ultimo, ma non ultimo, il confronto avuto qualche mese prima con una figura che oserei definire mitologica per questioni di cui ancora non è dato far menzione. Ecco dunque che, a piccoli passi, ma tutti decisi, nei mesi a venire cominciai progressivamente a connettere una serie di azioni più o meno vincolanti.

    E così, a margine di quell’oceano di informazioni accumulate sul web, procedetti prima all’acquisto dell’edizione 2013 della guida Footprint South American Handbook; poi di uno zaino da trekking con una capacità tale che mi permettesse di portarmi dietro tutto il necessario per far fronte ai differenti climi ed ecosistemi che avrei potuto e voluto incontrare; quindi di un equipaggiamento adeguato e razionale, da tutti i punti di vista, incluso quello economico.

    Una volta effettuate le vaccinazioni, obbligatorie per alcuni paesi (come quella contro la febbre gialla), e opzionabili, ma consigliate per l’intero sub continente (come quelle contro il colera e l’epatite A), non mi rimase che un ultimo step che lasciai volutamente alla fine: il passo decisivo, almeno per il mio carattere, per la mia forma mentis. Quel passo che, semmai avessi compiuto, poi non avrei mai avuto né la voglia, tantomeno la spensieratezza di tornare indietro. Si trattava dell’acquisto di un biglietto aereo per un volo transoceanico, il primo in assoluto della mia vita, e chiaramente – nutrivo pochi dubbi! – anche il più costoso.

    Mi misi alla ricerca, paziente ma costante, della migliore opportunità possibile in tal senso e, dopo aver vagliato molteplici agenzie di viaggio, mi convinsi che la soluzione più affidabile andava indagata tra la ridda di motori di ricerca dedicati sul web.

    E così, nel bel mezzo di quella che avevo già battezzato come l’ultima stagione estiva sacrificata al lavoro da cameriere, riscontrai una notifica da Ora o mai più! sulla mia casella di posta elettronica. All’interno di quel flessibile e variegato ventaglio di scelte che avevo preso in considerazione, alternando i punti di partenza e di arrivo, il numero degli scali aerei, le date di andata ed eventuale ritorno (avevo addirittura messo in conto che il ritorno avrebbe potuto scivolare dal piano della necessità a quello del possibile…), c’era – e non sarebbe potuto essere altrimenti – una costante, su cui mi mantenevo pressappoco irremovibile: il tempo di permanenza in viaggio, che non avrei mai accettato scendesse al di sotto dei sei mesi e mezzo, sette mesi. Eh sì perché, nel frattempo (in verità accadeva già da un anno abbondante!), mantenevo accesa la curiosità e mi riservavo ogni minimo lasso di tempo utile per approfondire la conoscenza teorica del Sudamerica e delle meraviglie in esso presenti: quelle che insomma non avrei mai permesso di non inseguire e raggiungere una volta lì.

    Inoltre realizzavo che, pur confidando su una grande propensione al sacrificio, invidiabili forza di volontà, determinazione e coraggio, oltre che su un’atavica tendenza alle basse pretese in termini di comfort, non sarei mai riuscito a compiere l’ambizioso disegno che alimentavo da anni, se non mi fossi concesso un così lungo periodo di tempo, senza ovviamente dimenticare il gradito e fondamentale supporto della Dea bendata.

    Una parziale conferma di questa tesi giungeva da mie ulteriori azioni preventive. Avevo infatti:

    - stilato una lista, meticolosamente ordinata e sequenziale, delle opzioni più convenienti, dai punti di vista logistico ed economico, di pernottamento nei luoghi che, di volta in volta, avrei voluto incrociare sul mio cammino;

    - tracciato un itinerario per tappe, con relativi punti d’interesse e tempi di soggiorno in base agli stessi;

    - preso nota dei mezzi, dei costi e dei tempi di spostamento da una tappa alla successiva;

    - elencato, per voci, la serie di spese fisse, per quanto in maniera niente affatto definitiva, che mi sarei trovato a sostenere giorno per giorno, a seconda del carovita di ciascun posto che mi ospitava.

    Chiaramente sapevo bene che annotazioni del genere avrebbero potuto rappresentare soltanto uno spreco di energie, essendo riferite ad aspetti che sottostanno alla sfera dell’imponderabile, dell’imprevedibile, dell’incerto. Tuttavia ero consapevole che questi appunti mi sarebbero tornati utili una volta là; li avrei sicuramente consultati e mi avrebbero conferito una certezza in più. E poi (cosa probabilmente più importante tra tutte) quest’azione verbalizzava la cifra della mia convinzione, prima che si vestisse di ostinazione e sfrontatezza direttamente sul campo.

    Quella famosa mail (di cui parlavo sopra) rappresentava di fatto un’occasione imperdibile, alla luce delle decine di analisi effettuate in precedenza, e dei numerosi confronti con persone che, prima di me, avevano acquistato un biglietto aereo on-line per destinazioni che escludessero il vecchio continente e che comprendessero un margine temporale, tra andata e ritorno, superiore alle quattro settimane.

    Il testo della mail, seppur racchiuso in una tabella ben più schematica, era precisamente il seguente:

    Gentile Davide D’ARIENZO

    Ti ringraziamo per aver effettuato una prenotazione in data 29/07/2013 alle ore 14:57 per:

    Un volo di linea Andata / ritorno Milano (ITALIA) / San Paolo (BRASILE)

    NUMERO DEI BIGLIETTI ELETTRONICI

    Compagnia emittente: American Airlines

    Data di emissione: 29/07/2013

    IATA: 20229252

    Riferimento GDS: WWF66U

    Passeggero: Adulto

    COGNOME / Nome: DARIENZO / Davide nato/a il 19/11/83

    Numero del biglietto elettronico: 0014162197960

    IL TUO ITINERARIO DETTAGLIATO

    Convocazione 3 ore prima della partenza presso il bancone di check-in della compagnia AMERICAN AIRLINES, muniti di questo documento.

    ANDATA/Volo di linea

    Partenza: Lunedì 4 Novembre 2013 – 10:00 / Aeroporto: Milano (Malpensa) Terminale 1

    Arrivo: Lunedì 4 Novembre 2013 – 13:15 / Aeroporto: New York (Tutti Gli Aeroporti) Terminale 8

    Compagnia: American Airlines / N° Volo: AA199 / Durata: 09 ore 15 / Classe: Economica

    Partenza: Lunedì 4 Novembre 2013 – 22:20 / Aeroporto: New York (Tutti Gli Aeroporti) Terminale 8

    Arrivo: Martedì 5 Novembre 2013 – 10:55 / Aeroporto: San Paolo (Guarulhos International) Terminale 2

    Compagnia: American Airlines / N° Volo: AA951 / Durata: 09 ore 35 / Classe: Economica

    RITORNO/Volo di linea

    Partenza: Venerdì 20 Giugno 2014 – 07:45 / Aeroporto: San Paolo (Guarulhos International) Terminale 2

    Arrivo: Venerdì 20 Giugno 2014 – 16:40 / Aeroporto: New York (Tutti Gli Aeroporti) Terminale 8

    Compagnia: American Airlines / N° Volo: AA966 / Durata: 09 ore 55 / Classe: Economica

    Partenza: Venerdì 20 Giugno 2014 – 18:05 / Aeroporto: New York (Tutti Gli Aeroporti) Terminale 8

    Arrivo: Sabato 21 Giugno 2014 – 06:20 / Aeroporto: Londra (Tutti Gli Aeroporti) Terminale 3

    Compagnia: American Airlines / N° Volo: AA100 / Durata: 07 ore 15 / Classe: Economica

    Partenza: Sabato 21 Giugno 2014 – 09:10 / Aeroporto: Londra (Tutti Gli Aeroporti) Terminale 5

    Arrivo: Sabato 21 Giugno 2014 – 12:05 / Aeroporto: Milano (Linate)

    Compagnia: American Airlines / N° Volo: AA6315*/ Durata: 01 ore 55 / Classe: Economica

    * Il volo n°AA6315 è effettuato da American Airlines in collaborazione con British Airways

    BAGAGLIO

    Passeggero: Adulto

    Bagaglio/i per passeggero: 2 bagaglio/i di 23kg max

    Beh, il biglietto era ormai cosa fatta, e la spesa (che per motivi di decenza non specificherò) costituiva un investimento importante, sebbene raramente riproponibile nel rapporto qualità/prezzo.

    Sapevo che avrei viaggiato su aerei boeing di eccellente qualità sia all’andata che al ritorno, qualora anche questo si fosse compiuto; sapevo che sarei rimasto via da casa per almeno sette mesi e mezzo; sapevo che le parti estreme di quest’esperienza si sarebbero consumate in differenti aeroporti, ma più di ogni altra cosa sapevo che quella successione di potenzialità esprimibile nel modo condizionale si sarebbe trasformata, a meno di assurde fatalità, nel giro di qualche mese, nella certezza dell’atto: in un concreto e vivo presente indicativo, prima di scivolare nella nostalgia del passato, una volta che mi fossi già trovato in un futuro che in quel momento era ancora chimera, che non mi era dato conoscere.

    Avvertivo una simile baldanza perché il mio orgoglio, il mio cuore, la mia voglia di evasione e conoscenza, e da quel momento in poi anche il mio portafogli, gridavano a gran voce: América del Sur! Era quello il momento adatto per scommettere con me stesso e con la mia vita, protetto da una fiducia irrazionale e ingiustificata nei confronti di un’incognita che nessuno avrebbe mai risolto, se non il sottoscritto. Man mano che trascorrevano le giornate dell’ennesima torrida e affollata estate gaetana, il flusso di emozioni di cui ero padre si dipanava con maggiore intensità, nei rapporti con colleghi di lavoro, amici e famiglia. La mia clessidra mentale si stava svuotando e non sapevo come decifrare quel coacervo di pensieri e sensazioni contrastanti susseguitesi durante quel tempo residuo che intercorreva tra le mie ultime settimane lavorative e l’abbandono (forse temporaneo, forse no…) del suolo italico, della terra su cui ero rimasto per ventinove anni della mia vita, interrotti saltuariamente da qualche breve viaggetto al limitrofo estero. Ansia e trepidazione, eccitazione e perplessità, paura e risolutezza! Queste sono alcune delle pulsioni interne che ricordo con chiarezza, soprattutto perché venivano rimbalzate da tutti, o quasi, gli ambienti a me familiari, durante l’intera fase a ridosso della partenza.

    Era quasi tangibile la tensione che traspariva dai miei affetti, una volta appreso che quello che un tempo era sogno, proposito, idea favolistica, è divenuto, in un anno e poco più, stimolo, progetto e infine realtà. «Secondo me non torni più!» era solo uno di tutti quei commenti, impostati sul nulla, eppure tra i più frequenti che mi siano stati rivolti dagli amici o presunti tali. Era curioso indagare oltre, perciò alla domanda con la quale replicavo, e che volutamente intendevo caricare di sarcasmo, «Ma perché, ci muoio?!», la maggior parte dei responsi diveniva accomodante e con massimo tatto, talvolta tradito da un goffo rossore sul volto, che lasciava intuire una non totale schiettezza da parte di chi lo mostrava, recitava quasi da copione nella seguente maniera: «Noooooo, macché? Volevo dire che magari ti fermi da qualche parte laggiù… ti innamori durante il viaggio… o magari cominci a lavorare in qualche posto che ti piace…». Tra molti serpeggiava anche questo interesse: «Ma se ti dovessi innamorare di qualcuna, lei ti chiedesse di seguirla, e fosse l’unico modo per soddisfare il tuo amore, o la tua passione, tu che fai? Molli il tuo progetto di viaggio, per poi magari riprenderlo in seguito, senza pensare di dover tornare per forza qui in Italia nella data stampata sul biglietto?!».

    Tutti quesiti legittimi e a loro modo interessanti, ma qualsiasi cosa rispondessi non aveva senso né utilità, se non quella di protrarre una sterile conversazione verso il ridicolo; dunque il mio verdetto, che aveva le mire di far percepire nettamente all’interlocutore la mia lucidità nel perseguire il fine che mi ero prefisso, recitava pressappoco così: «Io ho sognato, lavorato e studiato tanto per realizzare questo viaggio itinerante, quindi il viaggio è l’indiscusso protagonista! Questo deve essere chiaro! Io parto per la sola ragione che la buonanima di quel genio di Fabrizio De André cantava, in riferimento ad un’antichissima quanto numerosa etnia di rom balcanici, in quello straordinario brano dal titolo Khorakhané (A forza di essere vento)… e quella ragione è viaggiare! Se poi dovessi imbattermi nell’amore, ben venga! Sinceramente me lo auguro, e per la verità non saprei immaginare questo lungo periodo privo di qualsivoglia forma di amore… Fosse anche una banale scopata, purché non acquistata come alle bancarelle, ben venga! Quanto all’aut aut non ci sto! Non esiste! Sottopormi al giochino della torre, del vuoi più bene a mamma o a papà?, non fa per me, ma soprattutto non è un interrogativo ascrivibile a questo momento della mia vita… Semmai amore dovesse essere, sarebbe senza dubbio capace di attendere che il mio sogno si concretizzi, dal principio alla fine, tanto più che io parto per quel sogno e non per quell’amore…».

    Questa fermezza nelle mie risposte lasciava un pizzico spiazzati, me ne rendevo conto piuttosto in fretta, ma poi, per delucidare meglio il mio pensiero e non assumere una posizione tanto fondamentalista, me la cavavo sempre con un: «Poi comunque, boh!, che ne posso sapere io di cosa succederebbe in una situazione simile?! Lo scopriremo solo vivendo!, tanto per accarezzare nuovamente il palcoscenico musicale nostrano. L’importante, per quanto mi riguarda, è non avere rimpianti una volta che tutto sarà finito…».

    Questo ripetevo agli altri e forse anche a me stesso. Certamente mi faceva bene riascoltarlo di tanto in tanto, come un mantra che dovesse accompagnarmi poi in quel lontano continente.

    In particolare due interventi, sempre provenienti dal variegato contesto di amicizie a cui ero solito accompagnarmi, mi diedero da riflettere, anche perché muovevano da presupposti simili per poi deviare verso questioni opposte. Il primo fu un perentorio quanto arbitrario: «Secondo me laggiù non troverai le risposte che cerchi!». Di primo acchito pensai: Ubi maior, minor cessat!.

    Fu uno dei miei grandi amici a pronunciarlo, ma non aveva né il tratto distintivo dell’asserzione figlia dell’invidia, né tantomeno portava in seno qualche altra dietrologia contorta e antipatica da digerire. Era una vera e propria preoccupazione espressa con semplicità e con quella confidenza che ci aveva tenuto legati, e lo fa ancora adesso, da anni! Era Rosario, con le sue proprie debolezze e con tutte quelle che assorbiva dall’esterno assumendole come proprie, facendosene carico e credendo di poterne sempre sostenere il peso, ma che non di rado lo incalzavano ai fianchi quando meno se lo aspettava.

    Non poté che procurarmi un sorriso questa sua opinione e, un po’ basito, un po’ deluso, gli replicai: «Ma scusa Rosa’, ma tu mi hai sentito fare qualche domanda di natura escatologica?! Ma è così strano sentire dire: vado via per tot tempo col solo fine di scoprire cosa c’è dall’altro lato del mondo?! Come se poi non avessi reso pubbliche le mie intenzioni esplorative in dettaglio… Non preoccuparti amico mio, io attualmente non cerco alcuna risposta! Tu piuttosto, tu che ci credi, rivolgimi sempre qualcuna delle tue preghiere! Sarò ancor più sollevato al sapere che lo farai…».

    E lui prontamente: «Non serbare il minimo dubbio in merito, pregherò per te ogni giorno finché non avrò il piacere di riabbracciarti…».

    Il secondo stralcio che mi impressionò fortemente giunse ad opera del mio omonimo amico, nonché ex compagno di studi universitari, nonché inesauribile fucina di preziosi spunti di riflessione. A pochi giorni dalla mia partenza mi scrisse un sms, che comunicava un qualcosa che in pochi immaginano di suggerire o proporre ad un prossimo partente verso l’ignoto, oltretutto se si tratta di un amico che si appresta ad accettare questa sfida in completa solitudine: Ti auguro non tanto di trovare risposte sul tuo cammino, quanto piuttosto di accumulare ulteriori domande. Buon viaggio amico mio!.

    Mi stupisci sempre in positivo! Non posso fare altro che dirti sinceramente: Grazie! – sentivo che fosse la risposta più adeguata che gli dovessi. Il fatto era che Davide riusciva sempre a distinguersi dalla maggioranza, a dire cose mai banali, a contribuire sempre e comunque mediante le sue distintissime personalità e garbo. E poi la cosa che mi ha sempre affascinato e grazie alla quale sentivo come se procedessi in sincrono con lui il più delle volte, era quella sua tendenza genuina a trattare ogni suo confronto dialettico (a tutti i livelli) senza ergersi mai a protagonista, nonostante la stima nei suoi confronti fosse conclamata da più parti. In assoluto quel suo messaggio rappresentò, allora, l’augurio che aveva sollecitato maggiormente le mie sinapsi, quello che avrei desiderato qualcuno mi rivolgesse. La notte della vigilia, come era prevedibile ipotizzare, fu trascorsa per gran parte in uno stato di dormiveglia, ingolfato di ragionamenti più o meno articolati in merito all’imminente e misterioso futuro che l’indomani stesso mi si sarebbe dispiegato dinanzi. Poi però, l’istante della partenza, un conto è immaginarlo e prepararlo, un altro è viverlo e quasi farsi travolgere da esso… E così quella mattina di sabato 2 novembre del 2013, tutto era pronto e organizzato come meglio non avrei saputo fare.

    Nello zaino grande da trekking – con lo schienale ergonomico – avevo riposto gran parte del mio equipaggiamento: sei maglie leggere, di cui cinque t-shirt ed una a manica lunga; una canotta elastica; sette paia di mutande e altrettante di calzini di varia misura; una felpa con cappuccio; un cappello di lana leggera; una giacca modulare semi-impermeabile, che con un po’ di sacrificio potesse tornare utile per molteplici temperature e climi; un paio di ciabatte infradito sottili di gomma; quattro paia di pantaloni, di cui due jeans e due shorts; un paio di scarpe da trekking; un beauty-case con tutto il nécessaire per la pulizia del corpo e l’igiene intima, oltre al rasoio elettrico per capelli (non avrei mai abbandonato del tutto la causa estetica, tantomeno avrei devoluto una tassa fissa per il barbiere!) e svariate confezioni di medicinali e contraccettivi; un pantaloncino ed una tuta, che all’occorrenza avrei adoperato a mo’ di pigiama per la notte, ed infine una serie di adattatori per non farmi trovare impreparato con le differenti prese elettriche che sicuramente si sarebbero avvicendate, nelle fattezze più disparate, da un paese all’altro. Quanto al secondo bagaglio, quello che mi avrebbe fatto compagnia ad ogni avventura, si trattava di uno zaino di piccola taglia, al cui interno avevo inserito tutto ciò che ritenevo opportuno avere a portata di mano in ogni momento: il kit di dispositivi funzionali a collezionare e salvaguardare i miei ricordi in digitale, composto da una fotocamera compatta subacquea della Nikon e una videocamera JVC di dimensioni ridotte, in aggiunta ad un tablet, di cui mi sarei valso prevalentemente per sfruttare le connessioni Wi-Fi; l’insieme dei documenti personali; una copia de La casa del sonno di Jonathan Coe; la guida e il quaderno degli appunti.

    Il viaggio lo avrei condotto in completa solitudine, perciò l’idea (che avevo maturato già da settimane) di uscire di casa alla volta della pensilina, presso cui avrebbe transitato il trasporto pubblico, mi pareva congrua al tema di fondo. Mia madre però, col cuore in subbuglio da quando avevo formalizzato le mie intenzioni, si sarebbe fatta fucilare pur di non rinunciare ad accompagnarmi nel luogo da cui tutto sarebbe cominciato, consapevole e timorosa che quell’esperienza avrebbe potuto, seppur in percentuale contenuta, essere l’ultima condivisa. Il buon senso e la leggerezza che mi pervadeva e che a tratti cedeva il passo a tumulti interni non meglio decifrabili, mi permisero di cogliere quell’evento come un’ulteriore occasione per vivere la donna che mi aveva partorito (in fondo, vista sotto una chiave deterministica, era anche merito suo se mi apprestavo a quell’impresa!) e farmi vivere da lei.

    Otto chilometri, poco meno di mezz’ora e una velocità di crociera alla stregua di una lezione di scuola guida, per non servire l’assist all’apprensione, già di suo poco arginabile, della mamma.

    Durante il tragitto c’è tempo per scambiare ancora qualche parola, senza però mai insistere su un distinto piano semantico, forse proprio perché la confusione era tale da contaminare tutto l’abitacolo. Mio fratello, apparentemente, non lasciava trasparire alcuna emozione degna di nota e proseguiva la guida della sua Seat senza sbavature, quando finalmente imboccammo lo svincolo che spalancava l’accesso alla stazione ferroviaria di Formia. Parcheggiamo, e i gesti, per anni abituali in quel piazzale assediato dalle vetture in sosta e dall’andirivieni dei pendolari, si caricano di uno spessore insolito, quasi rituale, eppure dolce nella sua evoluzione incontrollata.

    Siamo in anticipo di cinquanta minuti, secondo più, secondo meno, sull’orario di partenza stimato, almeno stando a quanto fosse impresso sul biglietto del treno Intercity per Milano, biglietto che avevo scientemente riservato proprio a ridosso dell’acquisto del volo intercontinentale che avrebbe decollato solo un paio di giorni più tardi dall’aeroporto di Malpensa. C’è tutto il tempo per concedersi il secondo caffè della mattinata, stavolta al bar; così da assistere impotenti alle avide boccate di mamma all’ennesima sigaretta, prima di trascorrere gli ultimi momenti in famiglia come era giusto che fosse, attendendo presso il terzo binario, avvolti da una strana forma di inquietudine. Qualche reciproca breve interrogazione, più per rompere il silenzio che per conoscerne la risposta; gli sguardi rivolti ovunque, ma senza troppo interesse per ciò che accadeva attorno. Forse per esorcizzare quegli attimi, mio fratello comincia a scattarmi qualche foto col suo smartphone; d’altro canto impersonavo una versione inedita di me medesimo, e potevo – mi si conceda questo slancio auto celebrativo! – rappresentare un soggetto interessante e fotogenico: uno zaino sulle spalle che, nella sua parte superiore, mi lambiva la nuca e, in quella inferiore, arrivava ad infastidirmi le natiche; l’altro zainetto, a fantasia mimetica, che ora portavo appeso sul davanti in maniera simmetrica a quello, ora tenevo in mano; berretto verde militare e occhiali da sole con lenti scure, attraverso cui ogni espressione degli occhi veniva sensibilmente filtrata.

    È grazie a quelle lenti se la mia manifesta serenità di quel mattino, mediamente soleggiato, non venne tradita dall’emozione luccicante nel mio sguardo.

    Passa un convoglio a tutta velocità e sono convinto che, in quel preciso istante, nessuno dei tre si astenne dal tirare segretamente un sospiro di sollievo, nello scoprire che non fosse ancora quello atteso.

    Ne giunge un altro, di lì a qualche minuto, però questo si lascia osservare da lontano nel suo incedere frenato verso la nostra posizione, e ci si sarebbe rassegnati ai saluti del caso, se non avessimo fatto caso alle anticipazioni dell’altoparlante e ad un piccolo, ma determinante dettaglio: proveniva dalla stessa direzione verso cui il mio avrebbe dovuto procedere; era il diretto per Napoli Centrale!

    Mia madre, oltremodo scossa da quella staffetta incessante di treni e incalzata dall’inesorabile giro di lancette dell’orologio rotondo che, invadente, s’innalzava sulle nostre teste, ebbe l’irrefrenabile impulso di dire qualcosa, secondo quanto ricordo, in questi termini: «Davide, ma sei proprio sicuro? Non devi andare per forza! Guarda che, se pure volessi rinunciare, non sarebbe affatto una sconfitta…». Sopraggiunge adesso alla mia mente una frase che un giorno lessi su uno dei tanti esempi letterari, dai quali cerco di trarre ispirazione, e che non saprei dire con inconfutabile certezza quale fosse, ma di cui ricordo, quasi a menadito, il senso che intentava conferirgli l’autore, e che avrebbe senz’altro dotato di maggior vigore semantico la mia replica di figlio, ma ancor prima di uomo: Il fatto è che viviamo ritardando tutto il ritardabile; forse sappiamo tutti profondamente che siamo immortali e che, presto o tardi, ogni uomo farà tutte le cose e saprà tutto.

    Allora invece mi limitai più semplicemente a contestarle con un tono sarcastico, ma con estremo realismo, in via retorica: «Ma sei impazzita o stai solo scherzando?! Secondo te, dopo tutto quello che ho fatto, dopo tutto quello che ho speso, in termini di tempo e danaro, dopo tutti gli arrivederci o addii che ho scritto e comunicato, io rinuncerei mai a quello che mi aspetta?!».

    «Certo, figurati, lo so, lo so! Conosco bene i tuoi sforzi fatti e ne riconosco la portata, ma quello che volevo dire è che, se adesso hai qualche ripensamento, qualche dubbio, non è mai troppo tardi per tornare indietro…», ribatté lei con l’aria tenera della madre che mai e poi mai desidererebbe divenire causa del disappunto del figlio, alla vigilia di un momento storico del loro rapporto.

    Al che le dissi: «Io ho capito perfettamente quello che volevi dirmi e ti ripeto: sei pazza? Ammesso che io abbia qualche perplessità, è palesemente troppo tardi per tornare indietro, e ti dirò di più: è anche smisuratamente stupido farlo!».

    «Perché sarebbe stupido? Ma non hai paura?», riprese con fare incredulo.

    Era a quel punto necessario essere chiaro e risoluto: «Cara mamma, tu mi conosci, o almeno in parte dovresti conoscermi! Dovresti avere confidenza con il mio orgoglio e la mia ostinazione; dovresti sapere che, quando mi metto in testa una cosa, cascasse il mondo, devo fare di tutto per ottenerla! In questo caso, il tutto che mi spettava già è storia adesso; ora non mi rimane che aprirmi all’indefinito, alle contingenze che mi vedranno protagonista, o dalle quali verrò travolto, e guardare avanti, puntando dritto all’obiettivo da raggiungere. Quanto alla paura, e chi non l’avrebbe in situazioni simili?! Guai a non provarne e mostrarsi arroganti, come se tutto fosse sotto controllo! Io non sono un superuomo, ma credo che la paura, a patto che non si trasformi in fobia, debitamente gestita e affrontata nel momento adatto, può rivelarsi una risorsa fondamentale per dimostrare il proprio coraggio e le proprie capacità di fronteggiare le situazioni più problematiche. Come dice il proverbio? Chi non risica non rosica! E poi oggigiorno il pericolo è in ogni dove e le paure condizionano i nostri desideri e la nostra intera esistenza. Io voglio mettermi in gioco, rischiando anche tanto, ma inseguendo quei presupposti che mi facciano avere la netta sensazione di aver ottenuto qualcosa di veramente straordinario nella vita, ma di questo ne abbiamo già parlato più volte, non credi?» – smorzai la conversazione con distinta pacatezza, accompagnata dal sorriso più rassicurante che potevo donarle in quel momento.

    Anche Lele probabilmente avrebbe voluto indagare le ragioni di questa mia estrema velleità e la vera natura di quelle mie emozioni circoscritte, ma la timidezza e il rapporto da sempre imperniato su un confronto saltuario, spesso conflittuale e mai intimo abbastanza, con me che ero il fratello minore, lo fece desistere prontamente, malgrado il suo volto, unico dei tre spogliato degli occhiali da sole, comunicasse ben più delle parole…

    Mancava poco davvero, e adesso l’attesa iniziava ad essere logorante; pensai che, come per un’estrazione dal dentista, fosse meglio che tutto lo psicodramma imminente si consumasse il più in fretta possibile. Il cerotto va strappato in un’unica azione decisa! Dolore intenso ma breve!

    Fu allora che, preceduto dal solito fastidioso stridio dei freni sulle rotaie, il treno tanto agognato apparve laddove la mia vista mi permetteva di scorgere.

    Palpitazioni accelerate, vampate di calore, lucidità negli occhi (saldamente occultati dietro le lenti scure), finché il vagone che lentamente procedeva al suo completo arresto, non si bloccò alle mie spalle spalancando le porte a scorrimento per invitarmi a salire a bordo. Non v’era altro essere umano a cercare quell’ingresso! Era solo nostro quello spazio, come se ogni passeggero in transito di lì avesse percepito che il momento era di quelli delicati, di quelli che non si oserebbe mai disturbare, neppure con un semplice, discreto e garbato permesso, mi scusi….

    Avevo già caricato alla bell’e meglio i due bagagli sulla passerella intercomunicante tra i vagoni e conquistato la scaletta d’accesso, quando il mio volto divenne una maschera, timorosa e fremente al contempo. Avevo preso atto, e con tutta probabilità non ebbi l’esclusiva in questo, che quelli lì sarebbero potuti essere gli ultimi tre o quattro minuti a mia disposizione per guardare in faccia ciò che restava della mia famiglia, per pronunciare le ultime parole, esprimere una richiesta o un desiderio, trasmettere amore. Ma, al di là di qualche sterile scambio accessorio, quei minuti lasciarono in eredità il mio viso arrossato, un sorriso impacciato (appena accennato e suscettibile di interpretazioni) sulle labbra di mio fratello, e la rassegnazione sconsolata che prendeva corpo attraverso le pieghe dell’ovale smunto di mia madre. L’ultimo abbraccio, composto e asettico con Lele; verace e vorace con la mamma in preda alla commozione; il fischio del capostazione a ricordare che a tutto c’è un inizio e una fine, arrivo e partenza, unione e abbandono.

    E allora comincio col prendere confidenza con la mia carrozza: attorno a me solo due signori di mezza età, distanti due file dal posto che avevo riservato, lato corridoio di spalle; aprii il finestrino senza dover chiedere il permesso a nessuno e, nel tentativo di portarmi dietro la miglior immagine possibile di lei, nel vedere mia madre che intanto aveva acceso un’altra sigaretta e attendeva, smarrita e lacrimosa, che il treno si perdesse oltre le sue percezioni audiovisive, mi venne da domandarle, pur conoscendo già la risposta: «Perché piangi?».

    «Perché te ne vai e non so se ti rivedrò più!», rispose senza tradire le attese.

    «Devi essere felice che vado via! Io lo sono, perché sto rincorrendo la mia felicità. Non piangere e sii felice per me!», replicai come in altre circostanze sul medesimo argomento.

    «Quando arrivi a Milano?», la sua ridondante curiosità.

    «Ne abbiamo già parlato abbondantemente, mamma! Ci vorranno circa otto ore, perciò stai tranquilla! Quando arrivo, ti chiamo!», dissi con serafica pazienza.

    «Mi raccomando a te! Occhi bene aperti e sta attento!» – mi ammonì come se fossi destinato alla guerra! Ci guardammo fino a quando le nostre capacità visive ce lo permisero e poi, col treno che aveva appena cominciato a guadagnare velocità, fui costretto a dare il la al confronto con me stesso.

    Non sono mai stato a Milano prima d’ora!, pensai, e ragionai su come questo dato presentasse immediatamente aspetti positivi, quali la necessità impellente di misurarmi con una nuova realtà metropolitana in completa solitudine e soprattutto il dovermi confrontare, per la prima volta, con le dinamiche incerte di un dormitorio. Non ero un totale sprovveduto degli ostelli, anzi, ma certamente non potevo sostenere lo stesso in fatto di dormitori; in tutte le mie esperienze di viaggio, o comunque di pernottamento presso strutture ricettive di qualsivoglia genere, ho sempre alloggiato in stanze private, singole o condivise con affetti o amicizie. Sarà indubbiamente un’esperienza propedeutica a tutto l’oceano di difficoltà che mi troverò ad affrontare nel giro di qualche giorno…, recitavo tra me e me, mentre lo spazio nel quale mi trovavo comodamente piazzato si accingeva rapidamente a gremirsi di tutti quei passeggeri ritardatari e obbligati ad una ricerca spasmodica della propria collocazione.

    Quando la carrozza era già piena per più di tre quarti, il mio zaino grande (accuratamente foderato del suo stesso rivestimento impermeabile di un giallo abbagliante e che, a differenza dell’altro, per le sue dimensioni extralarge non avrebbe mai potuto porsi se non al fianco esterno del mio sedile) cominciò a rappresentare un impedimento non da poco per il passaggio di quanti intendessero raggiungere la toilette o semplicemente ammazzare il tempo con una passeggiata da un vagone all’altro.

    La cosa mi arrecava un minimo di imbarazzo, ma risolsi in fretta l’impasse rassegnandomi a porgere le mie scuse, ingentilite da un cordiale sorriso, a chiunque avesse palesato il proprio fastidio nel traversare quella zona. In fondo non ero io a dover rispondere dell’inadeguatezza delle aree adibite alla sistemazione bagagli che le Ferrovie dello Stato Italiane mettevano a disposizione del viaggiatore.

    Nel prosieguo del lungo percorso che conduceva a Milano, per fortuna, potei cogliere una considerevole dose di complicità e rispetto nei confronti della mia condizione: era facilmente intuibile che fossi un viaggiatore destinato a chissà quali lidi, e sicuramente assai più remoti della città meneghina; forse anche per questo la famiglia (che avrei giurato distintamente lombarda) che, sin dalla fermata alla stazione di Roma Tiburtina, divideva con me il quartetto di poltroncine al centro sinistra della carrozza, mi gratificò con un atteggiamento amabile e cortese.

    Le stazioni si susseguono incessantemente e, tra brevi appunti scritti tra mille sobbalzi, letture distratte, musica in cuffia e qualche rara sgambata (per sgranchirmi le gambe o per espletare qualche esigenza corporale…), senza quasi rendermene conto, sono trascorse poco meno di sette ore e siamo già molto vicini alla meta finale. Con incredibile stupore, prendo atto della puntualità quasi svizzera (e affatto frequente) da parte del treno, quando la giovane donna, impegnata per buona parte del tragitto a tenere a bada la vivacità divertente dei suoi due bambini, richiama l’attenzione del marito, assorto nella lettura del Corriere della Sera alla mia destra, e lo invita ad estrarre il cumulo di bagagli bene incastrati sugli scaffali sovrastanti il nostro scomparto.

    In quel momento ritenni scontato che fossero vicini alla loro fermata la quale, con una certa soddisfazione per la giustezza dell’intuizione avuta in precedenza, scoprii essere Lodi.

    Nonostante la reciproca discrezione ci avesse trattenuto da stupidi convenevoli e indagini da buon vicinato, mi salutarono con estremo garbo, augurandomi buon viaggio. Non sapevano neppure dove andassi e per quanto tempo sarei rimasto via, ma non si sottrassero alle regole del buon costume, sebbene il mio aspetto non fosse rassicurante al massimo in quella circostanza.

    «Grazie mille e buona serata signori!», fu la mia sorridente risposta.

    Mi aveva caricato di ulteriori speranze quel piccolo gesto, cosicché ripresi sereno la consultazione della mia guida, potendo oltretutto disporre di nuovo della libertà spaziale così come nel principio del viaggio, per quella che di fatto era l’ultima ora da percorrere sulle rotaie. Mancavano infatti solo due stazioni per raggiungere Milano Centrale.

    Arrivai all’ombra della Madonnina – era la mia prima volta – in piena notte; la stazione si presentava imponente e autoritaria come nelle centinaia di immagini che mi era capitato di vedere in passato. Nonostante fosse novembre, la temperatura si trascinava ancora dietro gli strascichi di un’estate torrida, o almeno così mi parve, rendendomi conto di essere probabilmente l’unico, all’interno di una stazione brulicante, ad essere vestito in shorts e maglietta a maniche corte.

    Avevo tutte le informazioni logistiche per giungere, in tempi rapidi, all’Hostel California, laddove avevo riservato con settimane di anticipo un posto letto in dormitorio misto (anche in tal senso mi approcciavo all’esperienza da assoluto neofita…). La linea metro, a qualche centinaio di metri dalla stazione ferroviaria, mi condurrà nella via del mio alloggio in meno di venti minuti, cosicché, intorno alle nove di sera, avrò già riconosciuto l’insegna spoglia e anonima che segnalava l’ingresso al luogo che avrebbe ospitato il mio sonno per due notti.

    L’accoglienza è formale, da parte di un ragazzo che non si smuove di un centimetro dalla sedia dietro il banco della reception e che, d’istinto, osservando la sua fisionomia, avrei scommesso provenire da paesi asiatici quali Pakistan o Bangladesh. Una volta forniti i documenti, pagata la quota residua – che si andava ad aggiungere all’acconto versato nello stesso istante della prenotazione –, ed espletate le dinamiche di registrazione, al tizio non rimane che indicarmi sommariamente, e senza che fuoriuscisse il minimo entusiasmo, dove fosse la mia camera, il mio letto e il bagno, ovviamente anch’esso condiviso. Guardandomi intorno, realizzo in fretta che prezzo della stanza e collocazione della struttura fossero in linea con le mie aspettative, quindi, carico di speranza, mi precipito a disporre nella maniera più consona i miei possessi nelle vicinanze della branda assegnatami.

    Quattro letti paralleli, il cui spessore mi apparve indicibile, separati da circa un metro l’uno dall’altro; l’ultimo di questi corre adiacente alla parete dirimpetto alla porta d’ingresso, la quale si distingueva per un singolare attrito col pavimento che, incredulo, mi accorsi essere di recentissima restaurazione. Magari fosse il mio!, pensai, riconoscendo, con una punta di delusione, che era piuttosto sfatto e che il posto a me attribuito era quello immediatamente precedente: il terzo a partire dall’ingresso.

    La luce era accesa, fioca, non vana, ma neppure opportuna. A un passo da me, notai l’unico giaciglio già occupato di buon’ora, da un ragazzo opulento e poco discreto nei moti del sonno; ad occhio e croce non doveva avere più di trent’anni. Lo lasciai nella sua fase REM e mi accinsi a perlustrare le strutture comuni, con la flebile speranza di incappare in qualche incontro gradito e stimolante.

    Ahimè, non fui particolarmente fortunato, e quelle poche figure che si muovevano agiatamente lungo le zone relax erano per lo più assorte in faccende private, che non concedevano troppe chance all’idea di poter essere interrotte molto facilmente. In totale contai sette, otto ragazzi, di un’età compresa tra i 20 e i 32, 33 anni; mi resi subito conto di essere tra gli ospiti più adulti, ma non diedi molta importanza alla questione, puntando semmai l’attenzione a quelle dinamiche di condivisione intermittenti e rattrappite, che onestamente, nelle fantasie della vigilia, avevo immaginato molto più fervide e assidue.

    La stanza si presenta con la forma di una L al contrario, misura approssimativamente una quindicina di metri quadrati, ed il soffitto ha un’altezza che varia dai tre metri circa sino al metro appena nel punto più basso, per via del tetto a spiovente che le conferisce un certo fascino da baita di montagna.

    Un frigo per le cibarie degli ospiti nell’angolo in fondo, affiancato da un lungo piano d’appoggio in muratura, rivestito in marmo (almeno così mi era sembrato), a sua volta vicino ad un tavolinetto in legno e tre sedie, dello stesso materiale, posizionate nei loro pressi: tutto lasciava presupporre (e la serie di prese elettriche a muro lo confermava) che fosse la postazione assegnata prevalentemente all’uso di notebook, tablet e altri dispositivi per la navigazione sul web, visto anche il router che, da uno scaffale un paio di metri più in là, diffondeva un ottimo segnale per la connessione in tutta la stanza.

    Al centro di questa v’erano due tavoli, pur’essi in legno, con base pieghevole in metallo, tipici delle feste di paese; e poco distante l’elemento forse più romantico, ma del quale non era concesso vedere l’attività: un camino in muratura che, a giudicare dalla griglia poggiata sui mattoncini laterali, faceva volare la fantasia a chissà quali succulente grigliate di carne.

    Rammentai, non senza un brivido d’ansia, di dover mantenere la promessa fatta a mia madre una decina d’ore prima, cosicché le telefonai, aggiornandola sulle mie prime esperienze in solitaria, inclusa una descrizione più o meno dettagliata sulle condizioni dell’ostello, prima di salutarla per dedicarmi a qualche insorgente bisogno primario.

    Ricordo che, mentre addentavo la mia cena fatta di panini al prosciutto e formaggio, con la testa rivolta ai lidi oltreoceano, un ragazzo di corporatura esile e pallida si avvicinò al tavolo di legno chiaro, posto proprio sotto il lucernario nelle vicinanze del piano cottura, e mi chiese a gesti se gli fosse concesso di accomodarsi sulla stessa panca dove sedevo io. Era più alto di me e aveva i tratti somatici che mi facevano pensare ad una radice balcanica; all’istante acconsentii al suo cenno e, di lì a poco, avremmo scambiato i reciproci convenevoli: si presentò come Richie (mi feci fare lo spelling), nome che ritenni alquanto insolito per un ragazzo che diceva di venire dalla Slovacchia. Ventiquattro anni, carnagione bianca, occhi di un colore indefinito, con tonalità marroni, capelli castani, originario di Bratislava; questo l’identikit sommario e preliminare di Richie!

    Quando gli rivelai di aver visitato la sua città, e cominciai a sciorinare l’elenco di bellezze e monumenti che riuscivo ad attingere dalla mia memoria, il suo orgoglio ebbe un palese sussulto: riteneva cosa rara l’incontro con un viaggiatore che fosse stato nella capitale del suo paese.

    Parlammo lungamente della sua città, del mondo occidentale, di quell’altro, della cultura del viaggio, della speculazione ai danni dei più deboli, delle nostre aspettative e di molto altro: lui ingegnere meccanico e io, non so! Parlammo in inglese, molto più fluido per lui che per me, e negli aspetti cruciali della conversazione, laddove si rendeva necessario il vocabolo preciso, il traduttore di Google ci veniva in soccorso. La sua brillantezza è tuttora un vivido ricordo!

    Dopo aver svelato le rispettive motivazioni per le quali ci trovassimo in quell’ostello milanese, proseguimmo a discutere a lungo sulla natura del viaggio e sulle più grandi velleità che ci spingevano a cercare altrove quelle soddisfazioni che non sapevamo più riscontrare nei nostri paesi natale.

    Tra una ciarla e l’altra, mi resi conto che avevamo già superato la mezzanotte; era ora di dormire ed inoltre sentivo il bisogno di riposarmi a dovere: troppo forte la brama di conoscere, l’indomani stesso, quanto più possibile del capoluogo lombardo, ma soprattutto di tener fede ai miei propositi di scoperta del nuovo, senza farmi condizionare, a prescindere, dalle migliaia di tentazioni che trascina con sé l’incontro con l’altro. Ero cosciente di essere al principio di un periodo che, giorno per giorno, si sarebbe arricchito di nuove conoscenze, avventure, esperienze, che avrei dovuto imparare a gestire seguendo quelle che erano le mie priorità. Così ci scambiammo la buonanotte, e rinviammo eventuali ulteriori chiacchiere al mattino seguente.

    Capitolo II

    Verso il Nuovo Mondo

    Al mio risveglio, che si completò intorno alle 8:45, Richie ancora non si era fatto vivo (molto plausibile l’ipotesi secondo la quale stesse ancora dormendo; più inverosimile una sua uscita mattiniera.), perciò mi fiondai, senza apparente foga, sull’angolo breakfast, laddove gli ospiti potevano servirsi autonomamente, lontani dall’occhio inquisitore del solitario, asettico, gestore.

    Nel ventaglio di primizie dalle quali attingere vi sono latte, caffè, cereali, pane in fette, marmellate in confezioni monodose e succo d’arancia. Opto per un discreto, e meno ingordo possibile, assaggio generale, seduto sullo stesso punto della sera precedente, ma stavolta quasi abbondantemente illuminato dai raggi solari che filtravano dalla finestra sovrastante e terminavano la propria corsa sul mio profilo destro. Ora, con la luce diurna e una lucidità del tutto ripristinata, potevo esaminare ancor più nel dettaglio l’ambiente circostante: sembrava una mansarda con infissi in legno e pareti in muratura, ora colorata di un verde pastello, e ora dallo stile rustico con i mattoncini di terracotta a vista, che le conferivano un forte senso di accoglienza, seppur antitetico rispetto alle impressioni ricevute qualche ora prima da colui il quale, specificamente, avrebbe dovuto assolvere quel ruolo.

    Isolato, eppure nel fulcro di quel settore condiviso, consumo la mia colazione, mentre controllo distrattamente la posta elettronica. All’improvviso una ridente e vispa ragazza si accomoda all’altro capo del tavolo, subito seguita a ruota da un ragazzo opulento, che forse (non ne sono certo!) rispondeva alla stessa figura che durante la notte avevo visto agitarsi, e udito russare nel letto accanto al mio. Anche il loro scambio avviene in inglese, ma da un ascolto fugace intuisco che lei è una mia connazionale, molto capace nella pronuncia, mentre lui, con tutta ragionevolezza, proviene dagli Stati Uniti.

    La dinamica gestuale e la natura di alcune frasi che, non senza difficoltà, ero riuscito a tradurre, facevano supporre un corteggiamento approcciato dall’americano, piuttosto prontamente smorzato. Fatto sta che, nel giro di pochi minuti, il tizio prende il largo e nel frattempo lei comincia a consultare il cellulare, senza troppa concentrazione.

    «Are you travelling alone?», mi spiazzò.

    «Yes, and you?».

    «Mmmm, asp, come posso spiegare…», bisbigliò tra sé e sé, forse applicando quella malsana tecnica di traduzione pedissequa di un concetto, dalla lingua madre a quella anglosassone; prontamente la interruppi e, celando completamente il sospetto che avevo già maturato in merito, le chiesi, con sottinteso e contenuto stupore, se fosse italiana.

    Sveva, questo il suo nome, aveva allora ventidue anni ed era originaria della Sicilia, precisamente di un paesino di poche anime nel catanese (mi disse quale, ma l’ho rimosso…); lunghi capelli neri lisci e morbidi, a giudicare dall’aspetto; occhi molto scuri e profondi e naso leggermente importante, che puntava verso il basso, a infondere maggiore personalità ad un corpicino atletico e ad una bellezza genuina e vivace. Viveva in quell’ostello da oltre due mesi e lo aveva eletto come l’alternativa più economica e vantaggiosa, dal punto di vista logistico, per diplomarsi al conservatorio di musica, che frequentava da alcuni anni. Appariva, fin dal primo sguardo, una ragazza-donna, risoluta, eppure delicata e gradevole nel dialogo. Al confidarle il mio imminente piano itinerante, i suoi occhi si gonfiarono di meraviglia e suggestione; mi interrogò su fatti, moventi, e aspettative generali e, una volta percepita la leggerezza e l’incanto con cui ne parlavo, azzardò un’indagine più intima, che bypassava i crismi della discrezione e muoveva da una (così mi apparve evidente) naturale e disinteressata curiosità, scevra di qualsiasi contaminazione dietrologica.

    Mi sentii orgoglioso ed emozionato a condividere quello che avevo appreso da alcune letture, piuttosto che da documentari filmati, e quello che conservavo nel cuore e nella testa, sotto forma di progetti e ancora di sogni; tanto più che lei, quando pure accusava il bisogno di interrompere la mia irrefrenabile favella, lo faceva per la sola pretesa di renderla ancora più labirintica, intricata, complessa. Ingenuamente, ma con un carico fascinoso di tenerezza, quando l’intero mio proposito le fu chiaro, venne assalita da un comprensibile dubbio che presto mi manifestò: «Ma non senti la minima paura davanti alla consapevolezza di stare solo e lontano da casa, in una parte di mondo sconosciuta, per tutti questi mesi?».

    Da un passo di un suo celebre libro, Jorge Luis Borges mi suggeriva una frase idonea, o forse la migliore di tutte le frasi possibili in un contesto del genere: L’esecutore di un’impresa atroce immagini d’averla già compiuta, s’imponga un futuro che sia irrevocabile come il passato.

    Io, molto più banalmente, le confessai che giudicavo la paura naturale e necessaria per l’adempimento di simili imprese e conclusi il mio pensiero sotto una luce deterministica, secondo la quale il negarsi un’azione, sia essa di qualsiasi livello di difficoltà, per il solo timore di vederla naufragare, equivale ad essere già morti. All’udir ciò, Sveva trasecolò…

    Il grado di confidenza (e direi affetto) avvertito in quel paio d’ore scarse di chiacchiere, lo giudicai inverosimile; l’orologio rotondo appeso all’ingresso della zona relax segnava le undici e dieci e, mentre Sveva poteva esercitarsi col violino in assoluta autonomia in qualsiasi fase della giornata per chissà quanti altri mesi, a me non restava che approfittare di quelle ore per cercare di conoscere le più conclamate caratteristiche di Milano, città che prima di allora avevo solamente attraversato in macchina – ironia della sorte! – proprio al ritorno di un viaggio adolescenziale nel centro-nord Europa.

    Quella sera, purtroppo, non avrei potuto rivedere Sveva a causa di un inderogabile impegno privato che lei aveva già fissato da giorni; ci abbracciammo come se ci conoscessimo sin da bambini, scambiandoci reciproche lusinghe e auguri di una buona vita, con la promessa di rimanere in contatto attraverso la posta elettronica. Le garantii che l’avrei aggiornata periodicamente sugli sviluppi del mio cammino e che, da quel momento in poi, l’avrei aggiunta alla già corposa lista di destinatari delle mie mail di viaggio.

    Quindi, con l’ausilio della metropolitana, munito di fotocamera e provviste generiche, mi avventurai per i larghi viali del centro di Milano. Il Duomo, maestoso e rifinito minuziosamente nelle sue guglie, mi regala la prima immagine realmente degna di nota del capoluogo lombardo, sebbene la moltitudine di gente che, a rotazione, si faceva immortalare con quello sfondo imponente, mi procurò ben presto un senso di disgusto. Non avevo la minima intenzione di battagliare per ritagliarmi un piccolo spazio nel quale il mio metro e settanta, seppur gratificato da quella stupefacente opera d’arte, non apparisse in compagnia di altre figure dattorno; scattai così qualche foto (come veniva) e cominciai a passeggiare, senza una meta precisa, nel cuore della città. Il rinomatissimo Teatro alla Scala (visto solo esternamente) mi deluse, così come le strade interamente dedicate alla moda e alla movida; non posso dire lo stesso di molte piazze a misura d’uomo, e soprattutto della zona de I Navigli, che effettivamente mi affascinò in ciascuna delle sue angolazioni.

    Nonostante tutta la parte della darsena nella zona di Porta Ticinese fosse in piena fase di restauro e il Naviglio Grande versasse in condizioni pietose – con evidenti rifiuti a galleggiare tra le sue acque e una vegetazione spontanea che conquistava sempre maggiore spazio ai suoi lati –, giudicai quello come il rione più romantico di Milano, nel quale doveva essere frequente inciampare nelle antiche tradizioni, e dove i piccoli ponticelli di pietra partecipavano attivamente del sentimento di quanti li attraversassero, sullo sfondo di botteghe, negozi e ristorantini dal passato ultradecennale.

    Proprio l’inflazionata tendenza, peculiarità del turista medio, di portarsi a casa un ricordo di quegli scorci, per lo più in forma digitalizzata, spinse nel tardo pomeriggio una coppietta di trentenni a chiedermi il favore di scattargli una foto. La mia reazione fu rilassata e accondiscendente, tanto che provai a trasferire quella positività anche sullo scatto che mi apprestavo a realizzare. In realtà ve ne furono diversi, poiché il loro sentimento (quasi tangibile per il sottoscritto) appariva per me cosa rara e preziosa, e il fatto che a breve sarebbe calata la sera mi convinceva a dedicarmi col massimo impegno a contribuire alla felicità di questi giovani amanti, pressoché imbarazzati dal fatto che stessero rubando del tempo ad un perfetto sconosciuto.

    Tuttavia, le mie aspettative di visita della città erano già state soddisfatte in pieno, condizione sufficiente per prevenire le ansie da posa della coppia e rivelargli che non avessi nulla di meglio da fare in quel momento. Sorrisero con modestia e mi ringraziarono come se avessi esaudito il loro più grande desiderio; quindi mi domandarono, vagamente titubanti e in un riconoscibilissimo toscano, se fossi del posto; gli risposi che venivo da Gaeta, ridente cittadina del basso Lazio, poggiata sul mare.

    Lei disse di conoscerla per fama e io me ne compiacqui. Alla mia domanda non fecero altro che confermare quello che era più di un sospetto: erano di Firenze e si trovavano a Milano dalla mattina del venerdì per un weekend di relax, non avendo mai avuto (nessuno dei due) l’opportunità di transitare prima nella città lombarda. Non esitai a confessare la mia permanenza di un anno (avvenuta tempo addietro per ragioni lavorative) nel bellissimo capoluogo toscano e a palesare il mio deciso apprezzamento allo stesso. Ne furono orgogliosi e, ancora timorosi, forse di scadere nell’impertinenza, questionarono sulle mie motivazioni di soggiorno in quel di Milano; quando raccontai il mio intento e attribuii a Milano il solo ruolo, seppur determinante, di base di partenza (oltre che d’arrivo…) per l’America Latina, la loro espressione mutò in maniera significativa.

    Riuscivo ad intravedere, attraverso la loro mimica, un misto di incredulità e sgomento, ma nella sua accezione più positiva; confessarono di aver sempre sognato e subito il fascino di quella parte di mondo, e che ascoltare da un emerito sconosciuto la descrizione dell’intero tragitto (per come glielo avevo presentato…), costituiva uno stimolo a far rimanere in vita quel sogno, fosse anche mantenendolo nascostamente rintanato in qualche minuscolo scomparto del cervello. Sembravano felici per me e mi augurarono di raggiungere tutti gli obiettivi che mi ero prefissato alla vigilia di quella partenza. Nel frangente dei saluti il loro viso appariva emozionato e vero.

    Il buio oramai aveva avvolto l’intera città e le luci balbettanti, dei lampioni e delle insegne, riflesse su quel corso d’acqua, placido e uniforme, suggerivano agli artisti di strada un soggetto particolarmente accattivante da riprodurre su tela.

    Mentre mi incamminavo in direzione della metro, cominciai a riflettere sulla giornata che si stava per concludere e sull’immediato nevralgico passaggio dell’indomani. Un pensiero gioioso mi pervase: non avevo nulla da eccepire sulla qualità delle brevi relazioni instaurate in meno di ventiquattro ore; questo doveva darmi un surplus di fiducia e speranza.

    Dopo un rapido rifornimento d’acqua e provviste per la cena in un piccolo supermercato a qualche centinaio di metri di distanza, rientrai in ostello e lo ritrovai semivuoto, a tratti desolante. Mi dedicai ad una lenta, e poco appetitosa, cena a base di cibo in scatola, pane in cassetta e qualche salume sottovuoto; un po’ di navigazione sul web, controllo della posta e poi letto.

    La sveglia era prevista di buon mattino, prima dell’alba: per prima cosa avevo la necessità di fare una ricca colazione ed eliminare ogni possibilità (o almeno tendere a ciò…) di venire sorpreso da qualche bisogno corporale insoddisfatto, una volta che avessi abbandonato l’ostello, per di più coi bagagli indosso; in secondo luogo dovevo recarmi alla fermata metro più vicina per raggiungere la Stazione Centrale, da cui sarebbe partito il trenino che mi avrebbe condotto all’aeroporto di Milano-Malpensa.

    Se la sera prima l’ostello si era mostrato tristemente sgombro, quantunque di tanto in tanto ravvivato dallo sporadico passaggio di qualche suo ospite, alle 5 in punto – quando mi alzai dal letto cercando di essere silenzioso al massimo per non disturbare il sonno degli altri due ignoti compagni di stanza – mi apparve completamente dormiente, come era giusto aspettarsi; persino la reception aveva ancora le luci spente e il posto del suo addetto era stranamente vacante.

    In casi del genere c’è da organizzarsi in maniera preventiva per riuscire ad ottemperare a tutte le necessità e, per fortuna, mi ero mosso in anticipo, intuendo il quadro generale che mi si sarebbe palesato di fronte: la sala comune disabitata e sprovvista di quelle vivande che mi avevano nutrito il mattino precedente, ma soprattutto l’impossibilità di un confronto con chicchessia, al fine di ricevere conferme o smentite in merito al percorso che avevo giudicato essere il più congruo per la mia destinazione. Nessun problema! Del resto mi ero svegliato con un così ragguardevole anticipo proprio per ovviare a qualsiasi potenziale impedimento o contrattempo che mi si fosse posto dinanzi. L’unico fattore che mi rendeva vagamente nervoso era dato dall’assenza di quella bevanda che, almeno stando ai dati di cui ho memoria, non era mai venuta meno a seguito di un mio risveglio: il caffè.

    Dunque faccio di necessità virtù e, dopo aver riordinato accuratamente entrambi gli zaini e, forse con un eccesso di zelo o paranoia, aver controllato in giro di non aver lasciato nulla dei miei averi, mi siedo serenamente all’estremità del tavolo centrale: non c’è nessuno, non un suono, non un disturbo; a mala pena riesco a percepire il rumore occasionale del passaggio di qualche vettura nel silenzio della notte, ormai già mattina. Comincio a morsicare la prima delle due brioche alla marmellata che avevo precedentemente poggiato sul tavolo e parto a fissare la penombra stellata che accennava a schiarirsi sulla mia testa. Procedo con estrema lentezza nel consumare la mia colazione ricca di conservanti, appositamente per concedere il giusto tempo di attivazione al mio metabolismo che, fino ad allora, aveva trovato nella moka l’innesco più funzionale per i miei bisogni mattutini.

    Quando ancora non sono le 5:30 il mio organismo è quasi interamente sveglio, cosicché opto per una scrupolosa seduta nel bagno che affaccia sul corridoio adiacente alla reception, tutto sempre attorniato dalla quiete generale. Non completamente soddisfatto, e anzi con quell’incertezza che spesso minaccia i propositi più rosei alle porte di un’esperienza connotata di positività, stimo come accettabili le accortezze portate avanti sinora, e dispongo la mia uscita per le strade sonnecchianti di Milano. Fortunatamente l’autunno non ha ancora fatto pieno ingresso nella penisola e, alla giornata soleggiata e ariosa della vigilia, fa seguito un clima temperato, orfano di quella nebbia che il senso comune attribuisce (quasi sempre) al capoluogo lombardo in questa fase dell’anno.

    Lungo il tragitto che mi separa dalla metro non incrocio bar, pur tuttavia mantengo alta la concentrazione adrenalinica alla ricerca di un caffè. È più una questione psicologica la mia! Devo assaporare quel gusto, o almeno qualcosa che me lo ricordi piuttosto fedelmente, prima di metter piede sulla metropolitana.

    Il cuore mi si alleggerisce alla vista di un punto di distribuzione automatica di bevande e snack alla base di un vecchio palazzo; sembra piantonato da un uomo di colore sulla quarantina che, dopo avermi scroccato qualche spicciolo, si rituffa nel reticolato di strade ancora in semioscurità, lasciando ondeggiare dietro di sé il fumo di una sigaretta. Ah, se sapessi disegnare… Sarebbe proprio una scena giusta da ritrarre!.

    Comunque questo è il posto che cercavo: anonimo, economico, silenzioso, efficace…

    E fa nulla che non sia il caffè più buono del mondo! L’erogatore mi restituisce un doppio caffè amaro e io posso finalmente acchetare quel bisogno di gusto, a cui raramente ho rinunciato nella mia vita, riportando la mia attenzione sul da farsi: manca poco al prossimo sottopassaggio metro, forse trecento metri, e da lì, in appena tre fermate, giungerò alla Stazione Centrale, crocevia per l’approdo in aeroporto. Passeggio senza fretta, leggero, sicuro della grandezza di quanto mi accingo a compiere, mentre si infittisce lentamente il passaggio delle auto e il formicolio dei passanti; eccomi in metropolitana: tutta la fila di posti a sedere dinanzi al mio è sgombra, ai miei lati nessuno, ed entro i confini della mia vista soltanto altri due passeggeri molto in là verso la testa del vagone. Più spazio e nessuna angoscia per i miei zaini! La metro fa sosta a Loreto, Caiazzo, quindi Centrale: circa cinque minuti in tutto; meno di altri cinque ne impiegherò per conquistare Piazza Duca d’Aosta su cui si affaccia uno dei lati dell’impressionante stazione.

    Immediatamente là dentro, mi mescolo all’andirivieni di

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1