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101 cose da fare a Torino almeno una volta nella vita
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E-book430 pagine4 ore

101 cose da fare a Torino almeno una volta nella vita

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Info su questo ebook

Torino come non l'avete mai vista!

Ecco alcune delle 101 esperienze:

• Sgranare gli occhi e leccarsi i baffi davanti a una vetrina di dolciumi

• Attraversare il confine tra la guerra e la pace

• Contemplare il mistero del volto di Gesù Cristo (o almeno una sua copia fedele)

• Giocare con un computer vecchio di due secoli

• Passeggiare sulla ferrovia tra opere d’arte contemporanea

• Sognare di correre come il vento su una Isotta Fraschini del 1902

• Cercare lo zoo e trovare l’Arca di Noè

• Portarsi a casa la Venere di Milo senza essere arrestato

• Aprire uno scrigno e trovare un tesoro

Paola Fiorentini

Si è laureata in filosofia, con una tesi in sociologia, presso l’Università La Sapienza di Roma. Ha svolto attività di sociologa effettuando ricerche promosse da Enti pubblici e privati e dall’Università di Torino. Ha lavorato nel campo dell’editoria, dell’informazione e della comunicazione e ha partecipato alla creazione di progetti multimediali.
LinguaItaliano
Data di uscita7 mag 2014
ISBN9788854166738
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    Anteprima del libro

    101 cose da fare a Torino almeno una volta nella vita - Paola Fiorentini

       1.

    PASSEGGIARE SOTTO LA PIOGGIA SENZA OMBRELLO

    Mettiamo che piova a dirotto. Non è il massimo per girare una città da turista! Ma non a Torino… dove la più grande zona pedonale d’Europa si snoda sotto diciotto chilometri di portici, di cui oltre dodici continui e connessi, e lascia passeggiare tranquilli tutti quanti, anche se dotati di borse, di trolley, di bambini in carrozzina, anche se privi di ombrelli e giacche a vento. Oltre a riparare dalla pioggia, i portici sono una lunga fascia d’ombra che protegge dal sole estivo, oltre a offrire occasioni fantastiche a chi vuole girare la città sfruttando questo vero e proprio caso urbanistico e architettonico ricco di sorprese estetiche e di negozi di tutti i tipi. Si possono imboccare dalla stazione di Porta Nuova, per esempio, e seguire fino a Porta Susa. Risalendo corso Vittorio Emanuele II sul lato destro, s’incontra il raffinato bar Platti dove gustare le molte varietà di brioche e, superato l’incrocio con corso Re Umberto, dopo qualche boutique dal gusto tradizionalissimo, la pasticceria Peyrano Pfatisch.

    A questo punto, prima di proseguire, è necessaria una digressione intorno al nome del pasticcere dall’origine bavarese. Infatti, sotto altre arcate, i portici di via Sacchi al numero 42, non bisogna perdere la visita alla pasticceria-madre fondata da Gustavo Pfatisch e collocata in un bell’edificio liberty di Piero Fenoglio del 1903, dalle scale riccamente decorate in stile floreale. Gli abitanti del quartiere sostengono che questa è l’unica vera confetteria che ha diritto di fregiarsi del nome del fondatore e, soprattutto, che qui i dolci sono incomparabilmente migliori che in qualunque altro posto. L’interno del negozio, rimasto intatto dalla fondazione nel 1926, ha arredi di noce con specchiere, piani di cristallo, banchi di marmo, lampadari di Murano e vetri givré alle vetrine. Nel seminterrato il fondatore aveva attrezzato una fabbrica che produceva cioccolato partendo dalla tostatura del cacao, e che ora, con le vecchie macchine ripristinate, rappresenta un perfetto museo del cioccolato. Appena defilato rispetto alle sontuose pasticcerie del centro, questo laboratorio (dichiarato locale storico d’Italia) è meno conosciuto di altri dal pubblico, ma in compenso è frequentato dalla vecchia nobiltà, da scrittori e giornalisti buongustai e talvolta usato come set per fiction televisive.

    Ma torniamo in corso Vittorio Emanuele, superiamo la pasticceria-figlia, e alziamo lo sguardo alla troneggiante figura di Vittorio Emanuele II che in posa da padre della Patria sorveglia la città dall’alto di un piedistallo di 39 metri. Più alto delle case, è chiamato anche il Re dei tetti perché dai balconi del quartiere lo si vede senza il piedistallo e sembra quasi camminare per l’appunto tra i tetti. Voluto dal figlio Umberto I, a sue spese, il monumento di bronzo su base di granito, dell’architetto Pietro Costa, è stato costruito tra il 1882 e il 1899. Lasciato indietro anche Vittorio dai poderosi baffi di bronzo, si procede con un occhio alla struttura stessa del lunghissimo porticato ottocentesco, che cambia nella copertura, ora a volta e ora a cassettoni, e nel lastricato dai disegni e dai materiali più diversi e fantasiosi. In corso Vinzaglio si svolta a destra e si prosegue per circa un chilometro, accompagnati sul lato sinistro dalla fila degli ippocastani secolari, a destra dai bei portoni a intervalli regolari, tra un negozio e un bar. Fate una sosta davanti alla vetrina del gran formaggiaio Borgiattino, bella da vedere anche se non vorrete farvi tentare dalle tome, dai caprini e dalle robiole che formano candide sculture di cacio.

    E così via, fino alla stazione di Porta Susa, dove la metropolitana potrà riportarvi a Porta Nuova per iniziare, se vorrete, un altro percorso. Dai giardini di piazza Carlo Felice, di fronte all’uscita principale della stazione, parte infatti un altro giro di portici, questa volta di lucido marmo. Via Roma, frutto di uno sventramento degli anni Trenta a opera dell’architetto Marcello Piacentini, ha per questa ragione portici diversi da tutti gli altri, lisci, grigi, squadrati, con vetrine lussuose, ampie e dai riquadri di ottone. Griffe, gioiellieri e grandi bar rendono piacevole questo tratto di strada novecentesco, che attraverso una piazzetta dove un Po e una Dora anch’essi novecenteschi, sdraiati su un fianco, rovesciano le loro acque nelle rispettive fontane, porta infine in piazza San Carlo, dove i portici che la circondano possono riprendere la loro aggraziata andatura seicentesca. Né sono i più antichi, visto che le prime arcate sono quelle che congiungono via Barbaroux e via Palazzo di Città. Non si possono raccontare tutte le tappe di questo percorso che, come in un gioco dell’oca, richiede ogni tanto di ripartire dalla casella d’inizio, ma è appunto un bellissimo gioco che ognuno può fare da sé, scoprendo vetrine, curiosità, scorci imprevedibili.

    Tuttavia resta da dire qualcosa sui portici per eccellenza, quelli di via Po, che da piazza Castello scendono al fiume: sono quelli del passeggio più fitto, degli studenti, delle vetrine addossate alle colonne, delle bancarelle dei libri usati, delle mostre itineranti. Qui, sul lato sinistro, collegato senza interruzioni al Palazzo Reale (perché il re non prendesse mai la pioggia nelle sue passeggiate!), si può gettare uno sguardo nel cortile dell’antica università, si godono gli scorci delle vie laterali, si può comprare di tutto. Immergendosi nella vita colorata di questa strada, forse la più caratteristica dell’intera città, sempre protetti dalle arcate e calpestando il selciato di lastre di pietra, si arriva al fondo del percorso e si torna a vedere il cielo, dove lo scenario si apre sul fiume e sulla collina. Ma se piovesse, o se il sole dovesse picchiare eccessivamente, si può tornare a rifugiarsi nelle braccia ospitali dei portici e risalire fino al centro dal lato opposto, e ancora, tornati alla casella di piazza Castello, verso via Pietro Micca, dove la pietra lascia di nuovo il posto alle piastrelle decorate della pavimentazione e ai soffitti dipinti delle volte.

       2.

    AGGIRARSI TRA CAVALIERI INESISTENTI E CAVALLI DI RAZZA

    Il Ducato Sabaudo nei libri di storia è sempre ricordato come uno stato guerriero, e tra i suoi cimeli non manca infatti una raccolta di armi antiche di gran pregio, sistemate in una delle maniche del Palazzo Reale. Tutta la storia di questa piccola monarchia assoluta è rappresentata infatti da un compatto complesso di edifici, noto come la Zona di comando, dove si concentrano i simboli del potere: la residenza dei sovrani, gli archivi, le segreterie di stato, la biblioteca, le cappelle per il culto, il teatro e naturalmente la sala d’armi. A tutta prima, entrando nell’edificio, non ci si rende conto di essere in un ambiente militaresco, accolti da uno scalone marmoreo di elegante e sobria fattura dove tra le statue e gli stucchi solo la figura di Minerva, nella nicchia centrale, sembra alludere alla destinazione di questi ambienti. Ma poi, nelle sale, gli appassionati del genere troveranno delle raccolte che formano una storia completa degli armamenti, dagli scalpelli preistorici in pietra in bronzo e ferro, fino alle armi della prima e della seconda guerra mondiale, passando per ogni genere di aste, alabarde, balestre, bombarde e colubrine, bandiere, medaglie al valore, e oggetti di complemento.

    Ma il fulcro del museo, raccomandabile anche a chi di armi non ne vuol sapere, è la splendida sala Beaumont, dove ogni spirito guerresco e offensivo si placa mettendosi in mostra. In questa vasta galleria juvarriana che deve il suo nome al pittore Claudio Francesco Beaumont, autore delle settecentesche Storie di Enea dipinte a olio sul muro, sono allineate varie armature che animano la sala come misteriose presenze, alcune appiedate e altre a cavallo. Richiamano alla mente l’indimenticabile cavaliere di Italo Calvino, l’Agilulfo che davanti a Carlomagno, sotto le mura di Parigi, si toglie la celata con la mano destra inguantata di ferro, mostra all’imperatore un elmo vuoto e gli rivela con la sua voce metallica: «Perché, sire, io non esisto». Ma a differenza di quella invenzione letteraria, i cavalieri qui esposti nei loro involucri ferrosi sono pezzi di storia. Il primo che s’incontra entrando nella galleria è Eugenio di Savoia-Soissons, con la sua corazza bianca, fronteggiato da un guerriero turco dalla cotta in maglia di ferro. Come potrà essere finito, quest’ultimo, tra i cavalieri cristiani, visto che sulla testiera compaiono il marchio dell’arsenale installato dagli ottomani conquistatori di Costantinopoli nella basilica bizantina di Sant’Irene e un verso del Corano che recita: «Soccorso a Dio e successo prossimo»? Si ipotizza che potesse fare parte di uno di quei carichi di ferrivecchi che venivano acquistati a Istanbul e portati in Italia a metà Ottocento per alimentare le nascenti industrie. Di un’altra armatura equestre si sa che venne commissionata da Emanuele Filiberto nel 1561 al milanese Giovanni Paolo Negroli e riprodotta da Carlo Marocchetti nel celebre monumento del duca che rinfodera la spada in piazza San Carlo (1831-1838). L’armatura che si riteneva fosse appartenuta al cardinale Ascanio Sforza, si è rivelata invece essere una bellissima imitazione ottocentesca di un modello della fine del Quattrocento.

    Oltre ai cavalieri, anche i cavalli di grandezza naturale che li portano in groppa hanno una loro storia, ma gli animalisti dormano tranquilli: sembrano imbalsamati, ma sono fatti di legno ricoperto di pelle equina prelevata dopo la loro morte naturale! Se si passa dalla galleria alla sala detta la Rotonda, se ne troveranno molti esemplari interessanti, come Favorito, il cavallo prediletto di Carlo Alberto, che dopo aver combattuto nella battaglia di Novara nel 1848, e aver vissuto in esilio in Portogallo con il re, alla morte del sovrano fu riportato a Torino e alloggiato nelle scuderie di Venaria, dove visse fino all’età di trent’anni. Immortalato nel 1867 dallo scultore Giovanni Tamone, entrò nell’armeria a riprendere la sua funzione di sostegno della sella regale. Gli tiene compagnia un cavallo baio scuro, in posizione impennata, coerente con l’armatura che sostiene, proveniente dalla Turchia ottomana o dall’Egitto mamelucco. L’eleganza con cui è resa la muscolatura del cavallo, l’attenzione alle proporzioni tra i vari arti e l’insieme del corpo ne fanno il migliore esemplare tra quelli, peraltro tutti di qualità elevata, prodotti dall’armeria. Tra i quali non manca un bel destriero di samurai, che regge una bardatura giapponese del XVIII secolo. Prima di lasciare le armi e i cavalieri, non mancate di affacciarvi dalla loggia della sala, dalla quale si gode un’eccellente vista sulla piazza e sul castello, e che vide anche le donne e gli amori prima di trasformarsi in una sorta di scuderia. Utilizzata come piccolo teatro di corte e poi come sala da ballo, ospitò nel 1820 la festa di nozze di Maria Teresa, figlia di Vittorio Emanuele I, con il duca di Lucca.

       3.

    GUARDARE NEGLI OCCHI LEONARDO DA VINCI

    Tutti conoscono quel ritratto di vecchio eseguito a sanguigna, con la barba e i capelli fluenti e gli occhi cespugliosi nel quale immediatamente si identifica l’immagine di Leonardo da Vinci. Come la Monna Lisa stagliata su uno sfondo di rocce e acque, di cui si è tante volte detto che sarebbe anch’esso un ritratto criptato dell’autore sotto mentite spoglie femminili, il volto barbuto e senza sfondo è mille volte riprodotto sui manifesti, sulle monete, sulle copertine dei libri, nelle pubblicità. È usato come simbolo di ogni innovazione e sapere, e quegli occhi profondi e immensamente intelligenti sono diventati un’icona moderna tanto come i tratti fieri di Che Guevara o il volto aggraziato di Marilyn Monroe. La differenza è che la fotografia di Alberto Diaz Gutierrez o la moltiplicazione psichedelica di Andy Warhol sono appunto ritratti, e Leonardo è invece un autoritratto, che sembra fissarti, quando ti avvicini, con la forza, è stato detto, di uno specchio dell’anima.

    E sì, nonostante l’incredibile quantità di riproduzioni, nonostante la forzata familiarità con questa immagine, la visione dell’originale è fonte di un’emozione fortissima. È lui, il genio, che ti guarda venendo da molto lontano, con quegli occhi penetranti, lui personalmente attraverso le linee che il suo pensiero ha deciso di trasmettere e che la sua mano ha tracciato. Chissà quanti si saranno chiesti dove sta questo cimelio tra i più preziosi (realizzato da Leonardo negli ultimi anni di vita, probabilmente ad Amboise, in Francia dove è morto nel 1519) senza immaginare che si trova a Torino, ben protetto in un caveau cui si può accedere con speciali permessi, nei sotterranei della Biblioteca Reale, in un reparto studiato per resistere agli incendi e ai terremoti, oltre che a eventuali impatti di aerei contro l’edificio. A proposito dell’autoritratto, c’è da registrare una curiosità: si sa che Leonardo dipingeva alla rovescia, poi ribaltava la tela e ripassava il disegno, ridipingendolo. Ebbene, se si sovrappone l’ovale della Gioconda al ritratto a sanguigna, si scopre che i contorni coincidono, o almeno così si dice.

    Oltre al maestoso volto, nella Biblioteca Reale si possono ammirare altri disegni, come il Ritratto di fanciulla, assai simile all’angelo del dipinto La Vergine delle rocce a cui è servito probabilmente da cartone preparatorio, lo studio per La Battaglia di Anghiari, opera pensata per la sala del consiglio di Palazzo Vecchio a Firenze e mai terminata, il Profilo di vecchia, opera di un allievo del maestro, e inoltre numerosi studi anatomici sulle proporzioni del volto umano e le sue trasformazioni dall’età giovanile alla vecchiaia, e disegni delle zampe anteriori e posteriori di un cavallo in vista di un monumento equestre a Francesco Sforza. Un discorso a parte merita il celebre Codice del volo degli uccelli, un’opera di straordinario valore scientifico composta da diciotto pagine compilate a Firenze tra il 1505 e il 1506 con l’inconfondibile scrittura mancina da destra a sinistra, dove si trova, di pugno di Leonardo, la frase visionaria: «Il primo grande uccello effettuerà il primo volo lanciandosi dalla cima del monte Ceceri, riempiendo l’universo di stupore e tutte le scritture della sua grande fama, donando eterna gloria ai luoghi dov’è stato concepito». In un’altra pagina, a margine, c’è invece un’annotazione curiosa, assai più prosaica: una lista della spesa che ci fa ricordare che anche Leonardo, dopotutto, era un uomo alle prese con le incombenze quotidiane. Data la preziosità e la fragilità dei disegni, non sempre e non tutti sono visibili, ed è bene che il visitatore s’informi preventivamente. Tuttavia la biblioteca è dotata di strumenti virtuali che restituiscono perfettamente la magia delle immagini e rendono fruibili pagine che mai si potrebbero sfogliare direttamente.

    In ogni caso, la biblioteca merita una visita di per sé. Fa parte del complesso del Palazzo Reale, che l’ha accolta nel 1837, su progetto dell’architetto di corte di Carlo Alberto, Pelagio Pelagi, in un ambiente raccolto, dove le boiserie e le scaffalature del piano basso e della balconata s’incastonano in un gioco di prospettive, di disegni allegorici e di rivestimenti a trompe-l’œil con finti libri, in modo da dare l’impressione, quando le porte che danno verso il palazzo sono chiuse, di una ininterrotta sequenza di volumi. Sappiano gli appassionati bibliofili che attualmente la biblioteca conserva circa 200.000 volumi, 4500 manoscritti, 3055 disegni, 187 incunaboli, 5019 cinquecentine, 1500 pergamene, 1112 periodici, 400 album fotografici, in raccolte tuttora incrementate con acquisti sul mercato antiquario. Di questo piccolo ma importantissimo museo fa parte anche un crocifisso ligneo di Michelangelo, ma per vederlo bisogna essere particolarmente fortunati perché è spesso in viaggio verso i musei del mondo. La visita alla biblioteca viene effettuata in piccoli gruppi da guide molto esperte e dura circa quaranta minuti, ma è una bella esperienza anche soltanto leggere il giornale seduti in questo raffinato angolo di mondo odoroso di legno e del cuoio delle antiche rilegature.

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    BIBLIOTECA REALE

       4.

    INNAMORARSI DI TUTTE LE SIGNORE CHE MANGIANO LE PASTE NELLE CONFETTERIE

    Fin dal Settecento è consuetudine dei torinesi gustare bevande e dolciumi nei caffè del centro della città, sedi di incontro, di pettegolezzi, di discussioni politiche, di corteggiamenti e, perché no, di innamoramenti. Fu uno di questi ritrovi a ispirare a Guido Gozzano la poesia Le golose, scritta direttamente al tavolino del Caffè Baratti & Milano di piazza Castello:

    Io sono innamorato di tutte le signore / che mangiano le paste nelle confetterie.

    Signore e signorine / le dita senza guanto / scelgon la pasta. Quanto / ritornano bambine!

    Perché non m’è concesso / o legge inopportuna! / il farmivi da presso, / baciarvi ad una ad una, / o belle bocche intatte /di giovani signore, / baciarvi nel sapore / di crema e cioccolatte?

    I deliziosi versi di Gozzano ci immergono immediatamente nell’atmosfera degli antichi caffè torinesi, che ancora mantengono intatto quel fascino e quell’opulenza degli arredi che li hanno resi famosi. Una sosta in quelli più illustri è d’obbligo per chiunque voglia scoprire un ambiente elegante e un po’ demodé, gustando una delle prelibatezze che la raffinata pasticceria torinese ha creato per i palati più golosi. Immaginiamo allora di sederci con Gozzano a un tavolino di Baratti & Milano in una delle sale che ancora, dopo il perfetto restauro del 2003, conservano l’originario stile Art Nouveau con cui il caffè fu costruito e inaugurato nel 1873, e chiediamo al cameriere di portarci una cioccolata con panna. Lo vedremo tornare di lì a poco con un vassoio con sopra in bella mostra due bricchi d’argento, colmi l’uno di una calda cremosa cioccolata e l’altro di soffice panna montata. Il rito della giusta fusione dei due ingredienti ci accomunerà allora ai tanti avventori che come noi staranno assaporando la bevanda in una pregiata tazza di porcellana, o staranno gustando un cremino che proprio da Baratti fu lanciato a Torino nel 1934. E ci verrà allora da pensare a una tra le tante gentili signore e signorine immortalate dal poeta mentre golosamente: «Pur mentre inghiotte, pensa al dopo, al poi; e domina i vassoi con le pupille ghiotte».

    Sempre sulle orme di Gozzano, se ci spostiamo di pochi metri, sotto i portici di piazza Castello incontriamo il piccolo e raccolto caffè Mulassano, anch’esso amato dal poeta, che sicuramente vi avrà gustato quella che agli inizi del Novecento era la novità gastronomica del momento. Al fondatore del locale si deve infatti l’invenzione dei tramezzini che resero celebre il caffè in tutta la città e che ancora oggi ne fanno la fama e la fortuna. Accolti negli spazi di stile Art Nouveau e Déco, che ospitarono anche i Savoia e furono ritrovo di artisti e attori del vicino Teatro Regio, si può gustare un ottimo aperitivo accompagnato dagli impareggiabili tramezzini. Peccato che i tavolini siano pochissimi, date le piccole dimensioni del locale. A poche centinaia di metri, nel nostro percorso tra golosità e bellezza, incontriamo nella omonima piazza il caffè San Carlo. Inaugurato nel 1822 e adornato di velluti color porpora, di stucchi e di statue, fu considerato particolarmente moderno per l’epoca. Fu infatti il primo locale italiano ad adottare l’illuminazione a gas, alla cui luce diffusa da sfarzosi lampadari di Murano si riunivano i liberali piemontesi nel corso del Risorgimento.

    Platti, in corso Vittorio Emanuele, all’angolo con corso Re Umberto, fu soprattutto prediletto dalla borghesia intellettuale della città. Inaugurato nel 1875 come Liquoreria Platti, ha ospitato tra gli altri Luigi Einaudi e Cesare Pavese, che ne furono frequentatori abituali. Un accurato restauro, terminato nel 1999, ha riportato il caffè agli antichi splendori tardo-ottocenteschi. Grazie a fotografie d’epoca è stato possibile ristrutturare il locale nel pieno rispetto della sua fisionomia fin nei minimi dettagli, dalla qualità degli stucchi dorati alla tipologia degli infissi, dalle maniglie d’epoca all’uso esclusivo di viti cosiddette a taglio. A partire dal 1999, inoltre, il Caffè Platti ha stipulato un accordo di collaborazione con il Museo della Marionetta grazie al quale le vetrine di corso Re Umberto ospitano ogni mese un diverso e particolare allestimento realizzato con i pezzi unici e prestigiosi della collezione. Non dimenticate di dare uno sguardo all’omino posto sotto i portici di corso Vittorio. La figura, risalente probabilmente agli anni Venti, è il simbolo di Platti più amato dai torinesi.

    In una lettera del 1852 Alexandre Dumas racconta a un amico che tra le cose che non potrà mai dimenticare del suo soggiorno torinese vi è il bicerin (bicchiere), la particolare miscela a base di crema di latte, caffè e cioccolata calda fondente che lo scrittore definisce eccellente e che era solito gustare nel caffè che dalla bevanda prende il nome. Il caffè Bicerin, la cui costruzione risale al 1763, si trova nella piazzetta della Consolata nel cuore del Quadrilatero Romano, il quartiere vecchio di Torino. L’arredo attuale risale alla prima metà dell’Ottocento, e all’interno si respira ancora l’atmosfera di un tempo, quella stessa che forse ispirò Dumas nella composizione delle sue opere: specchi antichi, vecchi banconi di legno su cui troneggiano grandi contenitori di caramelle in vetro, boiserie a semplici partiture, e pochi tavolini di marmo dove viene servito il bicerin, divenuto la specialità della casa. Se decidete di assaggiarlo, e ne vale la pena, una raccomandazione: badate a non mescolare i tre ingredienti che vengono serviti bollenti e non miscelati, ma sovrapposti a strati. Sarebbe un oltraggio a una tradizione e a una bevanda divenuta uno dei simboli della città.

       5.

    INTRAPRENDERE UN AVVENTUROSO VIAGGIO NELL’ANTICO EGITTO

    Che cosa c’entra la grande arte egizia con questa città a ridosso delle Alpi e così lontana dai traffici del Levante e perché mai proprio qui vi ha trovato dimora? L’enigma è discretamente interessante. La ragione, come spesso succede a Torino, sta in un certo suo carattere da talpa che scava in silenzio, nel puntiglio dei suoi funzionari modello, nella passione fredda dei suoi esperti, nella megalomania nascosta. Non si è trattato del capriccio di un principe mecenate innamorato dell’Oriente favoloso, né di una razzia al termine di una guerra vittoriosa o di una campagna coloniale, come è accaduto per tante raccolte del Louvre o del British Museum. Carlo Felice di Savoia, fratello di Vittorio Emanuele I e firmatario dell’acquisto della collezione Drovetti, che ha dato inizio alla raccolta nel 1824, è stato un sovrano tra i più appartati e invisibili, che ha passato sul trono del Regno di Sardegna gli anni di incubazione dei moti risorgimentali, tra il 1821 e il 1831, senza lasciare grandi tracce di sé. Il suo nome rimane legato al teatro lirico di Genova, alla strada che attraversa longitudinalmente la Sardegna, alla piazza neoclassica con i giardini dove si affaccia la stazione di Porta Nuova, forse a una citazione di sfuggita sui manuali scolastici e niente più. Certamente non doveva esserci l’Egitto nei sogni di Carlo Felice. Né un piccolo regno montanaro allargato a una Sardegna gelosa di sé, reduce dalla dominazione napoleonica, poteva pensare in quel periodo a conquiste militari.

    Ma c’era stato chi, come il piemontese di Barbania Bernardino Drovetti, vivendo in Egitto in qualità di console generale di Francia proprio negli anni dell’impero, non soltanto aveva iniziato a collezionare reperti e statue, ma era diventato un consigliere influente del viceré d’Egitto Mohamed Alì e di suo figlio Ibrahim Pascià, tanto che al suo ritorno in patria era stato autorizzato a portare con sé la preziosa raccolta. Bisogna riconoscere al pallido Carlo Felice almeno il merito di aver acquisito la collezione e di averle procurato una sede prestigiosa nel palazzo del Collegio dei Nobili, residenza dei figli dell’aristocrazia destinati alla vita ecclesiastica sotto il magistero dei gesuiti e sede dell’Accademia delle Scienze. Dalle rive del Nilo, dove riposavano da millenni nella sabbia dorata all’ombra del moto perpetuo dei palmizi, i faraoni si trovarono così trasferiti e imprigionati, in compagnia di lunghe tonache nere e di migliaia di volumi dalle indecifrabili scritte in latino, in un solenne e severo edificio seicentesco odoroso di muffa. Per loro fortuna, dei faraoni s’intende, nello stesso anno 1824 della loro deportazione venne a far loro visita il mitico Jean-François Champollion, il decifratore della stele di Rosetta che più di ogni altro era forse in grado di consolarli e amorosamente rievocare con loro il dio-fiume e le notti stellate del deserto.

    Dal canto suo, il Drovetti morì pressoché impazzito nell’ospedale di San Salvario, convinto non del tutto a torto di essere misconosciuto. Anche oggi, chi arriva al museo e si avvicina alle statue con l’ansia di ammirarne la grandezza e il mistero, difficilmente si sofferma a notare il busto collocato presso la porta di ingresso o si attarda a leggere la lapide che senza retorica alcuna lo ricorda:

    A MEMORIA ED ONORE

    DI BERNARDINO DROVETTI

    da Barbania

    CHE CONSOLE GENERALE DI FRANCIA IN EGITTO

    ADUNÒ IN LUNGHI ANNI DI SAPIENTI RICERCHE

    QUESTE ANTICHITÀ EGIZIE

    PROCURANDO POI CHE DIVENTASSERO

    ACQUISTO DEI NOSTRI PRINCIPI

    ED UNA DELLE GLORIE PIEMONTESI

    Ben presto Parigi, Berlino e Londra, con i loro potenti mezzi, avrebbero oscurato il museo torinese e la sua ricca ma ancora dilettantesca collezione, per di più limitata al periodo detto del Nuovo Regno, se un altro personaggio, l’archeologo Ernesto Schiaparelli, non lo avesse incrementato con reperti predinastici, dell’Antico e Medio regno e con oggetti copti. Egittologo di fama, diresse il museo per trentacinque anni e lo fece grande, il più grande dopo Il Cairo. Il primo acquisto di una sessantina di pezzi avvenne nel 1898 presso una esposizione delle missioni francescane

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