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Io non ascolto
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E-book234 pagine3 ore

Io non ascolto

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Info su questo ebook

Ascoltarsi è inutile nel terzo millennio: non è necessario per sopravvivere, non ci fa ottenere relazioni, non ci rende più benestanti. Il disinteresse all'ascolto miete risultati per vittime inconsapevoli: ci incoraggia all'acquisto reiterato ed inutile, ci spinge a non pensare e ci consente di vivere con soddisfazione situazioni e rapporti in realtà inesistenti. Tullio e Rebecca inizialmente non si conoscono, ma entrambi si accorgono con disagio del muro di gomma che li circonda. Le riflessioni di lui sull'indifferenza saranno il fiume carsico dell'incontro con lei e la loro amicizia sembrerà donare loro quell'ascolto prima inesistente e di cui avevano bisogno. Pensando di poter affermare così quanto il mondo sia differente da loro, troveranno, invece, quanto sia inaspettatamente affine.
LinguaItaliano
Data di uscita17 giu 2022
ISBN9791221416879
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    Anteprima del libro

    Io non ascolto - Tullio De Gorgi

    CAPITOLO 1

    Le prime dita della sordità

    Se devo essere sincero, non è semplice ricordare il primo e più risalente impatto con la sordità. Certo, fin da piccolo c’erano state – per me, come per tutti – occasioni in cui quanto proferiva il me bambino non aveva valenza di per sé, ma era semplicemente indice o fonte di giudizi: tenerezza, intelligenza, ecc. ecc.. Tuttavia, come accennato nell’introduzione, la presente trattazione concerne la sordità nella sua chiave moderna, la sordità inconscia, quella inconsapevole.

    Abbiamo già accennato che quel genere di sordità ha avuto chiara manifestazione e diffusione endemica nel terzo millennio. Tuttavia, essendoci i germi di tale fenomeno anche prima, è possibile individuare una anteriore occasione in cui tale sordità si era manifestata per la prima volta nella mia vita.

    In particolare, ciò è accaduto durante il quarto anno delle elementari, quando avrò avuto, all’incirca, nove o dieci anni. Se devo essere onesto, quel periodo era sereno, praticamente al pari di tutta la mia infanzia, ma, ad occhio e croce, non era l’annata migliore. Ricordo distintamente e con una positiva nostalgia il primo e il quinto anno delle elementari: infatti, durante il primo c’era tutto l’entusiasmo di un nuovo ambiente e che il caso aveva voluto che fosse frequentato anche da alcuni stretti amici dell’asilo; il quinto anno, similmente, aveva tutta la serena fibrillazione di un rapporto duraturo, vissuto solidamente con compagni di scuola per cinque anni (o più, nel caso di condivisione anche dell’asilo). Secondo, terzo e quarto anno delle elementari erano, viceversa, un filo più grigi: c’era un briciolo di quello stantio plumbeo degli anni di passaggio, delle ore stirate oziosamente, e dei traguardi piccoli, artefatti e all’uopo immaginati.

    La asignificatività di quel quarto anno di elementari trova il proprio sintomo nella carenza di ricordi. Non rammento, ad esempio e all’inizio di quell’anno, quale fosse il mio compagno di banco; non escludo che fosse Ferdinando e che, allora, era tra i miei amici più stretti, ma, ad essere sincero e per quanto riguarda la parte iniziale di quel ciclo scolastico, non ho un ricordo così nitido sul punto.

    Tuttavia, ho memoria abbastanza lucida di un dettaglio. A differenza della parte finale di quell’anno scolastico, all’inizio di quest’ultimo i banchi, rigorosamente a due posti, erano distribuiti su tre file e dinanzi alla cattedra. Il mio banco si trovava tra i primi della fila più prossima alla parete delle finestre e più distante dalla porta d’ingresso; ad occhio e croce, sarà stato il secondo banco di quella fila, partendo il conteggio dal banco più vicino alla cattedra. All’epoca, sfruttando la spazio che vi era tra una fila e l’altra di banchi, ero solito appendere lo zaino su un gancio metallico e sito al lato del banco stesso, di modo che, per prendere un libro, un quaderno o qualcos’altro dalla cartella, non dovessi girarmi di centottanta gradi come chi teneva lo zaino sullo schienale, ma mi dovessi semplicemente piegare sulla mia destra.

    Ho un ricordo abbastanza lucido di questi dettagli perché ho memoria di un episodio che ebbe come sfondo tali elementi. Quanto di straordinario in quell’accadimento fu la totale carenza di precedenti, segnali premonitori o tratti che facessero palesare, anche solo implicitamente, quello che poi fu il parto della mia mente.

    C’era una mia compagna di classe che si chiamava Flaminia M.. Quest’ultima era stata nostra compagna fin dalla prima elementare. Non la conoscevo bene o, meglio, la conoscevo alla stessa maniera in cui avevo confidenza con i compagni di classe che non fossero amici stretti; fino ad allora – posso dire – il massimo profilo di vicinanza fu aver visto a casa sua, durante la sua festa di compleanno in prima elementare, una copia dell’album di figurine del cartone animato di Robin Hood, album che, altresì ed all’epoca, stavo anche io cercando di completare. Chissà perché, in quel periodo, non riferii a lei detta circostanza, onde poterci scambiare i doppioni; con tutta probabilità, con la timidezza di allora, fu quest’ultima mia indole la causa della mia riservatezza sul punto.

    Lei era graziosa, ma non aveva un livello estetico avanzato; potremmo dire che ci si trovava ancora in un momento dell’esistenza anteriore all’uso di mascara, fondotinta, rossetti, un periodo nel quale, pertanto, pregi e difetti esteriori emergevano con quella leggerezza di chi non deve concorrere con altre nella giostra degli accoppiamenti.

    Tutti questi elementi di allora, estetici e di scarsa confidenza, resero ancora più incredibile e inaspettato per me stesso ciò che avvenne quel secondo di quella remota lezione durante l’anno di quarta elementare. Davvero non ricordo come si stesse svolgendo quella lezione, né quest’ultima cosa trattasse; sicuramente l’argomento non era attinente minimamente a quanto poi accadde, altrimenti – penso io – il tema di quella giornata mi sarebbe rimasto in mente. Rammento, però, nitidamente, quel mio gesto: mi inclinai da seduto, verso destra, verso il mio zaino ivi agganciato, per aprire quest’ultimo e posarvi un libro che doveva essere riposto. Quindi il secondo successivo mi rialzai, raddrizzai la schiena, ma – chissà perché – mi voltai alle spalle.

    Cosa porta un essere umano a fare un gesto che scopo non ha? Quali sono le intime ragioni per le quali mi voltai proprio quel giorno e in quell’istante? Davvero l’istante o la giornata successiva o precedente non andavano bene? E, se sì, per quali ragioni? Tutte le analisi approfondite e che portano a ricostruire su base logica (se non scientifica) accadimenti ed ambiti, geografici e cronologici, di svolgimento di eventi umani spiegano il palesarsi di molti di questi ultimi. Tuttavia, francamente, per quanto mi interrogo, non riesco davvero a capire cosa avesse quell’istante: non un indice, non un sintomo, non una ispirazione di quello che avrei partorito nella mia mente il secondo dopo. Eppure quel pensiero vi fu lo stesso, spontaneo ma non indotto, naturale e, tuttavia, non innato, palpabile ma non importante, presente ma non costruito. Ad occhio e croce, somigliò a un tenue colpo di tosse, sfuggito, distratto, emesso ancorché non necessario.

    E’ così che, voltandomi di spalle nel giro di un istante, guardando verso tre banchi dietro al mio, ed osservando Flaminia M. in una frazione di secondo, pensai: «Certo che Flaminia M. mi piace». E l’istante successivo mi voltai verso la cattedra.

    Come diamine può succedere che una persona che vedi da quattro anni, con la quale non hai una rilevante confidenza e non hai condiviso nulla di diverso dall’altra decina di bambine presenti nella stessa classe, sia interessata da un pensiero simile in un istante casuale? Io non me lo spiego. E sì, capisco cosa vuoi dire, comprendo che vuoi affermare – così zuccherosamente – che ero bambino. Tuttavia, basta che sovvenga alla mente l’ingenuità di un minore di età per rendere sensato ciò che non ha nessun indice logico? Francamente, io non mi spiego così gli accadimenti di questo genere e rimango nel mistero della natura della causa di un tale pensiero.

    Ma cosa c’entra tutto questo con la sordità? Quale interferenza ebbe detto accadimento infantile con lo spontaneo manifestarsi del mancato ascolto, caratteristica dell’individuo appena accennata in quegli anni Novanta e che sarebbe poi esplosa nel terzo millennio? No, non è quello che stai pensando e che sarai portato a prevedere di trovare nelle righe successive.

    Siamo perfettamente d’accordo che quel pensiero non avesse oggettivamente nessuna importanza. Il primo pensiero nei confronti di un membro del genere opposto, alle elementari e da parte di un bambino, è già qualcosa di per sé meritevole di essere sottovalutato e, al massimo, guardato con un tenero e compassionevole sorriso. In quelle precise circostanze, poi, quel pensiero era ancor meno rilevante: se ci aggiungiamo, infatti, gli aspetti della scarsa confidenza e della marginale conoscenza con quella bambina, quel pensiero era davvero senza nessuna significativa portata.

    Forse era anche soggettivamente così per me e già all’epoca. In quel contesto, in quell’ambito, in quel periodo, un tale pensiero, anche per il me di allora, probabilmente non aveva un peso così preponderante. Più correttamente, direi quanto segue. Il pensiero c’era, era presente e fu palese nella mia intimità anche i giorni successivi. Nondimeno, non mi aspettavo che la cosa fosse seguita da sviluppi, anche solo di mera conoscenza, nei rapporti tra il bambino che ero, da un lato, e Flaminia M., dall’altro. Insomma, non è che, dato un mio pensiero e – se proprio vogliamo – un mio desiderio, si sarebbe dovuti giungere ad uno sviluppo relazionale con Flaminia M.. Non c’era una timidezza sul punto (pur presente nella mia indole di allora), né ritrosia, sensazione di inadeguatezza, o altro. Il fatto è che c’era solo un pensiero che, in qualche misura, mi rendeva diverso da prima e che portava, semmai, all’intento di rendere partecipi altri – specie le persone più strette – di questa mia novità. A volermi spiegare ancora meglio, l’approccio ad un tal genere di pensiero era lo stesso che si poteva avere ad un piccolo traguardo della propria esistenza. Come con la laurea o la pubblicazione di un libro, non si pretende che, comunicando l’una o l’altra ad amici e familiari, si abbia subito un lavoro o si venga riconosciuti come un romanziere di successo; tuttavia, si riferiscono detti traguardi solo per il piacere di condividere e di comunicare un accadimento della propria esistenza, non già perché ci si aspetti che quest’ultimo debba giungere a chissà quali sviluppi.

    Ebbene, a mancare in quella circostanza, nonché ad essere interessata dalla suesposta sordità, fu l’esigenza di detta testimonianza di esistenza.

    A dire il vero, nulla di tutto ciò riguardò mia madre. Quale genitore di diversi figli e lavoratrice è stata un’ottima madre. Non starò ad eseguire un elogio di quest’ultima che sarebbe estraneo alla presente trattazione: il lascito della placenta che fu influenza molto il feto sfornato ed anche da ben cresciuto; e tu, mia cara, lo sai bene e lo hai patito – con gli estremi di uno scricchiolante tessuto da divano di Freud – con Fabio. Basti allora pensare che, per lei, il lavoro non esonerava dagli incombenti domestici, né questi ultimi potevano anche essere solo ipotizzati come motivo di minor qualità o quantità della prestazione lavorativa.

    A conferma dell’estraneità di detta genitrice dall’impatto tra sordità e testimonianza di esistenza, ricordo in particolare un pomeriggio. Era ben visibile, da una delle due porte della camera da letto mia e del mio fratello più prossimo, un antibagno. In quest’ultimo c’era un mobiletto con una cassettiera e un grande specchio sovrastante. In uno di questi cassetti vi erano custoditi i farmaci via via acquistati e necessari. Ciclicamente, però, questi si accumulavano e non venivano smaltiti, specie quando il farmaco, acquistato con la scalpitante ed italica soddisfazione per i medicinali, nonché occasionalmente usato per una terapia, rimaneva, poi e per il resto, non consumato e, superstite, nel cassetto. Di qui l’esigenza annuale di una cernita dei medicinali scaduti ed affinché questi ultimi fossero gettati negli appositi contenitori. Di questa selezione se ne occupava – neanche a dirlo – mia madre e, quel pomeriggio, lei era impegnata in detta attività, collocata su una sedia in prossimità del cassetto aperto e con una busta per l’accumulo dei farmaci scartati.

    Vedendo mia madre e ritenendo che i recenti sviluppi meritassero di avere un testimone, mi sbilanciai e le dissi, senza premessa alcuna:«Mamma, lo sai che mi piace Flaminia M.?».

    La risposta di mia madre fu un «Ah sì?», non seguito da altre affermazioni. Occorre però soffermarci su quella replica, onde comprendere l’andamento successivo degli eventi. Quell’«Ah sì?» fu – come forse parzialmente già compreso dal lettore – assai distratto. Mi sembra di ricordare che, all’atto di proferire tale risposta, mia madre stava maneggiando quella busta per inserirvi altri farmaci scartati, almanacco onirico di terapie che furono. Di certo – e questo lo rammento nitidamente – il suo sguardo era posato altrove, non su di me, e piuttosto in un punto imprecisato in basso, tra il pavimento, il cassetto dei farmaci e la busta per la cernita di questi ultimi, al pari di chi sia altrimenti sovrappensiero. Del resto, chiariamoci, come si può essere attenti quando un numero così elevato di y o z, oppure di suffissi inol o form, ti vogliono così deliziosamente corteggiare con sogni di avvenirismo medico e di fantascientifico benessere farmaceutico?

    Certo, all’epoca mi stupii che tale mio pensiero su Flaminia M. – per me del tutto nuovo – non destasse altrettanta curiosità nell’interlocutore. Tuttavia, sbaglierebbe il lettore che ravvisasse in tale reazione di mia madre un primo riscontro della nostra sordità. In quel frangente, quella di mia madre non era manifestazione di sordità, di quella radicata e inconscia caratteristica degli individui che porta a sommergere l’ascolto con il proprio secondo di esistenza. Al contrario, mia madre, in quel momento, era solamente distratta e non fece caso alle mie parole in quanto, in quel preciso istante, altrimenti impegnata. Del resto, significativa in tal senso fu la mancanza di dispiacere del sottoscritto ed a fronte di tale risposta. Invero, rimasi sì stupito in parte, ma – con tutta probabilità – compresi anche io che l’interlocutore era altrimenti occupato e, per questo, giustificatamente distratto, sebbene ancora, da bambino, non avessi piena consapevolezza del morboso luccichio di libidine che ha un’anziana italiana quando maneggia quel cartoncino con scritto Farmybeinol o cose così; tale accadimento, pertanto, non era, né fu percepito come sintomo di trascuratezza.

    A che pro, allora, riportare tale accadimento? E’ presto detto. Se quella risposta non aveva determinato dispiacere, né altre sensazioni sgradevoli, c’era comunque qualcosa che, però, restava inevaso. Era l’esigenza di detta testimonianza di esistenza, in altri termini l’umano bisogno di avere un testimone che conferisse il riconoscimento della – fondata o meno – importanza a quel determinato sviluppo della mia esistenza. Ecco che, allora, pur partendo dalla suesposta carenza di aspettative e – forse anche – di desiderio circa progressioni nella mia conoscenza con Flaminia M., fu tale esigenza di testimonianza a portarmi un – inutile – spirito di iniziativa e che fu fonte del primo incontro con la sordità.

    Ad occhio e croce, avrò avuto dei geni in comune con Napoleone, e non solo perché ero un infame tappo di statura: infatti, congegnai anche le cose strategicamente per supplire a quel bisogno di testimonianza. Pressappoco nella settimana successiva, ci sarebbe stata una giornata nella quale non sarei dovuto andare a scuola. Non ricordo se la mia assenza sarebbe stata determinata da piccoli esami medici oppure – più probabilmente e come mi sembra di ricordare – dal fatto che la classe fu divisa in almeno due gruppi, in cui l’uno avrebbe avuto una verifica in un dato giorno, ed in cui l’altro avrebbe eseguito la stessa verifica nella giornata successiva. Fatto sta che – e questo era il punto – il mio amico Ferdinando sarebbe stato in classe con Flaminia M. in una giornata in cui io non sarei stato presente. Per tale ragione, invitai Ferdinando a casa mia per passare insieme il pomeriggio prima del mio giorno di assenza. In quella circostanza, studiammo nella mia camera e come non era insolito fare, tant’è che ricordo la posizione di Ferdinando, seduto sul lato corto della scrivania presente nella mia stanza. I compiti vennero ad esaurirsi e giunse il momento di porre in essere il mio piano. Confidai a Ferdinando il mio interessamento per Flaminia M. e, dall’armadio, presi un piccolo foglio a righe, di colore giallo e con i fori per anelli sul lato sinistro, dove avevo scritto in stampatello una pseudolettera rivolta sempre a Ferdinando. Mostrai e spiegai il contenuto di quest’ultima al mio amico: nella missiva, confidavo espressamente a Ferdinando l’ascendente che Flaminia M. aveva su di me e il fatto che lei mi piacesse; nella lettera, aggiungevo, inoltre, il non irrilevante invito che Ferdinando fosse riservato su tali circostanze e non rivelasse a terzi il contenuto dello scritto stesso. Una volta esposto il contenuto della lettera, spiegai a Ferdinando il – si fa per dire – colpo di genio; in particolare, dissi espressamente:«Ascoltami, tu domani sarai in classe e ci sarà anche Flaminia M.. Tu prendila da parte in un momento di pausa, per esempio a ricreazione. Dille che hai ricevuto questa mia lettera e mostragliela. Dille che è vero che sei stato invitato a non parlarne con terzi, ma che, riguardando Flaminia M., ritieni opportuno informarla. Aggiungi che la cosa deve restare tra di voi, che questa tua rivelazione è derivata dal fatto che la notizia interessa lei, ma che, per il resto, le cose devono essere riservate. Naturalmente, siamo d’accordo, la cosa resta un segreto tra di noi».

    A questa mia richiesta, Ferdinando si dichiarò, di buon grado, disponibile e, quindi, prese la lettera con sé. Essendo, inoltre, un mio amico stretto di allora, fu scontata, sul punto, la garanzia di sua riservatezza.

    Uscii da quel pomeriggio soddisfatto e sorpreso. Soddisfatto perché Ferdinando – che fesso non era – aveva compreso appieno la questione e il favore che gli chiedevo, garantendo la riuscita e la riservatezza sul punto. Sorpreso perché quella mia confidenza era stata occasione di una consimile rivelazione da parte di Ferdinando, il quale mi mise a parte di come un’altra compagna di classe, – il caso volle – sempre con il nome di Flaminia, era stata destinataria dell’interesse del mio amico, al punto tale che i due avevano anche avuto occasione di parlarne e che lui aveva invitato quella bambina a passare insieme un pomeriggio nel suo giardino condominiale: il massimo dell’infantile erotismo degli anni ’90, direi oggi.

    Da parte mia, cosa mi aspettavo da quel piano che avevo così dettagliatamente congegnato? Il lettore non ci crederà, ma io, da quel progetto, non avevo nessuna aspettativa, nessun desiderio o attesa di sviluppi. Come già accennato, ero una persona timida, sì, ma non era questa mia caratteristica a condizionarmi, né c’erano, all’epoca, valutazioni di indegnità o incapacità della mia persona, tali da eseguire una prognosi negativa circa gli sviluppi tra me e Flaminia M.. Semplicemente ed anche in ragione della mia inesperienza sul punto, non c’era nessuna necessaria corrispondenza tra un mio pensiero su Flaminia M. e una progressione dei rapporti con quest’ultima. Al contrario e come in parte già accennato, l’unica esigenza che quel piano doveva soddisfare era il bisogno di una testimonianza su quel momento della mia

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