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Lo zaino è pronto, io no
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Lo zaino è pronto, io no
E-book335 pagine5 ore

Lo zaino è pronto, io no

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Info su questo ebook

Personaggi strampalati, incontri originali, situazioni bizzarre e piccoli disastri prendono vita nel corso di questo piacevole diario che ci accompagna in giro per il mondo, dall'Africa Orientale all'America Centrale, dall'India al Perù, dal Sud-est asiatico alla Patagonia. L'autore interpreta il viaggio come esperienza esistenziale e ricostruisce, con ironia e disincanto, gli aneddoti che hanno segnato indelebilmente i suoi straordinari vagabondaggi. Marco vive intensamente l'esperienza del viaggio in solitaria, abbandona le rigide convenzioni che regolano la sua esistenza quotidiana e segue un percorso di crescita interiore che lo porta ad affermare: "Ho capito che il viaggio è un'autentica forma d'arte perché rappresenta la vita nelle sue mutevoli sfumature, permette di conferire una nuova dimensione alle cose, ti inebria con il senso di libertà che sa regalarti. I viaggiatori, in realtà, sono artisti".
LinguaItaliano
Data di uscita13 dic 2016
ISBN9788892641365
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    Anteprima del libro

    Lo zaino è pronto, io no - Marco Lovisolo

    Dick

    Introduzione

    Da accanito lettore di libri di viaggio mi sono sempre chiesto: quanto tempo ci vorrà per scriverne uno?

    Sì, lo so, dopo avere letto questa domanda, vi sarete già pentiti di avere buttato via i vostri soldi. In realtà sto facendo questo lungo giro per evitare di dire l’amara verità: per me ci sono voluti anni.

    Non che volessi scriverlo, a essere sincero. Tutto è iniziato per caso. A un certo punto della mia vita ho avvertito l’urgenza fisica di girare per il mondo. Avevo l’impressione che i libri dei grandi viaggiatori che avevo letto mi nascondessero qualcosa. Non so, c’era un che di non detto, di occultato, di volutamente dimenticato. La mia natura paranoica non mi lasciava in pace e così un giorno decisi che era giunto il momento di mettere il naso là fuori.

    Ovviamente avevo già viaggiato prima, ma erano stati sempre itinerari europei; ero stato in diversi posti, alcuni nemmeno troppo facili da raggiungere, ma la nuova cultura, sebbene segnata da alcune differenze rispetto alla mia, mi sembrava sempre basilarmente la stessa. Era arrivato il momento di fare un passo in più, di girare l’angolo e sbirciare dall’altra parte.

    Tuttavia, per vedere cosa c’è veramente dietro l’angolo, non si può fare un viaggio organizzato, all inclusive. Come puoi pensare di comprendere qualcosa del luogo che visiti, standotene seduto su un autobus extralusso con aria condizionata e dormendo negli hotel a cinque stelle? Non puoi. Era necessario cimentarsi con la realtà e per farlo c’era un’unica maniera: andarci da solo, in autonomia.

    Prendere coscienza di questo fatto mi ha tenuto impegnato per qualche mese. Voglio dire: una cosa è arrivare a Londra, muoversi in metropolitana, dormire in ostello, mangiare quello che si vuole, denaro permettendo. Ben diverso è trovarsi in mezzo alla savana, muoversi a piedi, dormire dove capita, fare la doccia se capita, mangiare cibi sconosciuti. Tutto da solo. Insomma: sarei stato in grado di farcela? Avrei saputo affrontare i problemi che si sarebbero posti?

    Dopo averci pensato su fino a fare impazzire il mio unico neurone, alla fine ho deciso di provarci. E visto che la cosa era già difficile di per sé, tanto valeva che lo fosse al massimo grado, per cui come prima destinazione puntai sul Kenya: da lì è partita la mia scoperta del mondo.

    All’epoca non frequentavo i social networks, non bloggavo: gli unici mezzi di contatto con casa erano il buon vecchio telefono e la posta elettronica. Cominciai a scrivere e-mail agli amici per raccontare come mi stavano andando le cose in viaggio. Non mi ero mai cimentato prima con la scrittura e non sapevo bene come articolare i miei reportage. Così alla fine decisi, come diciamo noi torinesi che risentiamo ancora oggi degli effetti della nobiltà sabauda, di buttarla in vacca. Era inutile dilungarsi nella descrizione di dettagli che chiunque avrebbe potuto reperire su una guida di viaggio. Meglio, molto meglio, raccontare quello che mi stava accadendo direttamente.

    Ora è bene ammettere subito una cosa: sono sempre stato un imbranato cronico e modestamente sono dotato di una naturale predisposizione nel combinare guai, per cui nel corso di tanti anni di viaggio ho commesso davvero molte sciocchezze. Questo per dire che tutto quello che leggerete nel libro, per quanto strano possa sembrarvi, è assolutamente autentico.

    Anni dopo sono riuscito a comprendere che facevo tutto questo solo per esorcizzare le mie paure. Sedermi in un internet point e sprofondare nello schermo di un pc mi permetteva di isolarmi per un po’ dal mondo esterno e non pensare ai miei timori. Timori che, oggi posso dirlo, erano infondati, dal momento che in tutti questi anni ho accumulato principalmente bellissimi ricordi (e anche qualche seccatura). In definitiva descrivere le piccole ansie quotidiane mettendola sul ridere mi ha aiutato molto nel mio processo di allontanamento delle paure. Poco alla volta mi rendevo conto che quelli che erano problemi oggettivi, erano al tempo stesso di semplice soluzione.

    Inoltre, a quanto pareva, si era venuto a creare spontaneamente un piccolo gruppo di fan: amici che mi richiedevano insistentemente aggiornamenti, altri che li giravano ad altri amici o colleghi, gente che io non ho mai conosciuto personalmente. Insomma, sembrava che fossi in grado di indurre quello spicciolo di buonumore che in certe giornate è prezioso come il pane.

    Dopo qualche anno, diversi amici hanno cominciato a stuzzicarmi con l’idea di raccogliere tutte le mail sotto forma di libro. Mi sono baloccato per qualche tempo con questo pensiero, ma non l’ho mai concretizzato. Nel frattempo, al mio piccolo gruppo di fan si era aggiunta una ragazza, che a distanza di anni è diventata la mia compagna di viaggio… e anche mia moglie.

    Grazie all’immunità morale di cui una moglie può godere, anche lei ha cominciato a sostenere l’idea di riunire in un libro tutte le mie peripezie. Alla fine, messo alle strette, ma fortemente appagato nell’orgoglio, ho ceduto.

    Tuttavia i problemi non erano finiti. Le mail costituivano degli spaccati precisi di ciò che mi accadeva, ma erano slegate, non avevano consequenzialità, erano totalmente prive di un filo conduttore che le annodasse una all’altra. Era necessario amalgamarle ed io non sapevo come fare. Ho riletto di nuovo tutti i libri di viaggio che avevo in casa (Kapuscinsky, Chatwin, Reverte, Moravia, Theroux, Terzani) e ho cercato di rubarne lo stile, ovviamente senza riuscirci. Poi mi sono dovuto documentare, ho dovuto leggere, studiare, reperire ogni tipo di informazione legata ai luoghi che avevo visitato e infine prendere tutto questo materiale e plasmarlo in modo da renderlo leggibile. Ecco perché mi ci sono voluti anni.

    Qual è stato il risultato? Non lo so, lo direte voi che leggerete. Da parte mia posso solo augurarmi di riuscire a farvi viaggiare con l’immaginazione o, meglio ancora, a farvi venire la voglia di mettere quattro cose nello zaino e partire.

    P.S. Un’ultima ma importantissima premessa. Per leggere questo libro ci vuole una buona dose di ironia oppure un inspiegabile gradimento per il pessimo umorismo dell’autore. Umorismo che comunque, sia ben chiaro, riguarda solo ed esclusivamente il sottoscritto. Quando prendo in giro qualcuno, quel qualcuno sono io; lo dico a chiare lettere perché non vorrei che si creassero degli equivoci e che si possa pensare che sto denigrando popoli o paesi.

    Ad ogni modo, se siete persone eccessivamente serie, controllate e precise, forse questa lettura non fa per voi.

    Sapevatelo!

    Capitolo I – KENYA

    A parte la sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste.

    Ryszard Kapuscinski

    Finalmente dopo mesi di dubbi, ripensamenti, paure, discussioni con parenti, amici e conoscenti e, ciliegina sulla torta, un volo annullato causa neve allo scalo di Amsterdam, sono riuscito ad arrivarci. Quello che segue è il racconto di viaggio della mia Africa, con buona pace di Karen Blixen e del titolo che mi ha rubato.

    La prima immagine che ricordo dell’Africa è filtrata dal finestrino dell’aeroplano: sto sorvolando il Sudan meridionale, all’altezza di trentatremila piedi e, guardando fuori, vedo l’alba. Si tratta di una sottilissima linea arancione che subito si scontra con il blu indaco per poi risolversi nel nero della notte. La osservo e penso a cosa mi succederà nelle prossime tre settimane.

    Nel periodo antecedente la partenza ho letto ossessivamente tutto quello che mi capitava tra le mani purché parlasse di Africa, tanto che, forse, mi sono auto-condizionato. Comunque sia, in diverse occasioni mi è capitato di leggere dell’odore dell’Africa. Proprio così: alcuni scrittori riportavano nei loro libri questo aspetto totalmente imprevisto del primo impatto con il Continente Nero, ed io mi dicevo:

    Ma che sciocchezza! Figurati se appena esci dall’aereo, la prima cosa che noti è l’odore. Questi non sanno proprio cosa scrivere.

    Del resto, che volete, parlavo soltanto di Kapuscinsky e Pasolini, due mezze tacche se paragonate all’indiscusso genio che ha scritto il libro che avete tra le mani.

    Ora, atterrato in Kenya, recuperato il bagaglio e uscito dall’aeroporto, qual è stata la prima cosa con la quale mi sono scontrato?

    Bravi. L’odore dell’Africa.

    È un odore diverso, al quale non ero preparato, un odore che racchiude dentro di sé l’afrore di cose magnifiche e ripugnanti: alberi in fiore e corpi surriscaldati, frutta matura e pattume, la ricchezza di una terra tropicale e il putridume di cose andate a male. Una sensazione così aliena che non riesco nemmeno a capire se mi piaccia o mi disgusti.

    C’è un’altra cosa alla quale non sono preparato: il caldo. ’A fenomeno!, direte voi, uno che va in Africa dovrebbe sapere che laggiù fa caldo. Sì, ma qui stiamo parlando di qualcosa di diverso: è un caldo cattivo che non ti lascia respirare e ti fa sudare come un muratore pure se stai perfettamente immobile. C’è un sole che aspetta solo che tu ti esponga ai suoi raggi per prenderti a schiaffi. E la cosa peggiore di tutte è che se ti guardi intorno, ti rendi conto che l’unico a essere ridotto in questa condizione pietosa sei tu. Per qualche strana ragione i locali si muovono con assoluta indifferenza, come se la temperatura esterna fosse di diciotto gradi, mitigata da una leggera brezzolina e l’odore che grava su ogni cosa nemmeno esistesse.

    Quindi è questa la sensazione che si prova quando ti trovi in un ambiente totalmente differente da quello in cui sei nato e cresciuto, questo è lo stato di perenne smarrimento e inadeguatezza che si sperimenta quando devi affrontare un mondo sconosciuto. Non mi ero mai soffermato a pensare al fatto che ciò che stavo provando in quel momento per una semplice vacanza deve essere solo una centesima parte di quello che provano centinaia di migliaia di africani che fuggono dalle loro terre disperate per cercare lavoro in Italia o in altri paesi europei. Abbandonare il proprio universo, la famiglia, gli amici, le abitudini, il particolare conosciuto per trasferirsi in un luogo alieno, ignoto, spesso ostile. Affrontare percorsi difficili, scomodi, a volte talmente pericolosi da non sapere nemmeno se si riuscirà ad arrivare alla fine. Bisognerebbe provare questa sensazione di disagio che si è impadronita di me appena ho messo piede su questa terra e che non mi vuole abbandonare per comprendere in minima parte l’immenso sacrificio compiuto da padri di famiglia, donne gravide, ragazzini che fuggono dalle guerre, dalle carestie, dalla fame e dalla paura.

    Mi guardo intorno per vedere se tra la folla di faccendieri che aspettano i polli da spennare c’è anche il mio contatto, il rappresentante della società di safari che ho interpellato via e-mail. Fortunatamente non si verificano problemi: lo vedo lì, pronto a recuperarmi nemmeno fossi io il bagaglio.

    Salgo sulla macchina e mi dirigo al loro ufficio nel centro di Nairobi, dove disbrigo le ultime formalità. Nell’occasione faccio conoscenza con James ed Erin, due ragazzi canadesi che stanno facendo il giro del mondo e che hanno deciso di partire dall’Africa. Scambiamo quattro chiacchiere mentre risaliamo sul pick up e in men che non si dica si parte per il safari: così va la vita, nel giro di ventiquattro ore passo da Torino alla Rift Valley.

    Tuttavia tra Torino e la Rift Valley c’è di mezzo Nairobi, oggi una delle città più grandi di tutto il continente africano, sorta dal nulla alla fine dell’Ottocento.

    Centocinquanta anni fa in questi luoghi, al posto di grattacieli e strade, c’era solo savana incontaminata e un luogo dove i Masai venivano a rifornirsi d’acqua. Il nome Nairobi, infatti, deriva dalla parola enarobe, che in lingua masai significa flusso di acqua fresca.

    In seguito venne la ferrovia Mombasa (sulla costa) – Kampala (Uganda), costruita dagli inglesi per arginare l’avanzata coloniale tedesca nell’Africa Orientale. Si era nel bel mezzo del periodo coloniale, il cosiddetto scramble for Africa, un procedimento criminale adottato dalle potenze europee che si sono spartite i territori del Continente Nero con l’unico scopo di sfruttarne le ricchezze: legname, spezie, petrolio, diamanti. Esseri umani.

    In ogni caso, Nairobi venne a trovarsi in una posizione perfetta per il sorgere di una città: a metà strada tra Mombasa e Kampala e nel punto di accesso agli altopiani dell’Africa Orientale. Nel giro di breve tempo la città si sviluppò, tanto che già nei primi anni del Novecento sostituì Mombasa come capitale del protettorato britannico dell’Africa Orientale.

    Oggi chi l’attraversa si trova di fronte a una città cosmopolita e vivace, con le tipiche contraddizioni delle metropoli africane: ricchezza e miseria camminano a braccetto, affiancando grattacieli avveniristici a infernali slums come Kogorocho, dove bambini di pochi anni devono scavare nelle immondizie per poter trovare qualcosa da mangiare.

    In ultima analisi è questo il risultato finale dell’esportazione della civiltà occidentale in Africa.

    Dopo qualche ora passata a rimbalzare sui sedili del pick up si arriva infine al Masai Mara, più di trecento chilometri quadrati di distesa erbosa, punteggiata dalle piante di acacia a ombrello che fanno tanto Africa. Il Mara è la propaggine settentrionale dell’immenso parco del Serengeti in Tanzania, terra ricca di fauna e zona tradizionale dei Masai.

    Si vede subito una quantità stupefacente di animali, spesso raggruppati in un unico luogo: ghepardi, zebre, leoni. Trovarsi per la prima volta nella vita al cospetto di un elefante o di un felino di grossa taglia non ti lascia indifferente ma, contrariamente a quello che si può pensare, la cosa che sconcerta veramente sono gli spazi sconfinati, l’immenso vuoto senza traccia di impatto umano. Probabilmente per gli europei l’Africa è sconvolgente proprio per questo: noi siamo abituati a vivere in spazi ristretti e quando ci spostiamo da un luogo all’altro, è impossibile riuscire a trovare chilometri e chilometri di superficie incontaminata. Qui invece ci sono spazi sterminati, pieni solo di cielo, libertà, aria, alberi, terra ed erba. E animali.

    Animali in ogni dove: mandrie sterminate di gnu, zebre e gazzelle, piccoli gruppi di leoni che osservano sornioni le probabili prede, ghepardi che si muovono solitari in mezzo all’erba alta. Uno spettacolo del tutto inconcepibile, quasi inaudito, come essere nel giardino dell’Eden, ma senza persone intorno che ne deturpino la perfetta armoniosità.

    Ne vengo soggiogato. Talmente soggiogato da voler fotografare ogni cosa che vedo. E allora faccio diventare scemo Nicholas, la guida, chiedendogli Ma è possibile passare di là? E da lì?, Attento, attento, attento!, Laggiù mi sembra di avere visto una formica. Il classico turista occidentale invasato che rompe.

    Nel frattempo Nicholas riesce ad arrivare con il fuoristrada a poco più di un metro da una leonessa. È bellissima. La guardiamo a bocca aperta con i movimenti sospesi a metà, tutti troppo estasiati per poter far altro che ammirare. Per un momento di durata infinitesimale incrocio lo sguardo con questa splendida creatura. Sarà l’autosuggestione, ma nel preciso istante in cui ci fissiamo negli occhi, tutto sparisce: ci siamo solo lei, io e un irreale silenzio. Se anche il viaggio terminasse esattamente in questo momento, sarebbe comunque valsa la pena essere venuto fino a qui.

    Nell’osservarla provo uno strano senso di esaltazione, quella curiosa sensazione di felicità che si prova quando si è trasportati fuori da se stessi, quasi ignari della propria esistenza. È la sensazione che prova l’artista quando crea la sua opera, oppure il padre quando gioca con suo figlio. Io la provo guardando negli occhi una leonessa seduta di fronte a me.

    Parte la scarica di foto; la leonessa ci guarda un attimo e poi si gira dall’altra parte, ignorando queste goffe e patetiche creature che le si agitano davanti. È un essere che vive in perfetta sintonia con i tempi della terra, che si muove sulla base di un istinto primordiale che non le concede né spazio né tempo da perdere con noi.

    Giunge il momento di andarsene, di lasciarla in pace. Mentre il pick up lentamente si allontana, ci giriamo tutti a osservarla e sentiamo di avere lasciato sul terreno di fronte a lei un momento irripetibile della nostra vita, un attimo breve eppure così intenso da essere interminabilmente lungo.

    La società che organizza il safari mette a disposizione dei clienti due possibili sistemazioni: quella da persone civili, in lodge con ristorante, acqua corrente e tutti i comfort e quella da barboni. Io ovviamente ho scelto la seconda.

    Nella sistemazione vivi-come-un-pezzente la notte si dorme in campeggio. Ora, non è che uno si aspettasse il Club Med, anzi: una vacanza del genere la si fa proprio per evitare luoghi simili, ma l’arrivo al campeggio non è stato del tutto indolore.

    Intanto è bene capirsi sui termini.

    In Europa, quando si parla di campeggio, ci si riferisce a un luogo mediamente organizzato, dotato come minimo di acqua corrente per le docce e i servizi igienici e di corrente elettrica alla quale collegarsi.

    In Africa con il vocabolo campeggio si intende un pezzo di terra pianeggiante sulla quale si possa montare la tenda e dormirci dentro senza scivolare inavvertitamente fuori nel corso della notte; a corredo dello spiazzo, c’è una lussuosissima capanna di legno marcio con al suo interno ben due tavolacci, qualche sgabello zoppo e una micro area dedicata al cuoco. Esatto, sarebbe il lounge.

    Infine il tocco di classe è costituito dai sistemi sanitari: ci sono due bagni e la doccia. Per la cronaca, i bagni sono due profondi buchi scavati per terra che una volta riempiti (e ci siamo capiti!) vengono richiusi con della calce viva.

    La doccia invece è un rompicapo logico. Da dove arriva l’acqua, dal momento che vi trovate nel bel mezzo della savana africana, dove non ci sono tubature e dell’acqua corrente neanche a parlarne? Risposta: dalla pericolante cisterna pronta a crollare da un momento all’altro che sta esattamente sopra la vostra testa. Per cui se proprio volete farvi una doccia, dovete sperare che di recente abbia piovuto copiosamente e poi pregare che la cisterna non decida di cedere proprio nel momento in cui voi ci siete sotto.

    Se poi volete concedervi anche lo spropositato lusso di avere dell’acqua calda… Hakuna matata!¹ Vi verrà fornito un eccellente accendino e una piccola pentola piena d’acqua e voi potrete, con vostro comodo, mettervi a scaldarla manualmente, trasformati in boiler umani senza rendervene conto.

    Si può anche decidere di seguire la via dell’ascetismo e accettare serenamente di non farsi la doccia per un paio di giorni, tanto l’importante è essere belli e puliti dentro. Ma io dovevo farmi sette giorni nella savana, a centinaia di chilometri di distanza dal più vicino centro abitato. Alla fine ho dovuto cedere: ho barattato due pacchetti di arachidi salate con un accendino e così mi sono potuto permettere la possibilità di lavarmi.

    Al di là delle battute, questo episodio è stato uno dei tanti che mi hanno indotto a riflettere su quanto nella nostra società si diano per scontate determinate comodità. Eppure queste comodità per la gente del Kenya, dell’Africa e di buona parte del resto del mondo sono dei lussi rari. Com’è possibile che esistano queste disparità? Com’è possibile che noi innaffiamo begonie, ci tiriamo gavettoni, buttiamo via miliardi di ettolitri d’acqua in sciocchezze mentre quaggiù quella poca acqua che c’è non è nemmeno sufficiente per bere?

    La cena scorre via amabilmente. Il cuoco si prodiga a prepararci quanta più roba possibile e alla fine ci ritroviamo a mangiare con lui, la guida, alcuni Masai in abiti tradizionali e qualche altro amico spuntato dal nulla. Ci si siede intorno al fuoco, ci si mette il pentolone sopra e chi vuole mangiare non deve fare altro che alzarsi e servirsi.

    Queste cene sono uno dei ricordi più belli del mio viaggio in Africa; trovarsi in mezzo a delle persone vere e così immensamente diverse da me mi dà l’impressione di essere veramente parte di un unico mondo. Mi fa capire che bisogna imparare il contatto con l’Altro e da questo contatto autodefinirsi nelle differenze, ma non nelle diversità. Per effetto di tutto questo si devono ricodificare i propri comportamenti, le proprie opinioni, il modo di rivolgersi alle persone, si devono abbandonare le idee preconcette e i pregiudizi, si deve imparare a conoscere l’arte dell’abbandono, la languida piacevolezza della chiacchiera, le risate.

    Mi guardo intorno e vedo i Masai, ma non quelli finti che si possono trovare nei villaggi vacanze a uso e consumo dei turisti. No, questi sono veri: vengono da un villaggio vicino e sono pagati dall’agenzia di safari per fare la guardia al campo durante la notte oppure per attendere a faccende varie. Sono curiosi e si interessano a me, ma non possiamo comunicare direttamente: loro non parlano inglese ed io certamente non parlo il masai. Bisogna affidarsi a Nicholas e farsi tradurre ogni singola parola. Mi chiedono da dove vengo, come mi chiamo, dov’è la mia famiglia, quanti figli ho, perché sono in viaggio. Non posso fare a meno di rispondere e mentre Nicholas traduce le mie parole, li osservo di nascosto uno a uno, li guardo mentre ascoltano intenti quello che la guida dice e infine li vedo sorridere e rivolgersi nuovamente verso di me quando la frase è finita. A quel punto la forma di cortesia africana prevede che siano loro a parlarti di se stessi, da dove vengono, come si chiamano, dov’è la loro famiglia, quanti figli hanno.

    È curioso e bello avere a che fare con questi uomini e donne comparsi dal nulla, vestiti con i loro abiti tradizionali, che mostrano un orgoglio, una fierezza indomita, una cosciente consapevolezza della loro forza guerriera che risale a secoli di distanza.

    I Masai sono riusciti a conservare il loro arcaico stile di vita mantenendosi lontani dal processo di modernizzazione del Kenya, limitandosi a curare i propri greggi e disinteressandosi anche dei confini nazionali; non è raro, infatti, che i pastori nel corso del loro lavoro oltrepassino il confine e si stabiliscano per qualche tempo in Tanzania. Questa mobilità costante, un tratto tipico di tutti i popoli africani, impedisce di effettuare un censimento accurato, cosicché al giorno d’oggi non si ha una stima precisa del numero di esseri umani che costituiscono questo fiero popolo.

    Una delle cose che rende unica l’Africa è l’assoluta temporaneità delle sue civiltà. Nessun popolo africano si trova nel suo luogo di origine perché nel corso dei millenni si sono spostati tutti in tutte le direzioni. Gli africani sono stati degli immigrati nel loro continente migliaia di anni prima che lo fossero nel nostro, la loro civiltà è una civiltà in movimento fisico, mobile, deambulante. Questa è la ragione per cui in Africa non esistono città antiche come nel caso dell’Europa o dell’Asia, per il semplice motivo che, nella continua ricerca di spazi vivibili, l’uomo africano ha sempre rifiutato la stanzialità, il sedentarismo. L’unica continuità che esiste in Africa è quella delle tradizioni tribali che i popoli hanno portato con sé insieme ai loro scarsi averi nel corso degli interminabili pellegrinaggi da un lato all’altro del Continente Nero. Il viaggio, il nomadismo è parte essenziale di ogni africano, sia esso keniota, senegalese o angolano; definire dei luoghi circoscritti nei quali si possono muovere (è proprio il caso del Mara) è un’assurdità del tutto inconcepibile per dei popoli che hanno vissuto per migliaia d’anni in una condizione radicalmente differente.

    Ma per loro immensa fortuna siamo arrivati noi occidentali a esportare la vera civiltà, giusto? La civiltà fatta di schiavismo, oppressione, sfruttamento indiscriminato delle ricchezze, totale indifferenza verso usi, costumi e tradizioni locali.

    Certo, qualcuno potrebbe obiettare: Queste cose ormai fanno parte del passato e adesso l’Africa deve cominciare a muoversi con le proprie gambe.

    Nulla di più sbagliato. Ci si potrebbe scrivere un’enciclopedia su quelli che sono i danni apportati dall’uomo bianco all’Africa: dalla totale assenza di infrastrutture all’aggregazione forzata di popoli con tradizioni e credenze differenti. Per quello che mi riguarda, preferisco dire solo quattro parole su quello che è stato lo schiavismo.

    Intanto credo sia evidente che sottoporre a lavoro forzato un altro essere umano, privandolo della libertà, imponendo tempi e modalità di lavoro inaudite, facendolo morire di stenti non possa essere definito in altra maniera che crimine. Un crimine che si è protratto per quasi quattrocento anni, tra il XV e il XIX secolo. Milioni di individui catturati, strappati con violenza dalle loro terre, stipati come animali dentro alle navi e obbligati a compiere un viaggio letteralmente mortale. Si calcola che almeno il cinquanta per cento delle persone che affrontavano i viaggi oceanici siano morte lungo il tragitto; del resto i capitani delle navi venivano pagati a peso, ovvero percepivano una commissione su ogni schiavo sbarcato a terra. La mortalità di uno schiavo per loro non aveva alcuna importanza: l’acquisto era stato effettuato in Africa da una compagnia commerciale, ragion per cui tanto valeva imbarcare il maggior numero possibile di persone, del tutto incuranti delle loro condizioni di vita durante la traversata.

    In virtù di questo fatto, la Royal Africa Company a partire dal XVIII secolo impose, con estrema benevolenza, che ogni schiavo avesse a sua disposizione uno spazio minimo: 180 centimetri di lunghezza, 27 centimetri di larghezza, 57 centimetri di altezza. Praticamente una cassa da morto dentro la quale passare sdraiati tutto il tempo del viaggio a mangiare, bere, dormire e defecare.

    I sopravvissuti venivano mandati a lavorare in condizioni bestiali nelle piantagioni di cotone e zucchero degli Stati Uniti, del Brasile, dei Caraibi. La prossima volta che sentirete parlare della ricchezza del mondo occidentale, provate a pensare che le fondamenta di quell’edificio sono costituite dal lavoro, dalle ossa e dal sangue dei popoli africani.

    Un’errata convinzione ci porta a pensare che con il termine schiavismo si possano identificare solo quelle persone che, razziate dalla loro terra d’origine, sono state messe con la forza sulle navi europee e trapiantate nelle piantagioni del Nuovo Continente. La realtà è ben più articolata.

    I funzionari coloniali incaricati di mettere in piedi un’amministrazione europea nei territori africani, si ritrovarono in brevissimo tempo ad affrontare un problema apparentemente insormontabile: la totale mancanza di manodopera. Ogni distretto amministrativo che fosse inglese, francese, portoghese, tedesco o belga, aveva un’indispensabile necessità di personale: muratori per la costruzione degli edifici amministrativi e delle dimore dei funzionari, impiegati per mandare avanti le pratiche

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