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Chiva Express. Colori, profumi, emozioni dall’America Latina
Chiva Express. Colori, profumi, emozioni dall’America Latina
Chiva Express. Colori, profumi, emozioni dall’America Latina
E-book397 pagine6 ore

Chiva Express. Colori, profumi, emozioni dall’America Latina

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Info su questo ebook

Questo libro conclude in qualche modo la trilogia di scritti dell’autore che raccontano di America Latina.
Scritti di viaggi, sempre autobiografici, con le orecchie e gli occhi sempre attenti a percepire anche il più piccolo dettaglio di ciò che la vita in quel momento offre al viaggiatore.
Curiosità e ricerca continua sono gli stimoli che spingono ad andare sempre un po’ più in là, a vedere cosa c’è oltre, senza mai accontentarsi dell’apparenza, senza lasciarsi condizionare, osando spesso e non arrestandosi a fronte delle mille difficoltà che viaggi in solitudine o su rotte inconsuete offrono sempre.
LinguaItaliano
Data di uscita19 mag 2020
ISBN9788855128599
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    Anteprima del libro

    Chiva Express. Colori, profumi, emozioni dall’America Latina - Maurizio Messina

    Maurizio Messina

    Chiva Express

    Colori, profumi, emozioni dall’America Latina

    Copyright© 2020 Edizioni del Faro

    Gruppo Editoriale Tangram Srl

    Via dei Casai, 6 – 38123 Trento

    www.edizionidelfaro.it

    info@edizionidelfaro.it

    Prima edizione digitale: maggio 2020

    ISBN 978-88-6537-623-2 (Print)

    ISBN 978-88-5512-859-9 (ePub)

    ISBN 978-88-5512-860-5 (mobi)

    In copertina: Viaggio in Chiva

    http://www.edizionidelfaro.it/

    https://www.facebook.com/edizionidelfaro

    https://twitter.com/EdizionidelFaro

    http://www.linkedin.com/company/edizioni-del-faro

    Il libro

    Questo libro conclude in qualche modo la trilogia di scritti dell’autore che raccontano di America Latina.

    Scritti di viaggi, sempre autobiografici, con le orecchie e gli occhi sempre attenti a percepire anche il più piccolo dettaglio di ciò che la vita in quel momento offre al viaggiatore.

    Curiosità e ricerca continua sono gli stimoli che spingono ad andare sempre un po’ più in là, a vedere cosa c’è oltre, senza mai accontentarsi dell’apparenza, senza lasciarsi condizionare, osando spesso e non arrestandosi a fronte delle mille difficoltà che viaggi in solitudine o su rotte inconsuete offrono sempre.

    L’autore

    Maurizio Messina è nato a Livorno e attualmente vive a Roma. Ha soggiornato a lungo all’estero per attività di cooperazione internazionale. Ha già pubblicato Cucuta, ovvero cronaca di una conferenza annunciata e Macchu Picchu. Andata e ritorno.

    Gracias a la vida, que me ha dado tanto

    Mercedes Sosa

    Chiva Express

    Colori, profumi, emozioni dall’America Latina

    Prefazione

    Perché il v ia gg io ?

    Cos’è che spinge a muoversi dalla tranquillità di casa, con tutti gli agi di cui uno si è circondato accumulandoli nel tempo: un buon salotto, gli elettrodomestici, gli apparecchi elettronici che facilitano e allietano la nostra quotidianità, per traslarsi in posti sconosciuti, fra gente sconosciuta che parla un’altra lingua e ragiona in maniera diversa? Dove non ci sono le comodità a portata di mano? Anzi, dove spesso si va incontro a serie difficoltà e talvolta anche a pericoli? Prendendo a prestito le parole dello scrittore Ivo Andrić posso dire che mentre negli anni passati molti pensavano che si fosse trovata la formula infallibile per attuare il sogno del pieno e felice sviluppo della personalità, nella libertà e nel progresso, mentre si dispiegavano dinanzi agli occhi i molteplici e illusori suoi benefici creando la fata morgana di comfort, sicurezza e felicità per tutti e per ognuno a prezzi accessibili e rateizzabili, bene proprio in quegli anni, a partire dalla decade dei ’70 io percorrevo una strada in direzione ostinata e contraria, dando corpo a un istinto di ricerca e di curiosità che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita.

    C’è una spinta inarrestabile che viene da dentro, che non si può spiegare, per lo meno io non posso spiegare, che è più forte di qualsiasi resistenza (ma io in genere ne faccio poca) e proietta verso l’ignoto, verso posti diversi a sfidare se stesso, ma anche ad arricchire il bagaglio di conoscenza e soddisfare la curiosità.

    Mi sono chiesto molte volte perché sento dentro questo impulso irrefrenabile di viaggiare, vedere, conoscere, che non è una fuga dal presente, no, è molto di più e più profondo. Direi che è un bisogno ancestrale, quasi fosse scritto nel mio DNA e mi ricordasse costantemente che c’è un mondo che mi aspetta, che aspetta di essere visitato e portato davanti agli occhi, annusato nell’aria profumata delle vegetazioni e negli odori rancidi dei quartieri spazzatura, udito nelle lingue e nei dialetti parlati, nei suoni e nelle musiche, gustato nei sapori di piante e pietanze sconosciute, nei liquori e nelle bevande di ingredienti impensabili, toccato con mano e calpestato nelle lunghe camminate.

    La sola idea di un aereo, piuttosto che di una nave mi procura adrenalina e mi dà una carica sconosciuta, moltiplicando le energie nel mio corpo. La preparazione del passaporto mi eccita e spinge la mia fantasia già sul nuovo posto che mi ospiterà e dove vivrò uno spicchio piccolo o grande di tempo di vita. E ogni viaggio per me è anche un viaggio dell’anima e nell’anima, introspettivo, mi fa guardare dentro, mi costringe a pensare e a confrontarmi con le mie impressioni, le mie emozioni, mi interroga in ogni momento.

    In fondo la vita stessa non è altro che un lungo viaggio. Un viaggio che è anche opportunità, conoscenza, sogni, felicità e amarezze, scoperte. E da quando sono consapevole di questo ho deciso che il mio viaggio-vita fosse pieno di viaggi-viaggi, in cui la mia vita si incrociasse con quella di altri, sconosciuti e no, in cui imparare dagli altri e dalle esperienze vissute e, possibilmente, mettermi a disposizione di altri. Per questo ha intrapreso la strada della cooperazione, in modo da dare un senso di reciprocità fra me e gli altri. Ma ho anche deciso di vivere pagando un prezzo a volte alto, ma consapevole di volere una vita non banale e piatta, ma di ricerca continua, potrei dire una vita spericolata, a volte decisamente esagerata, tanto per citare Vasco Rossi, o più modestamente che "alla fine della strada i miei giorni li ho vissuti" come dice invece Pierangelo Bertoli.

    La raccolta di racconti brevi racchiusa in queste pagine ha il senso di un percorso fatto a varie latitudini e longitudini, in situazioni profondamente diverse fra loro e in tempi di vita molto diversi (oltre venticinque anni di intervallo), ma tutte legate da un sottile ma robusto filo rosso e tutte vissute con grande intensità e passione e soprattutto con spirito immutato. Tutto o quasi si svolge attorno alla cooperazione e ai progetti a cui ho partecipato in qualche modo o che ho pensato di mettere in piedi, oppure sono un appendice di qualche viaggio di cooperazione, necessario complemento alla conoscenza e alla comprensione della realtà con cui avevo/ho deciso di avviare e/o consolidare il confronto.

    Lo scritto non rende giustizia alle grandi emozioni vissute, ho provato a riviverle e a raccontarle con la speranza che le parole abbiano conservato, almeno in parte, la freschezza delle suggestioni, delle eccitazioni, delle impressioni vissute e interiorizzate fin dentro l’anima. È strettamente intrecciato con la musica, che è sempre la mia compagna assoluta di viaggio e di vita, e con il cinema, giacché le situazioni o alcuni dei luoghi visitati e descritti hanno un rimando diretto a famosi film.

    Prende origine dal primo lungo viaggio intercontinentale di più di tre decadi fa e termina quasi ai giorni d’oggi, nello stesso paese, quasi come fosse una chiusura di un cerchio di vita.

    Transatlantica

    Il viaggio

    Dicembre 1982

    La prima impressione è senz’altro positiva, anche se non ho visto quasi niente per il buio (né Genova, né Torino che abbiamo sorvolato).

    L’atterraggio a Parigi comunque mi ha gasato: le luci, l’ambiente mi hanno fatto dimenticare i colpi di vento durante il volo e la pessima senape della cena a bordo (sto ancora morendo di sete). Sbrigo un rapido check-in e mi guardo intorno curioso, comincio a vedere gente di aspetto diverso da noi europei (con la pelle scura, capello liscio a caschetto stile indio).

    Si respira un’aria non convenzionale, internazionale, sarà anche perché Parigi è sicuramente una città multietnica e molto più cosmopolita di Roma. L’aeroporto Charles De Gaulle sembra metterti a tuo agio: moderno, funzionale, confortevole, insomma le due ore di scalo potrebbero non pesare molto. Ci sono anche diversi italiani che vanno a Caracas con il mio volo, qualcuno addirittura va fino a Bogota (mi sembrano emigranti, beh, ma in fondo io chi sono?).

    Questo è il mio primo viaggio intercontinentale. Ho viaggiato molto negli anni precedenti, ma soprattutto via terra e per lo più in Europa e sulle sponde del Mediterraneo fino al Medio Oriente. Ma non ho mai passato l’Oceano. Ho cercato e perseguito l’occasione di farlo e finalmente ci sono riuscito, offrendomi per un progetto di cooperazione internazionale. E così, dopo un’infinità di passaggi burocratici, dalle interminabili visite mediche alle pratiche per il visto di lavoro ecco che mi sto trasferendo in Colombia per lavorare all’Università Antonio Nariño a Bogota. Ho vissuto le ultime settimane in un’atmosfera di eccitazione totale, correndo di qua e di là a richiedere e consegnare carte e bolli, organizzandomi mentalmente e praticamente: cosa mi porto dentro la valigia? Cosa mi spedisco? Cosa mi servirà nel lavoro e nella vita quotidiana? Di sicuro la macchinetta del caffè e poi libri, una bottiglia di Chianti per brindare al nuovo mondo, e poi?

    Un kway e un bel paio di scarpe alte da pioggia perché mi hanno detto che piove spesso. E poi le solite cose, ma non tante. Viaggiando ho imparato che conviene comprare sul posto le cose di cui si ha bisogno piuttosto che portarsele in pesanti valige. Sono molto eccitato, carico psicologicamente, assaporando la novità che mi si prospetta e tutta l’ebrezza per questa che si preannuncia come un’affascinante avventura, un’altra pietra miliare della mia vita. C’è anche una buona dose di sana incoscienza, avendo scelto un paese di cui praticamente non so nulla (ma l’ho scelto anche per questo), così come non so nulla della gente che incontrerò e con cui dovrò lavorare e per di più a una settimana dal Natale, che potrebbe anche essere il più frustrante della mia vita, dipende da che piega prenderanno le cose. Il mio amico Giorgio lo scorso anno è partito per Lima per un progetto analogo e dopo tre mesi non ha resistito ed è tornato indietro. Ma la spinta che ho dentro è formidabile, l’ansia di conoscere, di incontrare, di sperimentare, di mettermi a confronto, è più forte di qualsiasi dubbio e così non ho rimandato a dopo le feste la mia partenza. La sfida a cui mi sono sottoposto è grande, ma molto più grande è il fascino che porta con sé.

    Mi pare di stare in una sfera trasparente, sospesa nell’aria, che fluttua sospinta da un leggero refolo di vento e guardo tutte le cose dall’alto, da un’angolatura inconsueta ma anche con una certa distanza, non solo fisica.

    Livorno mi sembra lontano anni luce, anche Gianni, Simona e Aminta che ho lasciato solo due ore fa a Fiumicino sono lontani tutte le migliaia di chilometri che separano Parigi da Roma. Continuo la perlustrazione dell’aeroporto, ci sono una serie di negozi aperti, duty free, salto quelli di profumi e liquori e mi fiondo in quello di libri e riviste.

    Dopo aver sfogliato qualche guida di paesi tropicali ho la malaugurata idea di aprire la rivista Photo, dove trovo pubblicato un servizio sui mostri umani viventi, cioè persone con malformazioni incredibili sofferte fin dalla nascita, creature veramente impressionanti: quello che mi ha lasciato di merda sono state le didascalie. Più della metà di quei poveretti era stato fotografato in Colombia, diversi addirittura sui marciapiedi di Bogota. Spero che gli autori siano andati a prendere le foto in posti particolari e mi dico che non devo farmi idee sbagliate o generalizzare, ma intanto mi sale un malessere e mi viene da domandarmi in che posto sto andando. Vado a sedermi sulle poltroncine nella sala di attesa stile metropolitana di Roma, di fronte a una donna molto bella, tipo creola.

    E comincio a scrivere. Queste righe. Poi la sete ha la meglio. Mi alzo e vado a bere l’acqua del lavandino del cesso. Fa un caldo boia e la musica diffusa dagli altoparlanti (grandi orchestre americane tipo Glenn Miller) è bella ma sta cominciando a rompermi le palle perché leggermente monotona. Per fortuna manca solo poco più di una mezzoretta alla partenza.

    C’è un ragazzo giovane che pare uscito oggi dalla foresta, se non fosse per un paio di scarpe da ginnastica, i pantaloni di velluto e un maglione di un colore mai visto prima che gli danno un tono da orfano vissuto all’oratorio. Forse anche perché vicino gli siede uno sulla cinquantina passati che ha un’aria a metà fra il missionario e il professore universitario all’antica (come gli scienziati pazzi dei film).

    Finalmente chiamano il volo. Gran casino perché la chiamata è per numeri di posto assegnato ma molti viaggiatori non sanno come comportarsi e quindi ingolfano l’accesso al gate. Dopo una decina di minuti di incertezza e di fila decido che, numero o no, passo. E passo. Senza problemi. Chissà se avevano chiamato proprio il numero mio? Prendo posto accanto al finestrino (come avevo chiesto) e c’è un gran viavai di gente che viene e va lungo il corridoio. C’è quella che vuol stare accanto alla madre che sta nell’altro corridoio nel reparto non fumatori, mentre lei fuma, chi ha gli amici dieci file più dietro e sbraccia e chiede di essere spostato e poi tante persone che si muovono irrequiete, come formiche nei pressi del formicaio. Io le osservo dal mio posto, ho appena scoperto che i programmi in cuffia offrono un intero canale per i Rolling Stones e pure gli altri non sono male. Questo mi mette di buon umore e mi concilia con il lungo viaggio che devo affrontare. Ma la mia esultanza è destinata a spegnersi presto, purtroppo. Infatti dopo poco comincia un flusso ininterrotto di tecnici in tuta bianca, prima uno, poi due, poi sempre di più. La faccia sorridente della hostess ci annuncia che c’è qualche piccolo problema e che perciò faremo un po’ di ritardo.

    Guardo fuori dal finestrino. A Parigi deve tirare un vento cane, mentre dentro fa un caldo secco e asfissiante, davvero insopportabile. Dopo un po’ che ho sfogliato e leggiucchiato tutta la rivista che l’Air France gentilmente mette a disposizione, l’ineffabile hostess con uno smagliante sorriso, ci annuncia, come se niente fosse, che partiremo con un’ora di ritardo. Parte qualche moccolo da parte mia, ma i Rolling Stones e i Dire Straits attutiscono l’incazzatura.

    In breve il ritardo diventa di due ore e finalmente alle due di notte si decolla, dopo un veloce succo d’arancia. Mi addormento e sono svegliato dalla solita hostess che con lo stesso sorriso di cazzo con cui ci aveva annunciato il ritardo, mi chiede se voglio da mangiare. Sono tentato di mandarla a fare in culo e continuare a dormire, ma è solo un attimo. Mi riprendo subito e ricambio il sorriso e accondiscendo all’invito, così spolvero la seconda cena della serata con tanto di 60 cl.di vino francese.

    Accanto a me è seduto un ragazzo di colore, che dorme come un sasso ed è anche ingombrante, così che mi impedisce di muovermi in libertà e mi costringe a consumare il pasto in uno spazio che è già limitato di suo ma adesso è assolutamente insufficiente a farmi usare forchetta e coltello per tagliare la carne, al punto che ogni tanto gli assesto qualche bella gomitata. Ma lui continua a dormire alla grande. Finora non ho scambiato una parola con nessuno. Cazzo, sono le quattro, ora italiana. Forse è meglio se riposo, dato che ieri con Bob e Fortunata ho fatto le tre a chiacchierare e non ho dormito niente. Le posate del pranzo sono proprio carine, di metallo non di plastica, ma non mi va di fregarle. Spero di riuscire a dormire.

    Mi addormento quasi subito perché il vino deve aver fatto il suo effetto, saltando anche il film di cui riesco a vedere solo qualche frammento aprendo un occhio quando mi giro. Dormire in mezzo metro cubo di spazio è veramente una cosa atroce. Comincio a rimpiangere le care vecchie FF.SS., che per lo meno quando ti siedi ci hai il tuo metro cubo intero di spazio vitale. Il caldo bestiale mi secca anche la saliva in bocca. A parte qualche gomitata al compare a fianco riesco in qualche modo a dormicchiare. A un certo punto mi sveglio, non so perché mi è passato il sonno, forse è l’adrenalina in circolo, mi metto al finestrino.

    Le nubi sono nere. Il cielo ha una sfumatura dal nero al viola dell’alba, che permette a una stellina di brillare in tutta la sua intensità. Poi una striscia rosso fuoco avverte che l’alba è ormai vicina. Il bagliore e tutto lo stupendo spettacolo mi fanno l’impressione di un gigantesco incendio di una foresta. È davvero difficile trovare le parole per esprimere queste sensazioni. I Rolling Stones mi fanno compagnia, interrotti dalla hostess che di tanto in tanto annuncia lo scalo a Fort de France. A mano a mano che il giorno lentamente ma prepotentemente si fa avanti si cominciano a delineare meglio i contorni delle nuvole, i chiaroscuri, e lo spettacolo è davvero meraviglioso. La stellina continua sempre a brillare solitaria (che sia Venere, come mi hanno detto una volta?).

    In momenti come questo mi piacerebbe tanto avere le qualità di descrittore che non ho, perché vorrei trasmettere agli altri tutte le sensazioni, lo stato d’animo che provo. Mi accorgo che stiamo discendendo. Che buffo! Queste enormi ditate di panna messe alla rinfusa in cielo le une sulle altre hanno forme davvero strane, qualcuna addirittura sembra che voglia seguirci, disturbata nella sua quiete dal nostro passaggio. Si intravedono delle lucette molto sotto, distanti fra loro. Nel buio non si capisce se le separa il mare o la terraferma. Sono nel casino: se scrivo non posso seguire le immagini fuori che si accavallano e seguendo fuori non ce la farò poi a ricordare tutto e a scrivere. Passiamo in mezzo alle nuvole. Pian piano si definiscono meglio i contorni: è un’isola in mezzo al mare.

    WOW! Sono arrivato ai Caraibi! Ai Caraibi! Mi prende un leggero stato di euforia. Moderata, com’è nel mio carattere, ma mi sento come se avessi migliaia di bollicine di una bottiglia di champagne che si muovono nel mio cervello. Il compare seduto a fianco che mi guarda scrivere ha un punto interrogativo in fronte, sembra chiedersi: ma che cazzo avrà da scrivere questo?

    Mick Jagger con la sua voce graffiata attacca Time is on my side, me lo sento molto vicino, pare che la stia cantando per me, o per lo meno io gli do questo significato, anche se è una pura combinazione. È difficile descrivere quello che provo. Dentro di me c’è un subbuglio incomprimibile ed elettrizzante. È vero, avverto il tempo al mio fianco, anzi sento che la vita è al mio fianco, e mi stia dando una chance incredibile. Mi sento straordinariamente bene, l’avventura è cominciata, ho passato il mio Rubicone, in questo caso l’Oceano Atlantico. Ho aperto un’altra porta nella mia vita e la sto varcando andando incontro a quello che il destino mi ha riservato, ma con la determinazione di forgiare in qualche modo il mio di destino e renderlo conforme alle mie aspettative, ai miei desideri. Arriviamo sulla città dal mare. Le luci sembrano intermittenti. La pista dell’aeroporto comincia praticamente sul mare (non so come sia possibile) e inizialmente pare di sola terra battuta, solo dopo mi accorgo che comincia l’asfalto. L’atterraggio è ottimo. Ci informano che sono le sei ora locale, mentre il mio orologio fa le undici (di mattina) ora di Roma. Stanotte avrò dormito si e no un paio d’ore.

    Spulciando la rivista dell’Air France mi accorgo che Fort de France non è altro che la capitale della Martinica. Se ci penso mi sembra strano, ieri mattina mi stavo affannando fra piazza Marconi e piazza Venezia alla ricerca di una banca che mi cambiasse le lire in dollari e adesso, solo qualche ora dopo, sono alla Martinica eppure sembra anche tutto così normale, naturale. Il sole adesso splende alto e si sente, il caldo comincia a imperversare. Alla ripartenza dopo lo scalo il panorama è bellissimo, mi pare di vivere una scena da film. Sotto, il mar dei Caraibi (dico, mica il mar Ligure!) è piatto come una tavola. La costa frastagliatissima offre notevoli baie quasi tutte trasformate in porticcioli o comunque prese d’assalto da imbarcazioni niente male.

    La scena sembra surreale. Tutto fermo, statico, si muovono solo le nuvole. Prendiamo quota e dopo un po’ rimangono solo e sempre nuvole: la poesia sta sparendo. Ascolto la musica, mangio e mi rilasso. Penso a un sacco di cose. Penso anche che mi sarebbe piaciuto fare un viaggio così in compagnia. Mi vengono in mente un sacco di persone, alcune vicine, altre lontanissime.

    La costa del Venezuela compare all’orizzonte, molto montuosa. Il tempo è splendido, il mare anche, lo steward viene a recuperare le cuffie, addio musica, in base a non so che cazzo di convenzione internazionale, come ci viene comunicato, ma secondo me lo fanno perché altrimenti la gente se le frega. Mi rendo conto che, anche se non ho scambiato parola con nessuno, sto scrivendo come un pazzo.

    Siamo a Caracas, ci informano che la temperatura è di 24° (alle sette del mattino, da noi in questo periodo dell’anno sarebbe vicino allo zero). L’aeroporto è brutto, tutto cemento armato, e non scendo nemmeno per lo scalo, rimango seduto mentre gli addetti alle pulizie passano l’aspirapolvere e raccolgono i rifiuti. In compenso scendono quasi tutti gli altri passeggeri.

    Si riparte. Il mare mi pare bello, mi piacerebbe farci un bagno. Ci sono dei puntini bianchi che galleggiano, dalla mia posizione non si capisce bene cosa possano essere, sembrerebbero oggetti di plastica, ma è più probabile che siano gabbiani o qualcosa di simile. L’aeroporto di Caracas è davvero piccolo, lì ai bordi del mare, e della città neppure l’ombra, deve essere distante, magari dietro le montagne. Mano a mano che si sale aumenta la foschia, ma questo non impedisce la vista sottostante. Sembrerebbe che tutto il terreno coltivabile sia coltivato. La cosa più bella sono i fiumiciattoli, almeno così sembrano da quest’altura, tutti tortuosi, perché si snodano fra montagne e valli, sembrano quei lombrichi che si trovano per terra dopo che ha piovuto a lungo, distesi lunghi e arricciolati sui marciapiedi.

    Vengo distratto dall’arrivo di un’altra colazione. E qui lieta sorpresa. In un vassoio, fra l’altro, ci sono delle palline arancioni che avevo scambiato per carote, e invece no, sono meloni o qualcosa di simile. Deliziosi. Ecco che in qualche modo il nuovo mondo prende una forma concreta, fatta di sapori, di cose che posso toccare direttamente, oltre a quelle che vedo sotto di me dal finestrino. Sotto non c’è ombra di foreste. Mi chiedo: ma l’Amazzonia quando comincia? Poi mi assale un dubbio. Prendo la rivista di Air France e cerco la pagina con le rotte intercontinentali, scorro la cartina seguendo il segmento rosso che corrisponde alla rotta su cui mi trovo e scopro che con l’Amazzonia non ha proprio niente a che vedere e mi dò dello stupido. Si vede che la fantasia del desiderio è andata oltre la realtà (e la conoscenza). Un pessimo caffè, somigliante in quantità e qualità più a una coca cola calda, mi sciupa tutto il pasto. Siamo entrati in Colombia, sotto c’è la cordigliera. Qui sopra si domina tutto, sembra di essere in un’altra dimensione, si ha la sensazione di essere al di sopra degli uomini e delle cose e non solo fisicamente.

    La mia curiosità è pari solo alla fantasia. Insomma, ci siamo quasi, ormai manca poco e sto per aprire un’altra pagina della mia vita. Ho fretta di arrivare. Ho aspettato a lungo questo momento, adesso che la meta è vicina mi pare che in qualche modo siano stati premiati i miei sforzi per cercare un’altra avventura, un’altra dimensione, un’altra sfida. Non so ancora ciò che troverò e soprattutto non so se saprò reggere l’impatto di un salto così grande, ma sono molto determinato e questo è già molto.

    La città e le strade

    L’impatto con l’aeroporto è come me lo aspettavo, anche perché ho visto quello di Caracas, sembra di vedere un film, invece è tutto vero. Non c’è neppure confronto con quello di Parigi, tutto lindo, tutto soft, tutto perfetto e ordinato. Qui è già casino. Gente che viene e va disordinatamente, che spinge, che vocia. L’ometto del CIM¹ è efficiente e sbriga le lunghe formalità in pochi minuti. Fuori dall’aeroporto, che mi ricorda la stazione ferroviaria di Amsterdam, forse per i mattoni con cui è costruito, è già Bogota. Lavori in corso dappertutto e poi le macchine, il traffico, quanto traffico!

    Le auto sono incredibili: mi pare di avere fatto un salto indietro di almeno trent’anni. Tranne qualche Renault 4 tutte le altre sono quelle americane tipo Buick o Dodge o Vauxall altissime, grandissime, degli autentici carrettoni. Uno si aspetta da un momento all’altro di veder scendere da una di queste Humphrey Bogart con l’impermeabile bianco e il bavero rialzato che apre la portiera a Laureen Bacall. E invece no. Dentro ci sono i bogotani. L’aria che si respira in queste arterie risente moltissimo dei gas di scarico. Mi ricorda molto Istambul degli anni passati, solo che a Istambul adesso di questi pezzi da museo non se ne vedono più da tempo, forse le hanno spedite tutte qui. Non so dove troveranno i ricambi, visto che sono fuori produzione da secoli.

    Man mano che la strada lascia l’aeroporto e raggiunge la città prendono forma i barrios² della periferia, case basse, massimo due piani, molte in costruzione per far fronte alla fortissima ondata di immigrazione da tutto il paese, tanta gente, tanta miseria che pare di tagliarla a fette, botteghe misere, alcune non si capisce cosa vendano, molti chioschetti malandati lungo le strade e un sacco di gente, ragazzini e non, che cerca di venderti un po’ di tutto. La somiglianza con la città turca e con le altre città arabe è sempre più marcata (ma anche a Roma ai semafori vendono di tutto, no?). Riesco a distinguere meglio la merce dei negozi e dei venditori ambulanti, per la maggior parte è frutta. Tanta frutta. Banane, ananas, arance, mandarini e tantissima altra che non ho mai visto. È stranissima. Dall’esterno pare brutta, un po’ acciaccata, con la buccia sciupata, ma dentro pare ottima. Uva, tantissima uva, grossa e bella. È uno spettacolo. La cosa mi rende allegro. I miei occhi non smettono un attimo di guardare, assetato come sono di immagini, di sensazioni. Mi sento come un bambino portato per la prima volta al Luna Park, che ammira a bocca aperta ogni cosa che vede con un’espressione stupefatta. Non so quale sia la mia, ma deve essere molto simile. Registro nella mia memoria ogni frammento, ogni particolare, ogni colore, ogni suono, ogni musica.

    Da lontano però colpisce lo skyline del centro cosiddetto internazionale, fatto di una selva di grattacieli veri, non come quelli bassi che abbiamo in Italia, qui siamo vicini al nord America e l’influsso si nota tutto. Grattacieli che mi dice l’autista sono la sede di banche, multinazionali, corporations, persone benestanti, amministrazione pubblica. Vederli da vicino è impressionante, anche se avevo già visto alcune foto. Ma come tutte le megalopoli del mondo le contraddizioni sono macroscopiche.

    C’è un sole non molto convinto, ma fa abbastanza caldo. Le strade sono molto squadrate e nei giorni seguenti, circolando per il centro con la carta stradale, questa impressione è confermata. La città è estesa, pare non ci sia un problema di spazio, salvo il fatto che la periferia si estende a macchia d’olio e per raggiungere il centro ci vuole davvero molto tempo, nonostante le strade principali siano molto ampie.

    Noto che i marciapiedi sono molto sconnessi, alcuni hanno perso la copertura e mostrano la terra cruda, come se in un anelito di libertà questa si fosse liberata dall’asfalto circostante e sovrastante che la soffocava scrollandoselo di sopra per riacquistare la propria libertà e rivedere il sole. Molti sono coperti di pozzanghere e di ogni sorta di rifiuti, però ho visto che esistono anche gli spazzini che puliscono. Magari non puliranno dappertutto.

    La città giace (è il termine esatto) ai piedi di una catena di monti e le strade che l’attraversano longitudinalmente (le calles) scendono direttamente dai monti. Quando piove, piove veramente e si trasformano in torrenti in piena che si portano via tutto, però puliscono. Per fortuna stiamo entrando nella stagione buona e in gennaio non piove mai. Non oso pensare che succederà a marzo, aprile! Qui il sole mi pare sempre malato, la mattina esce timido ma al pomeriggio soccombe sempre alle nuvole ben più prepotenti e decise. D’altra parte qui siamo piuttosto alti e c’è una consistente formazione di perturbazioni, come si dice in gergo specialistico.

    Gli autobus meritano un discorso a parte. Innanzitutto sono tantissimi e di tutte le dimensioni. Mi ricordo di alcune foto sulla rivista di Avventure nel mondo, relative ai pullman scassatissimi col muso lungo, tipo dopoguerra, che però chissà perché, pensavo che esistessero solo in Perù. Forse le foto e gli articoli si riferivano al Perù. Bene, sono anche qui eccome. In genere sono un ammasso di ferraglia cigolante che pare funzioni per scommessa, di color giallo e arancione a strisce. Viaggiano con la porta sempre aperta, forse per evitare la fatica di aprire e chiudere! Si sale davanti e si passa attraverso un tornello tipo metropolitana situato fra l’autista e la porta. Una volta saliti si paga direttamente all’autista, il quale mentre guida distrattamente, prende i soldi, cerca il resto nella cassetta di polistirolo degli spiccioli e te lo dà.

    Le fermate non esistono, uno si mette lungo il marciapiede aspettando il bus giusto, quando questo arriva gli si fa un cenno col braccio e se all’autista gli va, accosta e ferma. Ma mica sempre accosta, a volte rimane in mezzo di strada e allora è necessario fare un po’ di slalom fra le macchine in corsa per raggiungerlo. Lo stesso più o meno per scendere: si avverte a voce l’autista che ferma dove vuole lui, si scende, altro slalom fra le macchine e si raggiunge di slancio il marciapiede. È davvero uno spettacolo, ogni tanto si vedono grappoli di persone attaccate fuori dalla porta e a uno gli viene da chiedersi se non cade mai nessuno!

    Dentro sono strettissimi, di solito lerci, io con le gambe non c’entro mai e preferisco stare in piedi o tenerle nello stretto corridoio e tutti mi pestano i piedi. Il posto dell’autista invece è circondato da gualdrappe, ninnoli, amuleti, portafortuna, qualcuno ha addirittura pensato di crearsi un salottino con tanto di vetrinette e bottiglie mignon di liquori.

    Le strade in questa città immensa di sette milioni di abitanti (più del doppio di Roma) regolarmente censiti sono un capitolo a sé stante e meritano una riflessione speciale. Innanzitutto la Avenida Caracas. Ha alcune peculiarità proprie, insieme ad altre caratteristiche comuni alle altre strade del centro. Parte da molto lontano e taglia la città in due, per lungo, e quanto è lunga! Avrà almeno quattro o cinque corsie per ogni senso di marcia e un largo spartitraffico piantumato a verde. Però credo che assuma la sua fisionomia verso il centro, quando comincia a configurarsi come strada di lavoro, non solo perché ci sono i negozi, ma per tutto quello che c’è sui marciapiedi, il groviglio di piccole attività quotidiane che danno da mangiare (ma sarà poi così vero?) a non so quante persone, dalle baracchette che vendono i fiori ai micro chioschi che vendono impasti di dolciumi stagionati chissà da quanto ed esposti all’ondata venefica dei gas di scarico dei mezzi, pubblici e non, che a migliaia vomitano anidride carbonica sopra tutto e tutti. Può darsi che questo sia un buon metodo di essiccamento e conservazione della merce, chissà!

    I micro chioschi sono una cosa incredibile: le dimensioni sono di un metro di larghezza per un metro di profondità e due di altezza, fatti di lamiera, hanno una finestrella sul davanti che poi diventa anche la porta d’ingresso del venditore, che si siede all’interno su uno strapuntino e se ne sta lì tutto il giorno aspettando gli avventori. Espongono la misera merce sulla mensola (qualche pacchetto di sigarette, che si vendono anche sfuse, qualche pacchettino di caramelle e di

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