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L’avventura delle domande: L'inizio
L’avventura delle domande: L'inizio
L’avventura delle domande: L'inizio
E-book259 pagine3 ore

L’avventura delle domande: L'inizio

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Info su questo ebook

Le domande sono il vero motore dell'esistenza. Ce lo insegnano i

bambini, gli scienziati, gli artisti. Anche gli animali con la loro

curiosità in cerca di vita. Le domande sono il motorino di avviamento

dell'auto della nostra persona: ce le troviamo dentro per natura. Come

il cuore che pulsa da solo, come la necessità di bere e mangiare, come

la necessità di voler essere "uno" con il mondo, con gli altri esseri

viventi, con tutto ciò che ci ha preceduto e ci seguirà. Come la

necessità di respirare, di respirare davvero. Aprirsi alle domande, a

tutte, anche a quelle più impensabili è la chiave per la grande

avventura della vita. Una vita imprevedibile, drammatica e splendida

come è stata, finora, la mia. Questa è la Prima Parte della mia

avventurosa autobiografia: un testo per gente giovane (anagraficamente o

mentalmente).
LinguaItaliano
Data di uscita20 mag 2021
ISBN9791220338714
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    Anteprima del libro

    L’avventura delle domande - Raffaello Benetti

    2020)

    Nove personaggi sono l’Autore

    Lo sportivo

    Il capitano della nave aveva attraccato nell’ampio fiordo Maddalena a quasi 80° nord. Temperatura esterna 3°C. Il gruppo di visitatori di questa remota area delle isole Svalbard, a poca distanza dal Polo Nord, scese ordinato e si avventurò lungo una linea di sabbia che correva ai piedi di un ghiacciaio alto come un grattacielo. In un silenzio irreale facemmo il giro previsto ammirando quell’incontaminato spettacolo della natura. Ci venne detto come difenderci da un eventuale attacco degli uccelli (che in quell’area hanno i nidi disseminati sul terreno): non bisogna raggomitolarsi, come verrebbe istintivo, ma occorre innalzare sopra la propria testa qualcosa come un braccio o, meglio ancora, un oggetto allungato. Perché pare che gli uccelli attacchino il punto più alto del loro avversario. Camminando verso le lance stazionate sulla riva in attesa di riportarci sulla nave, il gruppo passava a lato di alcuni sacchi di asciugamani che erano stati depositati lungo il percorso. Non capendone lo scopo chiesi a uno dei nostri accompagnatori in giacca a vento, passamontagna e carabina anti-orso che senso avessero. Rimasi colpito dalla naturalezza della risposta: Se qualcuno di voi avesse voglia di fare il bagno potrà asciugarsi.

    Certo c’era il sole, ma il fatto che il nostro fiato condensasse parlando e che il passamontagna coprisse a tutti le orecchie non mi sembrava rendere realistica la scena di un tuffo in acqua, finché non vidi una ragazza svizzera mezzo spogliata e già in costume! Stetti a vedere se davvero si fosse azzardata e, con mia sorpresa, questa si infilò brevemente in acqua fino alla vita, si chinò e scappò fuori.

    Mi sentii punto sul vivo da quella apparente sfida: io che mi sono sempre considerato un esploratore indomito, pronto a ogni esperienza che si renda necessaria per imparare cose nuove, o anche solo per scoprire semplicemente ciò che sta più in là, oltre il dosso, oltre quella cengia, oltre quell’ultimo scoglio….

    A passo di battaglia mi buttai in acqua e nuotai fino al primo iceberg nelle vicinanze. Era piccolino ma sufficiente per la foto di rito che avevo raccomandato di farmi e che, casualmente, mi scattò anche un giornalista presente nel gruppo, rimasto abbastanza sorpreso dalla mia iniziativa arrembante.

    Asciugandomi e rientrando in nave venni raggiunto dai complimenti e dagli aneddoti dei marinai che garantivano sul fatto che un cinese, qualche anno prima, fosse rimasto in acqua per un’ora e non appena per la manciata di secondi, o minuti, del visitatore medio. Rimasi col dubbio.

    Mi è piaciuto raccontare questa storia semplicemente perché, all’epoca, avevo 50 anni. E la cosa mi inorgoglì perché mi fece sentire giovane. Non tanto anagraficamente giovane (cosa di cui non mi è mai interessato assolutamente nulla: uno è ciò che è, a ogni età) ma neuronalmente giovane!

    Ho sempre vissuto con timore il fatto che, col tempo, uno inizi a ridurre il proprio campo d’azione e di aspettative. Credo che rinunciando a desiderare e a sognare si inizi pian-piano a morire. Qualche gesto inconsueto, magari propiziato da circostanze impreviste, può diventare invece una sfida interessante ed avvincente per chiunque a qualsiasi età. Proprio per verificare se, ancora, dentro di noi, qualcosa di giovane sopravvive.

    Chiaro che serve un poco di avvedutezza. Devo ammettere che senza un minimo di fisico certe sfide è meglio evitarle, o comunque occorre selezionarle con attenzione. Fisico che ritengo sia un insieme di caratteristiche fisiche e psichiche dove le seconde, nella mia esperienza, valgono forse più delle prime. Ma andiamo con ordine.

    Nato di 4,5 kg, con grande pena per mia madre che ci mise 3 giorni a partorirmi, sono cresciuto in fretta in altezza e sono sempre stato più alto di una spanna dei miei coetanei. Essendo nato di febbraio ero spesso anche anagraficamente il più vecchio. In poche parole non ho mai avuto il problema di fare a botte con nessuno. C’è anche da dire che sono sempre stato un tipo tranquillo.

    La prima evoluzione nel mio fisico (due belle gambe robuste) fu causata da una moda. Negli anni ’70 imperversò quella delle cosiddette biciclette da cross. Un modello di bicicletta pesantissima, con ruote piccole, gomme grosse e uno pseudo cambio-marcia che in realtà rendeva ancor più difficile pedalare. Come tutti i bambini eravamo affascinati da queste biciclette che assomigliavano alle motociclette dei grandi con le quali, i più spericolati, praticavano appunto il moto-cross. Io e i due fratelli riuscimmo nello scopo di farcele comprare dai genitori in modo che potemmo sbizzarrirci, tra i 7 e i 12 anni, a esplorare tutte le colline bolognesi dove d’estate villeggiavamo con la famiglia per circa tre mesi. Insieme al gusto del camminare e della montagna, che emerse dopo i 16 anni, le mie gambe iniziarono allora, e continuarono poi, a rafforzarsi. In parrocchia, dove noi ragazzini ci ritrovavamo nel pomeriggio finiti i compiti di scuola per chiacchierare e fare sport, avevo preso l’abitudine di sfidare i compagni al sollevamento: mettevo la testa tra le gambe della persona da sollevare e via: lo tiravo su. Ho sollevato chiunque; non ricordo di aver fallito un tentativo. Questo per dire come mai, quando mi trovai a frequentare le palestre nella mia bella Milano da bere dopo i 40 anni, avevo le braccia che maneggiavano con fatica ripetizioni con 70 kg, mentre con lo squat non avevo grossi problemi con 200 kg.

    Alle scuole medie (1972-1974) ero in una sezione maschile. Sport e mania del calcio imperversavano. Avevamo in classe dei bravi giocatori tanto che la nostra classe (la famosa Sezione F) era fortissima. Volmer G, attaccante creativo. Francesco C, libero. Io non ero un granché ma, grazie alla struttura rocciosa e all’omonimia con un grande del calcio di quell’epoca (Romeo Benetti, famoso per il suo ruolo di difensore implacabile e killer delle gambe avversarie) venni piazzato in difesa. Vincevamo quasi sempre ed eravamo così inorgogliti della nostra squadra che arrivammo a confezionarci una bella maglietta ad hoc (amaranto con striscia diagonale blu) per farci riconoscere nelle competizioni.

    Possiamo dire fossi un buon difensore ma, con quella mia struttura più grande degli altri, risultavo un gigante contro veloci ragazzini attaccanti, spesso di età inferiore alla mia, che guizzavano rapidi nella mia area. Alcune volte il fallo era l’unica soluzione. Nacquero allora per me i primi problemi esistenziali calcistici: grande e grosso, come posso atterrare il povero bimbo di prima o seconda media e proseguire?! E in base a questa riflessione decisi di smettere. Anche perché non mi sono mai considerato un agonista. Alla fine della partita andavo a rincuorare i perdenti, solidarizzavo con gli avversari, facevo battute in corso di gioco. Pessimo atteggiamento per uno sportivo che dovrebbe sempre stare bello teso e focalizzato.

    Ebbi anche la fortuna di giocare, con modesti risultati, in una squadra giovanile di pallacanestro per un paio d’anni. Racconto solo dell’apprensione e dell’orgoglio che vissi quando giocammo nel Palazzetto dello Sport di Bologna contro la blasonata Fortitudo. Naturalmente perdemmo, ma ricordo ancora la suggestione profonda degli scricchiolii delle scarpe sportive e il suono del rimbalzo della palla di gomma sul parquet nel silenzio di un Palazzetto vuoto (a queste partite eravamo poche decine di giocatori e i nostri accompagnatori): era una liturgia che si stava svolgendo, non solo una gara. È un vero mistero questo della gara sportiva. I giocatori in campo sembrano spesso sacerdoti intenti a una liturgia, più che attori in scena a teatro. Ed è un vero ed appassionante mistero il legame che si crea tra giocatori e pubblico e tra il pubblico di per sé: gente così diversa ma affascinata e unita da quell’unico rito.

    La modestia di risultati nel basket e le crisi esistenziali nel calcio mi orientarono agli sport individuali. Un po’ di tennis nel club vip di Rastignano con le lezioni del maestro svizzero e un po’ di invidia per quanto era bravo il suo assistente (e anche un po’ di insofferenza per le performance di Volmer che era sempre davanti a tutti in qualsiasi sport si proponesse!).

    Tra i compagni di classe, fin dalle elementari, c’era anche il mio caro amico Giovanni B. Un tipo timidissimo, introverso, che diventava rosso fuoco in volto ogni volta che sentiva chiamare il suo nome. Non giocava a calcio con il resto dei compagni ed era anche un po’ goffo nei movimenti. Magrolino, faccia sana e simpatica. Presi l’abitudine di andarlo a trovare a casa sua a lato della ferrovia, dove suo padre lavorava come sorvegliante dei materiali. In quelle giornate estive, tra una visita lungo il fiume a caccia di pesci, il ripasso dei compiti di scuola e la merenda preparata da sua mamma, mi confessò che il suo passatempo preferito era fare ginnastica. Era un ragazzo ruspante, niente di più lontano dai ragazzetti che andavano in palestra e seguivano le mode di allenamento sbandierate dalle riviste. Lui faceva solo piegamenti sulle braccia (o flessioni, come chiamavamo all’epoca il push-up) e, a completamento, un po’ di esercizi per le braccia sollevando dei tranci di binario che trovava lungo la ferrovia e che usava come pesi. I piegamenti non li contava ma andava a minuti (2-2,5-3) a seconda di come si sentiva; e i pezzi di binario che maneggiava intorno ai 12 anni andavano dai 10 kg in su. Me ne regalò uno da circa 9 kg che non era facile usare per più di 3 o 4 ripetizioni. Fu simpatica quella volta, ed eravamo già al liceo, che Giovanni decise di frequentare anche lui la mitica palestra Efeso in via Toscana. Ricordo ancora come si aggirasse insoddisfatto tra le macchine da body building senza trovarne una sufficientemente impegnativa per i suoi esercizi. Allora accatastava pesi e bilancieri sulle macchine a filo e si metteva a tirare disperato. Fu anche simpatico vedere come il curato e tonificato trainer della palestra, una volta uscito Giovanni, volle andare a provare a spostare lo stesso carico: ci provò senza successo e, con discrezione, iniziò a riporre i vari attrezzi.

    Ho sempre cercato di fare un po’ di sport nella mia vita, ma sono sempre stato oberato da necessità e doveri che non mi hanno mai permesso di prenderlo sul serio. Credo che sarei stato un buon giocatore di football americano. Erano gli anni ’80 di Guido Bagatta, telecronista delle partite della NFL per la neonata TV Canale 5. Andavo a vedere gli allenamenti del mio amico di università Francesco G con gli Stiassi Doves e sognavo. Ma facevo ingegneria (oltre a mille altre cose) e non c’era oggettivamente tempo. Qualche anno prima, agli inizi del liceo, eravamo rimasti così impressionati dal film Rollerball che, su mia proposta, con gli amici iniziammo a giocare in parrocchia al rollerbasket. Era una normale partita a basket nella quale però potevi fermare l’avversario come ti pareva: calci, pugni, sgambetti e via dicendo. Con qualche occhio nero e dito insaccato ci divertivamo moltissimo.

    Fu al tempo dell’università che saltarono fuori a sorpresa le due esperienze sportive e naturalistiche che credo abbiano arricchito di più la mia vita. Lorenzo P, mio compagno di ingegneria, mi informò che si era iscritto quell’estate (1986) a un corso di kayak di una settimana sui torrenti alpini e, per non andare da solo, aveva iscritto anche me! Tra campeggio con gli amici, un colpo di remo sul sopracciglio - che mi lascerà una cicatrice per il futuro - ed i bagni, non voluti, nell’acqua gelida dei laghi alpini, feci l’esperienza di discesa dei fiumi. Ricordo in particolare la prima discesa: lungo il Noce, a monte della malfamata segheria che, come una minaccia misteriosa, aspettava a valle - con le sue grate e le sue lame - chi non avesse imparato a gestirsi con quel piccolo fuscello di plastica al quale affidavamo la nostra vita. Punta a monte, colpo di pagaia e via in corrente!. La sensazione fu incredibile: era come se la mano di un gigante mi avesse afferrato e lanciato a velocità incontrollata nelle acque tumultuose del fiume alpino. Non sono mai stato un grande sciatore, ma nel caso di una discesa molto ripida o arrischiata, ci si può consolare pensando di fermarsi, al limite buttarsi a terra e proseguire a piedi. In una discesa di fiume no: è il fiume che conduce il gioco e non ci sono i freni. Si va veloci e, anzi, bisogna stare in corrente perché ogni altra azione diversiva può solo crearti delle difficoltà e capovolgerti. E così la mano del gigante ti afferra facendoti passare per muri d’acqua più alti di te e che ti chiudono la vista sul prossimo tratto (e sul prossimo rischio) finché, dopo un bel po’ di adrenalina, riesci ad approdare in morta, all’ansa del fiume che ti dà tregua e un po’ di ristoro per recuperare lucidità. Tra il 1986 e il 1990 (con il mitico Canoa Club Progetto Delta di Guido Malossi) ho fatto un certo numero di discese, alcune paesisticamente molto belle, come la classica Ardèche, l’Isonzo, il Tagliamento. Ma era anche un periodo di irrequietezza: non capivo cosa ci stessi a fare al mondo. Certo facevo cose e vedevo gente, come si suol dire, e me la cavavo anche bene. Ma il senso? Perché dedicarmi a questo e non a quello? E lo sport? Possibile che servisse così tanto tempo per allenarsi? Ma allora, per migliorare, dovevo mettermi a fare solo sport rinunciando a tutto il resto? In base a quale criterio? Semplicemente perché mi sembrava più simpatico di altre cose? E fino a quando sarebbe rimasto il più simpatico?

    Per farla breve iniziò il periodo degli sport e delle esperienze estreme, o quanto meno un po’ spericolate. Con la canoa mi rimase impresso il passaggio nel buio della galleria lungo il Trebbia. A un certo punto, prima di un salto artificiale, il fiume vira bruscamente a sinistra e, con un’altra curva a destra si infila per un centinaio di metri in una galleria scavata in parallelo al salto. L’esperienza di essere portato lungo un torrente tumultuoso e, a un certo punto, finire completamente al buio mentre continui a scendere tra salti e spruzzi d’acqua in faccia, fu abbastanza adrenalinico anche se non certo molto rischioso.

    L’altra esperienza sportivo-naturalistica importante è stata quando con il mio caro amico e compagno di avventure Filippo R ci siamo iscritti al corso di roccia del CAI. Anche qui l’input venne da Filippo ma poi abbiamo proceduto insieme per parecchi anni incoraggiandoci e consigliandoci l’un l’altro. Lui aveva inoltre studiato da preparatore atletico all’ISEF. Anche nel caso di questo corso sono andato dietro per il gusto dell’avventura, soppesando poco il fatto che da sempre soffro di vertigini. Che forse avessi fatto il passo più lungo della gamba emerse alla seconda giornata di esperienza pratica del corso di roccia. Ci portarono alla palestra di Badolo, poco fuori Bologna, e ci condussero in cima a un salto di circa 15 metri a picco. L’esercizio quel pomeriggio era la discesa in corda doppia (alla vecchia: senza discensore e con passaggio di corda tra le gambe e dietro la spalla). Ero agghiacciato dal comando dato: Sedevi nel vuoto, poi camminate lungo la parete verticale come fosse orizzontale e controllatevi con la sola mano destra (quella che tiene la corda dietro la schiena) mentre la sinistra - posta sulla corda davanti - non serve a niente se non come equilibrio! Insomma, credo di averci messo 15-20 minuti a scendere. E per tutto il tempo ho tenuto il peso del corpo con la mano sinistra fingendo di dirigere con la destra. Arrivato a terra, tra le risa di Filippo, credo di aver impiegato una buona mezzora per riattivare la funzionalità del braccio sinistro.

    È fantastico apprendere le tecniche di scalata: si inizia a percepire le salite (siano esse di roccia o d’altro) in modo psicologicamente diverso da prima. Si inizia a cercare gli appigli, a misurare al volo le distanze tra gli uni e gli altri, si valuta se il piede potrà appoggiarsi davvero o se la mano potrà incastrarsi in una certa fessura. I primi mesi dopo il corso di roccia era sempre un chiedersi davanti a ogni parete: Dici che si riesce ad andare su?. La mania era tale che - non con Filippo, ma con l’amico Sandro C - nel 1989 salimmo anche la piramide di Micerino durante il nostro giro autogestito in Egitto e Giordania. Con Filippo ne abbiamo fatte molte, spronandoci e sfidandoci l’un altro a chi nuotasse più lontano, a chi si tuffasse da più in alto, a chi riuscisse a salire la pendenza maggiore. Lui era oggettivamente più bravo, ma io stavo dietro. E abbiamo fatto anche diverse cazzate insieme: cercare di salire una montagna senza usare il sentiero prescritto e perdersi, o percorrere una via ferrata senza legarsi e assicurarsi (con caduta dal precipizio inclusa, come racconterò oltre). Non c’è niente da fare: da ragazzi occorre sbattere la faccia almeno una volta. Come mio fratello Gabriele che, da ragazzino, sbatté letteralmente la faccia contro un sasso, distruggendosi il naso, tuffandosi in un torrentello di collina.

    Nonostante fosse passato poco più di un anno dalla caduta in montagna sopra menzionata, l’esuberanza di quegli anni era tale che nel 1990 iniziai a raccontare in giro che stavo seguendo un corso d’inglese serale. In realtà mi ero iscritto a un corso di paracadutismo a controllo militare presso l’Aeronautica di Bologna. Fu una gran bella esperienza (e molto formativo lo studio dei malfunzionamenti delle attrezzature che ti costringe a prevederete il da farsi nel caso appunto il paracadute non si apra!). Ricordo che prima dei lanci veri, facemmo una giornata di allenamento presso la Scuola Aeronautica di Pisa nella quale potemmo fare l’esperienza di un bungee-jumping ante-litteram: la cosiddetta falsa-carlinga. Questa è la ricostruzione di una carlinga di aereo, posta su un traliccio alto una ventina di metri all’interno del cortile della Scuola, utile per simulare con gli allievi la situazione del lancio che poi avverrà dall’aereo. Meno scenografico di un ponte su un fiume, ma abbastanza stimolante pensando al fatto che occorre lanciarsi fuori dalla carlinga con sotto un cortile d’asfalto.

    Dopo il paracadutismo provai il parapendio con un corso un po’ rapido alla scuola in Alta Val Badia del mitico Helmut Stricker. Bello, ma per me che non ho avuto il tempo per provare i vuoti d’aria e

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