Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Insegnaci ad essere felici
Insegnaci ad essere felici
Insegnaci ad essere felici
E-book402 pagine5 ore

Insegnaci ad essere felici

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Questo libro vi spiegherà come raggiungere il benessere interiore, essere felici, ed avere successo nella vita
LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2019
ISBN9788831614085
Insegnaci ad essere felici

Correlato a Insegnaci ad essere felici

Ebook correlati

Crescita personale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Insegnaci ad essere felici

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Insegnaci ad essere felici - Franco Caminiti

    Indice

    Cap. 1 Perdersi

    Cap. 2 Ritrovarsi

    Cap. 3 Essere il coach di noi stessi

    Cap. 4 I ‘lacci’ nella nostra mente

    Cap. 5 Certezze: le nostre prigioni ‘necessarie’

    Cap. 6 L’appartenenza (comunque sia)

    Cap. 7 Adattamento e omologazione

    Cap. 8 La scuola che spegne i talenti

    Cap. 9 Sentirsi colpevoli

    Cap. 10 La ‘paura’ ingiustificata che ci impedisce d’essere felici

    Cap. 11 Accettiamo le nostre contraddizioni

    Cap. 12 Perdonare

    Cap. 13 Farsi perdonare

    Cap. 14 L’invidia nemica della felicità

    Cap. 15 La gelosia ci avvelena la vita.

    Cap. 16 Dal nervosismo, alla rabbia, alla collera

    Cap. 17 Evadere dalla prigione dell’incomprensione

    Cap. 18 Se il ‘posto fisso’ diventa una prigione

    Cap. 19 La sofferenza straziante del rimorso

    Cap. 20 La malinconia amara del rimpianto

    Cap. 21 Superstizione non fa rima con religione

    Cap. 22 Dalla maldicenza alla calunnia

    Cap. 23 La paura: un muro da abbattere

    Cap. 24 Il pessimismo: una corazza contro il benessere

    Cap. 25 Il pregiudizio è sempre un giudizio sbagliato

    Cap. 26 Quando aspettiamo che gli altri ci rendano felici

    Cap. 27 L’erba del vicino

    Cap. 28 Lo stress di cui non sappiamo fare a meno

    Cap. 29 Le nostre piccole manìe

    Cap. 30 Non possiamo avere sempre ragione

    Cap. 31 Se gli altri non riconoscono i nostri meriti

    Cap. 32 Non pretendiamo dagli altri ciò che non siamo pronti a dare

    Cap. 33 Quando un pezzo di noi se ne va

    Cap. 34 I soldi che danno la felicità

    Cap. 35 Dimenticare i torti subìti

    Cap. 36 Cerchiamo di non essere ingrati

    Cap. 37 Vivere nel passato o nel futuro

    Cap. 38 State lontani dalle droghe

    Cap. 39 L’importanza di un sano ‘défoulement’

    Cap. 40 Essere in buona forma fisica ...aiuta

    Cap. 41 L’importanza delle relazioni

    Cap. 42 L’influenza dei media

    Cap. 43 La vita non è mai inutile

    Cap. 44 Il coraggio di essere noi stessi

    Cap. 45 Una guerra fra diverse ‘volontà’

    Cap. 46 Il pensiero positivo di cui tutti parlano

    Cap. 47 Quando mancare l’obiettivo è un diploma

    Cap. 48 La PNL (Programmazione Neuro Linguistica)

    Cap. 49 L’importanza della motivazione

    Cap. 50 Trovare un equilibrio

    Cap. 51 Un buon leader ha una buona squadra

    Cap. 52 Costruire la stima di se stessi

    Cap. 53 Un buon rapporto con la famiglia

    Cap. 54 Il ruolo dell’ambiente

    Cap. 55 Non restare mai senza obbiettivi

    Cap. 56 Conoscenza e coscienza

    Cap. 57 Le frasi da dimenticare

    Cap. 58 Noi siamo ciò in cui crediamo

    Cap. 59 Liberarsi dalla trappola dell’indecisione

    Cap. 60 Allontanarsi dalle persone negative

    Cap. 61 Comunicare senza timidezza

    Cap. 62 Trasformare i soldi in esperienze

    Cap. 63 Non trovare giustificazioni alla infelicità

    Cap. 64 Dare importanza alle cose ‘importanti’

    Cap. 65 Un lavoro da fare con passione

    Cap. 66 Vivere in positivo l’età

    Cap. 67 La nostra capacità di autoguarigione

    Cap. 68 Fare la stessa cosa non darà risultati diversi

    Cap. 69 Fare qualcosa per gli altri

    Cap. 70 L’amore, la gratitudine, e la fede

    Cap. 71 La comunicazione non verbale

    Cap. 72 Abituarsi a parlare in pubblico

    Cap. 73 Imparare la tenacia dai vincenti

    Cap. 74 L’importanza dell’autodisciplina

    ©

    Franco Caminiti

    Edizioni Youcanprint 2019

    ISBN | 9788831614085

    Prima edizione digitale: 2019

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti  dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    FRANCO CAMINITI

    Inségnaci

    ad essere

    Felici

    Viaggio alla ricerca del benessere interiore

    Come stai?

    Ogni giorno pronunciamo e sentiamo questa frase e la risposta è, quasi sempre, facile e scontata: Bene, grazie!

    Ma quanto spesso ci capita che qualcuno ci chieda: Sei felice?

    A questa domanda pochi risponderebbero con assoluta convinzione; i più resterebbero muti, titubanti, quasi a disagio, nell’incapacità di replicare.

    Pòniti questa domanda adesso. Ebbene: la tua risposta è positiva o negativa? Se è negativa, sapresti dire perché?

    Raggiungere la felicità sarebbe da considerare la priorità di vita per ogni essere umano.

    Se hai deciso che essere felice sia la tua priorità, ma non sai da dove cominciare per raggiungerla, questo libro potrebbe essere un valido aiuto.

    L’autore ti prenderà per mano e ti accompagnerà alla scoperta del paesaggio del tuo io interiore, con le sue bellezze e le sue asperità; e senza formule magiche o astrusa filosofia, ti mostrerà come trasformarlo in un magnifico Eden.

    Sofia Caminiti

    Dedico

    questo mio libro alla mia famiglia che,

    con cuore fermo e fronte alta,

    affronta al mio fianco la vita.

    Un ricordo riconoscente

    va a tutte le persone che,

    per una ragione o per un’altra,

    mi hanno visto intento a scriverlo.

    Un grazie a tutti coloro che

    con esempi di vita e con gesti di generosità

    mi hanno insegnato quanto ho raccontato

    in queste pagine.

    Premessa

    Un giorno, una persona che mi segue su Facebook, commentando un mio post, mi ha scritto una semplice frase: Insegnaci ad essere Felici.

    La cosa mi ha colpito perché non era in argomento col mio scritto.

    Perché quella richiesta? Perché proprio a me, che non ho mai dato l’impressione di essere un ‘felice’?

    Ci ho riflettuto parecchio, ed allora mi sono detto: ‘E se fosse un messaggio? Perché non rispondere?’

    Così ho cominciato a scrivere questo libro, senza una scaletta, sviluppando gli argomenti come mi venivano a mente, partendo da esperienze personali, pagine della mia vita, ricordi, citazioni. Cose semplici.

    Ecco: il libro è qua, non so se vi insegnerà ad essere felici, di certo ha insegnato tante cose a me, mentre lo scrivevo. Mi ha portato a riflettere su quegli aspetti della vita a cui non pensiamo mai, ai veri valori, all’importanza di avere consapevolezza di noi stessi, di come si possa essere contenti anche stando da soli e a quanto sia ancor meglio esserlo stando con gli altri. Mi ha portato a guardarmi dentro, ed ho scoperto che sì, è vero: ho tante buone ragioni per essere felice!

    Spero che questo libro aiuti anche voi a guardarvi dentro, prendere maggiore coscienza del vostro valore, e di tutte le cose meravigliose che la vita vi ha donato.

    In questo mio scritto non troverete l’arroganza di un ‘vincente’, perché nessuno lo è davvero, ma l’umiltà di un uomo e di un poeta, che ha affrontato la vita con amore, cadendo e rialzandosi con tenacia, senza mai arrendersi, che ha gioìto ed ha pianto, senza mai cedere all’orgoglio né allo sconforto, battuto tante e tante volte, eppure mai sconfitto!

    Ecco, è proprio questo il concetto che vorrei trasmettere parlando di felicità: la vita è costituita da tante battaglie, alcune si perdono altre si vincono, ma ciò che conta è vivere, sino in fondo, perché il più bel dono che possiamo avere dalla vita è...la vita!

    Parte prima

    Gli ostacoli

    al nostro successo

    Cap. 1

    Perdersi

    Pochi giorni fa ho incontrato a Marrakech una coppia di italiani in vacanza. Avete visitato la vecchia medina? ho domandato. Solo un poco, mi han risposto, abbiamo paura di perderci! Ma perdetevi! gli ho detto, perdetevi!.

    Parto da questo concetto per avviare il percorso di conoscenza che faremo insieme. La paura di perdersi. Il timore dell’ignoto, di ciò che ci può sorprendere dietro l’angolo, del diverso, dell’inatteso, di qualcosa che non sapremmo affrontare, o che ‘crediamo’ di non saper affrontare, semplicemente perché non abbiamo mai avuto il coraggio di rischiare, mettendoci alla prova.

    Questo problema lo abbiamo sempre visto dal punto di vista psicologico e caratteriale, eppure dietro il nostro atteggiamento c’è una spiegazione fisiologica. Come ben sanno i medici, tutto parte da quella parte di cervello che è chiamata ‘corteccia prefrontale’, o PFC (Prefrontal cortex). È in questa zona del cervello che si prendono le decisioni, qui si elaborano valutazioni su ciò che è bene o male, opportuno, morale o immorale; quindi tutto ciò che determina il nostro comportamento ‘sociale’. Pertanto ogni nostro stimolo, a livello psicologico, viene, in qualche misura, inibito dalla corteccia prefrontale.

    Il timore è un fatto positivo, uno stato di autodifesa indispensabile alla sopravvivenza e comune a tutti gli animali, tuttavia quando la paura diventa patologica, compromette ogni nostra azione libera, causandoci una grave limitazione dei nostri comportamenti.

    In qualche misura l’alcool inibisce la corteccia prefrontale disinibendoci nei comportamenti. Notiamo, infatti, che dopo qualche bicchiere di buon vino, siamo più propensi a ridere, vediamo le situazioni con meno drammaticità, ci sentiamo sollevati da responsabilità contingenti, siamo anche più creativi, più propensi al contatto con gli altri, insomma ‘più felici’.

    Ma il titolo di questo percorso è ‘Insègnaci ad essere Felici’, non ‘insègnaci ad ubriacarci’, ché fin là ci arrivate da soli. Ebbene, con una forte dose di volontà e di esercizio, c’è il modo di agire sulla corteccia prefrontale e indurre nel nostro cervello uno stato di semi-ubriachezza, senza peraltro aver bevuto alcool, e quindi senza gli effetti negativi ad esso legati. È, in qualche modo, quello che gli psicologi chiamano ‘training autogeno’ (pratica sviluppata circa un secolo fa dallo psichiatra tedesco J H Schultz). Ma se andate a studiarvi questa roba, e cercate di seguire le istruzioni, dopo un po’ sarete più nervosi di prima.

    Invece è molto più semplice di quanto si pensi: cominciate col dire che ‘di quella roba lì’, almeno per ’stasera, non ve ne importa nulla, ché tanto non è questione di vita o di morte, che la vostra salute e la vostra serenità sono molto più importanti del problema, che una soluzione ci sarà, ecc’. Staccatevi da quel ‘voi stessi’ razionale che vi tiene ancorati al problema, createvi una specie di angolo tutto per voi in cui rifugiarvi, e nel vostro intimo mandate al diavolo coloro che sono la causa del vostro malessere, non provate odio verso di loro, cercate di provare disinteresse, o meglio di dimenticarvene.

    È il primo passo verso una maggiore conoscenza delle vostre capacità di reagire in modo diverso e positivo alle situazioni di stress.

    E lo stress, si sa, è alla base di ogni infelicità, a parte le sue ripercussioni a livello fisico. Provate ’stasera, a vedere da un’altra angolazione i problemi, solo per poco, solo per una sera. Sarà come spegnere il motore della macchina quando l’acqua comincia a scaldare e si rischia di bruciare la guarnizione della testa.

    Appunto: della testa.

    Cap. 2

    Ritrovarsi

    I turisti italiani di certo non si saranno addentrati nelle stradine della vecchia Marrakech. Non l’avranno fatto per alcune ovvie ragioni: temevano di perdersi, io non avrei potuto accompagnarli e, se anche avessi potuto, avrebbero diffidato di me. Ed è normale: anche io facevo parte delle cose che esulavano dal loro mondo quotidiano, ero uno sconosciuto in terra straniera, fra l’altro ammantata da tante storie raccontate da ‘viaggiatori sprovveduti’, o da gente che non ha mai viaggiato, nemmeno leggendo libri. ‘La medina, attenti! la kasba, rubano le donne bionde per portarle negli harem!’. Tutte leggende metropolitane che, però, fanno presa nel nostro cervello, e creano uno stato di ansia inconscia, di diffidenza, di paura.

    Allora restiamo ancorati a ciò che conosciamo, preferiamo gli spazi aperti, stringiamo, con entrambe le mani, la borsa con i nostri pochi averi, perché non sapremmo immaginarci senza di essi.

    Ora, chi ha perduto qualcosa di caro e poi l’ha ritrovato comprende bene quello che desidero far capire. I nostri vecchi erano soliti dire: ...un bene, se non si perde, non si apprezza! Vale per le cose, e vale, molto di più, per le persone. È raro, ma sarà successo a tanti, di non aver notizie per un po’ di qualche familiare, cercarlo disperatamente col cuore in gola, fra mille disperati cattivi pensieri, telefonando ad amici e parenti. Sarà successo l’estate a mare di perdere di vista il bambino e per interminabili, terribili, 5 minuti, temere che sia andato in acqua. ‘Oddio! Annegato!’ Poi eccolo lì, il piccolino sgambetta felice e ignaro, si era allontanato inseguendo il palloncino sulla spiaggia. L’abbiamo perso solo per 5 minuti, eppure lo abbracciamo, lo copriamo di baci, perché lo abbiamo perso e ritrovato. Anche il Vangelo parla di questo nella parabola del ‘figliuol prodigo’.

    Ecco, allora, perché vi invito a perdervi. Per avere la gioia di ritrovarvi!

    E, credetemi, è la stessa gioia del ritrovare il bambino sulla spiaggia, o il figlio che da 36 ore non dava notizie di sé, o il fidanzato che, dopo un litigio acceso, se ne era andato, ma poi è tornato.

    Perdersi, dunque, per ritrovarsi!

    Immaginate di perdere il portafogli, e poi qualcuno ve lo riporta. La prima cosa che fate è controllare che ci sia tutto. E, notate bene: non pensate ai soldi, no, quelli li avevate dati per persi. Cercate altre cose, effetti personali, ricordi che temevate aver perso per sempre.

    Poi, fra quelle cose a cui tenevate tanto, trovate altre cose che non pensavate nemmeno di custodire nel portafogli, e cominciate a dire: Ma questa ricevuta che la tengo a fare? E questa foto? Non mi interessa più... e via così, il vostro portafogli si ridurrà alla metà del suo spessore, e alla fine terrete solo le cose più importanti.

    Ed è in quel momento che farete una distinzione fra ciò che contava e ciò che non contava nulla. Vi renderete conto che mentre il portafogli, nel suo insieme, era per voi importantissimo, dentro custodivate cose che, senza pensarci tanto, avete gettato via.

    Ecco cosa intendo per ‘perdersi’: arrivare al punto di dire ‘basta’ a tutto, pronti a cancellare qualunque cosa nella vostra vita. Niente più vi interessa, tutto è niente. E poi ‘ritrovarsi’, facendo ordine nelle cose, tenere quelle importanti davvero e cancellare tutte le altre. Fare pulizia nella vita così come, di tanto in tanto, le buone massaie la fanno nei cassetti. ‘Questo non serve. Via!’

    A partire dalle cose e arrivando alle persone. Tenete le più care, le altre, quelle che non corrispondono il vostro affetto, lasciatele cadere dal vostro cuore. Non abbiate timore di disfarvene, esse sono zavorra

    nella vostra vita, peso che non vi dà nulla, concentrate la vostra attenzione su ciò che è davvero caro, vicino, indispensabile.

    E la cosa più indispensabile per voi, siete ‘voi stessi’!

    Cap. 3

    Essere il coach di noi stessi

    Se fate un giro in internet troverete tantissimi che vogliono aiutarvi: a ritrovare voi stessi, a individuare il vostro malessere, le vostre angosce, le vostre debolezze, i vostri timori, e voi navigate da una pagina all’altra, in un percorso che vi spiega cose sapute e risapute, testi frutto di un evidente copia-incolla quasi infantile.

    Poi, alla fine, vi invitano a partecipare a un convegno pagando qualche centinaio di euro, o vi convincono che riceverete gratis video e corsi, però è necessario lasciare il vostro nome, cognome, indirizzo, email, e magari il numero della vostra carta di credito, (che però ‘non sarà usata’, dicono. E, allora, se non la devi usare, perché me ne chiedi il numero?)

    Credetemi: non avete bisogno di coach, tanto meno vi servirà partecipare a convegni sulla felicità, nessuno potrà entrare nel vostro cervello nel giro di 2 ore, parlandovi nel salone di un lussuoso hotel, fra centinaia di altre persone.

    Lasciate perdere! tanto tornerete a casa soltanto affascinati dalla capacità dell’oratore, lui sì molto bravo. Lui sì, ha risolto i problemi della sua esistenza. Certo: convincendovi a partecipare al suo convegno, a pagamento! Non me ne vogliano gli psicologi imbonitori che, in fondo, a pagamento, vi spiegano cos’è l’acqua calda; o venditori di pentole che si sono inventati un nuovo prodotto da offrire a caro prezzo: ‘la ricetta del benessere e della felicità’.

    E non è di questo che stiamo parlando?, mi direte.

    Sì, ma io non vi parlo di ipnotismo, di sistema limbico, di metodi di analisi che hanno, necessariamente, bisogno di qualcuno che intervenga sulla vostra psiche...

    E, innanzitutto, io non vi chiedo soldi!

    Semplicemente perché io non vi sto dando nulla!

    Perché voi non avete bisogno di me. Non ‘dovete’ avere bisogno di me!

    Voi non avete bisogno di altri che intervengano nel vostro cervello. Non siete ‘malati’. Pertanto il vostro psicologo migliore siete voi stessi. La più efficace terapia per voi è dentro di voi.

    Io mi sforzerò di convincervi di questo. Tutto quello che vi serve per cambiare in meglio la vostra vita ce l’avete già. Lo so che è difficile tirarlo fuori. Lo so che non si sa da dove cominciare, che è faticoso, che comporta scelte difficili e, a volte, radicali: rinunce, stravolgimenti, comporta mettere in discussione abitudini, modificare convinzioni, dubitare di ‘certezze’ (ecco: le certezze!).

    Il primo passo, in ogni caso, è questo: la soluzione che cercate non è fuori di voi, ma siete ‘voi stessi’. Nemmeno la più fornita farmacia ha la medicina che vi serve, perché per ognuno di noi c’è una medicina diversa, perché ogni persona è diversa dall’altra, per mille e mille aspetti che, magari, sfuggono a prima vista.

    Possiamo essere ‘simili’ agli altri, ma assolutamente ‘non uguali’.

    E come può, quindi, una logica terapeutica in campo psicologico e comportamentale, proposta alla platea di un teatro, essere efficace per tutti?

    Ecco perché insisto col dire: "siate voi il coach di voi stessi", il vostro consigliere, perché siete l’unico consigliere che davvero vuole il vostro bene, che fa davvero i vostri interessi, e che è costantemente con voi. Perché è dentro di voi. Stiamo intraprendendo un viaggio, ebbene, voi siete la stazione di partenza, e voi sarete la stazione di arrivo! Siete saliti su questo treno stracarichi di valigie, ne scenderete con una piccola borsa, e forse, guardandovi allo specchio, farete un po’ fatica a riconoscervi. Ma vi sorprenderà il vostro nuovo sorriso, che illuminerà la vostra ‘nuova vita’.

    Cap. 4

    I ‘lacci’ nella nostra mente

    L’esempio che sto per farvi sicuramente l’avrete già letto da qualche parte, perché anch’io l’ho letto da qualche parte.

    In India, si sa, gli elefanti vengono usati per svariati lavori, per cui vanno, in qualche modo, ‘addomesticati’. Pare che sin dai primi mesi di vita vengano legati ad un paletto, con un semplice laccio, un legame che l’elefantino potrebbe facilmente spezzare ma, sentendosi legato, il povero cucciolo si adegua e non si sforza nemmeno di liberarsi.

    Si crea così, nel cervello dell’elefante, una sorta di sudditanza della quale non si libererà mai più nella vita. Anche da grande una semplice cordicella alla zampa sarà sufficiente ad impartirgli un ordine inconscio che lo farà sentire impotente davanti al legame.

    Non so se questa storia sia vera, ma come esempio funziona molto bene: l’elefante adulto ha una tale forza che potrebbe spezzare addirittura catene, eppure è così convinto di non farcela che non ci prova nemmeno.

    Così è per la nostra mente.

    Sin da bambini noi siamo indotti, meglio dire ‘obbligati’, a rispettare certe regole. Si tratta, più che altro di divieti, più che di regole spiegate con argomentazioni; del resto cosa un po’ difficile da fare con un bambino. Che non si debbano mettere le dita nella presa di corrente meglio imporlo con un ‘no!’ secco che cercare di spiegare le dinamiche della corrente alternata.

    È vero. Ma il concetto di divieto permane man mano che il bambino

    cresce. È tutta una serie di ‘questo non è buono’ ‘questo non va bene’ ‘questo non si fa’. E per quanto i divieti si riferiscano, più che altro, al rispetto di determinate regole morali e sociali, è anche vero che la mente dell’adolescente viene imbrigliata, spesso proprio ‘imprigionata’, in ‘gabbie mentali’ dalle quali difficilmente uscirà una volta adulto.

    È una sorta di patologia, questa, che gli psicologi definiscono ‘tunnel mentali’, e che hanno sviscerato in centinaia di autorevoli pubblicazioni; pertanto io nulla potrei aggiungere.

    Ma vale la pena di ricordare questo punto perché è fra gli argomenti più importanti del nostro percorso. I nostri tunnel mentali sono la prima causa di tanti nostri problemi.

    Noi ci portiamo dentro, inconsapevolmente, i ‘lacci’ con i quali qualcuno, nella nostra infanzia, ci ha legati impedendoci di muoverci psicologicamente: prendere coscienza di noi stessi, liberare la nostra fantasia, esprimere la nostra creatività, costruire e rendere forte il nostro carattere.

    Spesso i genitori, al bambino che ha fatto qualcosa che non va, dicono frasi tipo: ‘sei stupido’ ‘non capisci niente’, o gli lanciano terribili minacce: ‘ti prendo a schiaffi’ ‘ti porto nel bosco e ti lascio lì da solo’ ‘chiamo il lupo che viene e ti mangia’. Tutte frasi che non hanno nulla di serio nell’intenzione dei genitori ma che, nella mente del bambino, creano stati di ansia, e incutono paure di cui non si libererà mai più.

    Se il bambino che non riesce a fare i compiti si sente dire continuamente ‘sei scemo’, sarà sempre un perdente nella vita, non per la sua reale incapacità ma perché persevererà nella convinzione che ‘non’ può farcela.

    Se alla bambina un po’ cicciottella continuiamo a dire ‘sei grassa’, si abituerà a vedersi grassa e si riterrà per questo brutta, mentre la bellezza non si misura in chili ma è data da un insieme di caratteristiche che possiamo non trovare in una modella di 45 chili, e riscontrarle, invece, in una signora, diciamo, ‘in carne’.

    Ho fatto questo discorso per pregarvi di fare un esercizio: pensate alle vostre paure, alle vostre incertezze, alle vostre titubanze, al vostro senso di inadeguatezza, che a volte vi opprime, e cercate nella vostra infanzia situazioni che possono avervi creato questo stato d’animo. Individuatele passando al setaccio i primi anni della vostra vita, gli anni di scuola. Ad esempio, pensate alla ragazzina che vi ha detto ‘no’ ridendovi in faccia perché ha preferito il belloccio della classe.

    O allo stupido ragazzotto che vi ha preso in giro perché eravate un po’ grassa, o troppo magra, o avevate i brufoli e poi, poveretto, è rimasto zitello perché non ha trovato nessuna che volesse accettarlo come compagno di vita.

    Cercate di ricordare l’insegnante che, magari, vi ha amareggiato dicendovi che ‘non avreste mai fatto nulla nella vita’, o il compagno più grosso di voi, il ‘bullo’ che vi tormentava con le sue pretese infantili e vessatorie, magari minacciandovi.

    Partiamo da qui. Fate questo sforzo di memoria, prendete appunti se necessario, cercate di individuare la sorgente delle vostre debolezze e delle paure, perché sono queste, molto spesso, la prima causa di fallimenti e infelicità.

    Non si può essere felici se non si è liberi, e molto spesso noi siamo chiusi in una prigione che sta dentro di noi, creataci da qualcuno, ma che ‘noi’ continuiamo a portarci dentro.

    Insomma: restiamo ‘prigionieri di noi stessi’!

    Ma siamo ‘elefanti’ adulti, ormai, possiamo spezzare catene! Dobbiamo solo cercare di individuarle.

    Cap. 5

    Certezze: le nostre prigioni ‘necessarie’

    Quando ero bambino un giorno dissi a mio padre: Papà, i miei compagni mi domandano sempre per quale squadra tifo e io non so rispondere.

    E lui: Digli che tifi per l’Inter.

    Non mi sono mai appassionato al calcio, non ci capisco nulla, eppure fra tutte le squadre sono rimasto inconsciamente legato all’Inter; e ultimamente soffrivo un po’ nel vedere che, anno dopo anno, continuava a perdere; ed ho gioito quando la giustizia ha scoperto che la ‘sfortuna’ dell’Inter era, invece, in parte causata dalle malefatte di qualcuno.

    Sin da bambini noi sentiamo il bisogno di certezze, abbiamo necessità di riconoscerci in qualcosa, e l’idea dell’isolamento ci terrorizza.

    Uno stato d’animo che ha origini ancestrali, da quando nella preistoria chi non faceva parte del gruppo rischiava di morire di fame, o di essere sbranato dalle bestie feroci. In fondo, malgrado viaggiamo sugli aerei e siamo connessi col mondo grazie a uno smartphone, noi restiamo ancorati a esigenze psicologiche direi ‘primordiali’.

    La struttura del nostro cervello, malgrado l’evoluzione della nostra specie, è rimasta pressoché identica a quella dei nostri antenati di diecimila anni fa e oltre: le stesse pulsioni, le stesse reazioni di base.

    La cultura, il progresso civile, non hanno modificato il nostro io innato, l’evoluzione mentale non è andata di pari passo con quella tecnologica. Per cui, ancora oggi, abbiamo bisogno di riconoscerci in

    un ‘branco’, pronti ad obbedire al capobranco ‘alpha’, a difenderlo, a cedergli parte del nostro pasto, a subirne l’autorità e, a volte, le ingiustificate angherie.

    La società ci impone una ‘appartenenza’.

    ‘Se canti fuori dal coro, non sei nessuno!’.

    E noi, allora, scegliamo il branco a cui appartenere: la squadra di calcio, il partito politico, la religione, e mille altre situazioni in cui pensiamo di conquistare una identità di gruppo.

    E lo facciamo, molto spesso, senza una cognizione logica, a volte per casualità, o perché portati da altri, per nascita, per simpatie, e poi restiamo legati ai colori di quella maglia, o di quella bandiera, senza capire più di tanto lo schema di gioco della squadra per la quale tifiamo (ancor meno gli interessi economici che la sostengono), o ci battiamo per quel partito senza averne ben valutate e comprese le logiche, le finalità politiche, e gli interessi che lo animano.

    Il problema è che, a questi simboli identificativi del ‘branco’ a cui apparteniamo, restiamo legati in modo acritico magari per tutta la vita: ne facciamo parte e basta. Quello che il branco decide va bene, quello che il capobranco dice è giusto. Contestare le scelte del branco vorrebbe dire isolarsi, e ciò ci terrorizza. Questo fa di noi individui che rinunciano alla personale capacità di giudicare e mettere in discussione decisioni prese, per noi, da altri. Quindi restiamo fedeli alla nostra bandiera sempre e comunque. E noi per primi, solo all’idea di contraddire la linea comune (oggi si dice il comune pensiero), ci colpevolizziamo reputandoci ‘traditori’.

    Ecco: altri nella società ci hanno convinti che per esistere abbiamo bisogno di una situazione di appartenenza, e noi ci siamo trovati invischiati in dinamiche, magari non condivise, che sono diventate vere e proprie ‘prigioni’ dalle quali non riusciamo a venir fuori.

    Ora, se vogliamo avviarci verso un percorso di conoscenza e di vera libertà mentale, dobbiamo prendere coscienza del fatto che noi esistiamo ‘anche’ fuori del branco, e che forse, proprio fuori del branco, possiamo esprimere il meglio di noi stessi, e magari scoprire le caratteristiche attitudinali, e le capacità, che avrebbero potuto fare di noi stessi il maschio o la femmina ‘alpha’, mentre abbiamo passato buona parte della vita ad essere anonimi componenti di un ‘insieme’.

    Abbiamo trascorso gran parte del nostro tempo prezioso ad ascoltare i sermoni di abili predicatori, mentre avremmo potuto essere ‘noi’ i predicatori di noi stessi!

    Cap. 6

    L’appartenenza (comunque sia)

    Tempo fa mi trovai a parlare con uno dei nostri anziani di Calabria. Mi fece un discorso che mi chiarì tante cose.

    Vedi, mi disse, "quando avevamo noi vent’anni, era appena finita la guerra, in giro c’era solo ‘fame’. Chi fumava non aveva soldi per le sigarette e allora sbriciolava nella cartina qualunque foglia somigliasse al tabacco. Tutti i giovani eravamo uguali, tranne qualcuno nato da famiglia nobile. Ma alcuni volevano emergere sugli altri, essere più in vista, e allora non restava che fare una cosa: entrare nella ndrangheta. La ndrangheta a quei tempi era molto diversa da come poi è diventata. Era un’organizzazione basata su antiche regole cavalleresche, su un ardìto concetto dell’onore, sulla solidarietà reciproca, sul fatto di poter contare sugli ‘amici’. Per distinguerci c’erano i simboli: un fazzoletto legato al collo, la berretta portata di sbiego sulla fronte, una andatura un po’ ‘annacante’, e un parlare con frasi a prima vista banali ma che facevano parte di una sorta di codice. Ecco, diventavamo ndranghetisti solo per distinguerci, e sentire che noi eravamo superiori perché appartenavamo a qualcosa. Infatti fra le parole del rituale di iniziazione si diceva: ‘Quando la ‘società’ ti ha sollevato...’ Se si andava da un paese all’altro, lontano solo qualche decina di chilometri, entrando in un bar ci si riconosceva dai simboli e gli ndranghetisti di quel paese si avvicinavano e dicevano delle parole in codice e, una volta riconosciuti come giovani ‘aderenti’, arrivava la domanda di rito: ‘A chi appartenete?’ Cioè a quale famiglia ndranghetista."

    Erano gli anni ‘50, in Calabria. Io nascevo lì, in una casa di gesso, e crescevo ascoltando strani discorsi di ‘appartenenza’.

    La politica venne molto dopo, con l’illusione comunista che culminò nei moti studenteschi del "68, la rivoluzione femminista, e una divisione netta fra chi stava coi comunisti e chi con la Chiesa, PCI e DC, Peppone e Don Camillo. La logica dell’appartenenza cominciò a schierare gli uni contro gli altri, su due fronti ben distinti. Erano diversi il modo di vestirsi, di parlare, di atteggiarsi. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, non c’era dietro questo modo estremo di differenziarsi, una reale scelta analitica, si sceglieva e basta:

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1