Diari di montagna piccola
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Anteprima del libro
Diari di montagna piccola - Sandro Marigonda
Indice
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Credo fermamente nelle piccole cose. Quelle che stanno, per così dire, in palmo di mano, che si possono toccare, odorare, gustare, percepire nella loro interezza. Che entrano a far parte della nostra vita senza che si debba ogni volta, obbligatoriamente mettersi in gioco, rischiare o pagare fuor di misura. Senza dover essere per forza capaci di prestazioni eccezionali, impegno di cui spesso ci si fa carico per vanità o per ambizione, preoccupati dell’altrui giudizio.
Credo quindi nelle montagne piccole
, lo scorcio di prato, l’angolo di bosco, i fiori minuscoli, la roccia coperta di muschio, il ceppo vecchio con la sua famigliola di funghi, l’ansa del sentiero ammorbidito dagli aghi di pino, il silenzio.
Ho avuto la mia razione di montagne maestose, di pareti impervie, di nevi profonde e di precipizi. Da giovani è facile barattare la sicurezza con l’avventura, e in parte è giusto così.
Poi basta. Poi conviene (e molto) approfondire, curare i particolari, immergersi nelle cose della natura e degli artefatti che gli uomini sanno, a volte, con la natura armonizzare.
Beninteso, i monti di questi diari non sono affatto piccoli: lo sono le storie, che nascono in contesti limitati ed hanno modesta prospettiva. Proprio per questo, credo, sanno testimoniare con immediatezza di incontri speciali, di momenti inusitati.
Senza la distrazione dell’immenso, del soverchiante, del fuorviante, possiamo accorgerci delle tante, minuscole cose preziose che costituiscono il tessuto essenziale della vita.
1
Ogni anno, d’estate, tento inutilmente di resistere al desiderio di fare del turismo in montagna, in vacanza.
Parole tristi, vacanza e turismo, fastidiose, ma a loro modo oneste: dicono quello che sono senza nascondersi dietro ipocrisie ed ambiguità.
Cosicchè nessuno può illudersi di riempire un vuoto, quello proprio interiore, con un altro vuoto, una vacanza. E il turista è informato del fatto che sta per partire per un giro, un tour, che lo riporterà esattamente al punto di partenza. Per consolidare esperienze, sensazioni, ricordi che possano acquistare un qualche peso è necessario soggiornare a lungo in un luogo, conoscerlo a fondo, farlo proprio. Un turista non ha questa possibilità.
Eppure, sorprendentemente, un incontro memorabile, un cambio di passo sul percorso della propria vita può realizzarsi ovunque, anche in vacanza.
Uno di questi casi avvenne qualche tempo fa, un’estate che mi vide come di consueto capitolare al richiamo della Val Gardena. Quell’anno, più del solito il pensiero di essere nien’altro che un turista, un ospite temporaneo, suscitava in me un senso di incompletezza, di insoddisfazione.
In montagna, nel profumo di bosco e nel vento frizzante rinfrescato dal passaggio in quota, il silenzio riesce a trovare il suo spazio. I monti si ammantano di silenzio, e tutto sembra più presente, più vero.
Ma anche i pensieri avversi diventano nitidi, si impongono inesorabili all’attenzione. Così, la consapevolezza di essere un estraneo a quei luoghi, in quella valle che vorrei tanto sentire mia, risultava più molesta del consueto, tanto che, tornando da un’escursione, mentre attraversavo una pineta alle pendici del Sassolungo, la natura stessa, scrutata con gli occhi dell’ospite non invitato, mi appariva ostile, pericolosa, aliena.
Nel bosco meraviglioso, dall’atmosfera incantata, sentivo distintamente il disagio di non appartenere al luogo, e proprio in quella bellezza ineffabile sembrava nascondersi a me chissà quale indicibile insidia. Afflitto da presagi e timori indefiniti, procedevo cautamente, tentando di non farmi notare, di passare inosservato.
Quando la fatica della camminata si fece sentire, cercai un posto dove fermarmi a riposare, scegliendo infine di sedermi su un tronco di pino caduto, all’ombra fresca e profumata di un piccolo cembro. Compostamente seduto, aspettavo che si placasse un po’ alla volta l’ansia dello straniero in terra sconosciuta, lasciando vagare pigramente lo sguardo tra i rami del cembro, ammirando le forme eleganti, le api indaffarate, i licheni grigioverdi ed il muschio umido attorno al tronco, le sinuose radici affioranti.
Ad un tratto, mentre l’attenzione sfumava sonnolenta, da un ciuffo di aghi, su un ramo, vidi librarsi in volo una creatura inaspettata, irreale, eppure in qualche modo familiare. Era di un bianco opalescente, traslucida, dotata di ali da libellula. Minuscola, tanto da farmi dubitare di quello che vedevo, eppure inequivocabilmente antropomorfa, con un visino di fanciulla e braccia e mani sottili ed aggraziate, circonfusa da un impalpabile pulviscolo iridescente. Rimase un istante sospesa nell’aria a fissarmi, infastidita, mi parve, quindi sparì nelle ombre del pino. Non mi alzai per rincorrerla con lo sguardo, per cercarla: oscuramente sapevo che non si sarebbe più fatta vedere. Le creature come lei non si offrono alla vista di un qualunque passante, se non per sbadataggine.
Sul momento, stupefatto da quell’apparizione prodigiosa, non ne ebbi neppure timore. Anzi, riprendendo il cammino, tornai al mio albergo con passo sereno, e avvicinandomi alla civiltà del borgo, al chiacchiericcio della gente, ai familiari brontolii dei motori delle auto, mi colse più sfumata del solito la consueta sensazione di scampato pericolo, di ritorno dal selvatico alla normalità.
Quella notte, nel mio letto, ripensando allo strano incontro, mi resi conto di aver intravisto un altrove, perturbante e misterioso, un barlume di quell’ambito oscuro che preme sul limite del nostro piccolo mondo ordinato e risaputo, preme e si agita minaccioso ai confini della nostra percezione. E capii anche il valore del dono che il bosco mi aveva fatto lasciandomi intravvedere una delle sue creature d’ombra.
Ero stato informato del fatto di non essere un estraneo lì, proprio in quel luogo, ma di far parte