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Lago Bianco
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E-book1.132 pagine17 ore

Lago Bianco

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Info su questo ebook

Scritto di getto, lasciando che fosse la stessa storia ad auto-svilupparsi e costruirsi, senza partire da una posizione ben precisa e privo, almeno in partenza, di una meta a cui approdare. Orfano di genere, innanzitutto, poiché spazia dal romanzo gotico, che ne costituisce lo spunto e la traccia nascosta, all'opera di formazione, che accompagna nell'arco di tutta la vicenda l'evoluzione e la maturazione spirituale del protagonista Francesco. L'intera narrazione è costantemente segnata dall'interesse psicologico, dalla dialettica morale e dalla tensione religiosa che, di volta in volta, si confondono e si confrontano, nell'alternarsi di fatti e situazioni che abbracciano vicendevolmente dinamiche di guerra e d'avventura, insieme a situazioni intime, introspettive e sentimentali. Sullo sfondo c'è uno sguardo d'insieme ed a trecentosessanta gradi sull'uomo e sulla propria umanità: sul significato di quest'ultima parola e sulle sue diverse interpretazioni, espressioni e manifestazioni.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita23 feb 2018
ISBN9788871639482
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    Anteprima del libro

    Lago Bianco - Moreno Capriotti

    Lago Bianco

    di Moreno Capriotti

    Danza con Te il mio Pensiero,

    Eleganza distilla Tuo Passo leggero,

    Romanza sussurra ciascun Tuo Respiro,

    Movenza fragile eterea, unico mio Sollievo.

    La Mano tendi e m'inviti a Ballare,

    Profano mi prendi e m'insegni a Volare,

    Gabbiano, con Te, mi libro sul Mare,

    Scintillano Parole come Raggi di Sole.

    Tersicore,

    la Musa gentile Tu sei;

    Immemore,

    una Rosa offrir ti Vorrei.

    Ma solo Parole coltivo nel Cuore,

    in luogo di Petali, ti offro il mio Amore.

    Dedicato a mia moglie Nina

    Prologo

    Ho male alla gola, i brividi s'inseguono su tutto il mio corpo e, dietro la nuca, una tenaglia invisibile si diverte a stringere i miei pensieri, senza forzare, lasciandomi agonizzante fra la ragione e il delirio.

    Certo, non mi sento proprio bene; credo di avere la febbre, o forse no: la cosa, tutto sommato, non m'interessa. Sono sufficientemente lucido per approcciarmi a questa pagina bianca, mentre la candela, al mio fianco, si consuma mestamente e sembra volermi ricordare che, in fondo, la notte è fatta per dormire.

    Ma è proprio per questo che riesco a cimentarmi in qualcosa, che non ho mai sperimentato prima. Credo, infatti, che se il sonno non sopraggiunge, allora il tempo della notte è come sprecato, buttato via. È un tempo che vale poco e, poco per poco, posso finalmente spenderlo come voglio, senza danneggiare nessuno.

    Cosa dire in proposito: ho sempre pensato che la vita, l'esistenza e il sopravvivere fossero destinati ad una sfrenata attività e ad una frenetica intraprendenza che, attimo dopo attimo, giustificassero la mia stessa ragion d'essere. Non credevo, certo, di spendere parte del mio tempo prezioso, in una iniziativa di questo genere.

    Mi rendo conto che non sono un artista e nemmeno uno scrittore, anzi, ho sempre vissuto percorrendo il sentiero opposto e, per questo, sono consapevole di non riuscire ad esprimere con chiarezza e con linguaggio forbito i miei pensieri. Ma, adesso che la notte me lo concede, intendo provarci comunque.

    Tra l'altro, mentre scrivo, non so nemmeno se sarò in grado di portare a compimento questo mio intento. Potrei definirmi un avventuriero che esplora, per la prima volta, un sentiero scomodo ed impervio, solo per vedere dove conduce.

    Scrivere spero mi aiuti a rimettere in ordine e a placare le idee confuse che, attualmente, si agitano nella mia mente, come un mare in burrasca, e a ripercorrere i momenti più importanti di quanto mi è accaduto, in questa ultima parte della mia esistenza.

    Incomincio la narrazione, vera e propria, dicendo che, prima dei fatti che mi accingo a narrare, svolgevo il mestiere di messo viaggiatore. Posseggo tuttora il cavallo con cui lavoravo: un bellissimo esemplare, di colore bianco e dalla criniera bionda come grano maturo. Si chiama Aurelio e, quando viaggiavamo, non passava mai inosservato perché, attorno al suo dorso, stava avvolto un drappo rosso di velluto.

    I miei giorni trascorrevano pressoché identici nel contenuto, gli uni agli altri, seppur imprevedibili e variamente assortiti, nei particolari e nelle sfumature.

    Si alternavano due tipologie di giornate: le une, più rare e trascorse nella tiepida attesa, che qualcuno mi venisse a cercare per affidarmi uno scritto, un plico o anche un piccolo pacco; le altre, più movimentate e numerose, passate a cavallo nella foga e nella frenesia di giungere a destinazione nei tempi stabiliti.

    E, proprio per questo, non avevo una dimora fissa. Un'osteria lungo il tragitto, un convento o, anche, il palazzo di un cliente benestante: tutto mi andava bene.

    Capitava, spesso, che il tempo per rifocillarsi e riposare fosse relativamente breve: in genere, ovunque mi trovassi, nell'arco di uno o due giorni giungevano, infatti, nuove commissioni di cui occuparmi. Così montavo caparbiamente in sella e mi avviavo verso la meta successiva. Di fatto, i miei clienti erano quasi sempre gli stessi: di frequente, la notizia del mio arrivo in un luogo mi precedeva e, assieme ad un piatto caldo e ad un letto, trovavo già un nuovo incarico ad attendermi.

    Cos'altro aggiungere? Quella vita non mi dispiaceva: la natura era la mia compagna fedele di viaggio e, sempre, m'intratteneva coi suoi colori, i suoi paesaggi, le sue brezze delicate.

    Non era tuttavia il mio, quel lavoro bucolico, che potrebbe sembrare alla lettura delle mie parole strampalate, che non rendono affatto giustizia alle emozioni che provavo quando ero in giro per commesse.

    Talvolta si presentavano situazioni più che avverse e complicate, come il freddo, la pioggia e gli imprevisti che sovente capitano a chi non ha un rifugio stabile.

    Dovevo attingere, in tali occasioni, a tutte le risorse fisiche e mentali di cui disponevo: sapermela cavare, spesso da solo e in luoghi ignoti e sconosciuti, faceva parte dell'attività che svolgevo e non mi rammaricavo di ciò.

    Nelle questioni di lavoro, ammetto senza vanto, che ero molto previdente ed organizzato, in grado di fronteggiare, con la stessa concentrazione e con lo stesso sangue freddo, sia la routine sia le emergenze che si presentavano all'improvviso.

    A monte c'era sempre la mia attenzione perché tutto fosse perfetto, preciso, puntale: non avrei mai accettato un ritardo nella consegna al destinatario o ammesso un qualsiasi altro disservizio nei confronti del committente.

    Aggiungo, infine, che nel corso dei miei viaggi non ero sprovvisto della mia spada. Consapevole che il mondo non fosse un eden e che gli uomini fossero spesso inclini a fare del male ai propri simili, io avevo imparato a difendermi.

    Tenevo l'arma ancorata su un apposito bottone della cintura e, qualora fosse stato necessario, ero pronto ad afferrarla nella destra e ad agitarla davanti a me, nel tentativo d'intimorire il malintenzionato di turno. Generalmente questo bastava, perché il brigante fosse indotto alla fuga, evitandomi l'impiccio e il dispiacere di un confronto violento al quale, per natura, non ero affatto incline.

    Tirando le somme, si sarebbe potuto dire che fossi pronto a tutto; ma, dopo quanto è accaduto di recente, non ne sono più tanto sicuro.

    Ma cosa è accaduto di preciso? Tutto e Niente, forse. Solo quanto mi accingo a narrare.

    Capitolo Primo

    Settembre: ogni anno questo mese, dal nome tanto musicale, segna la fine dell'estate, dei giochi all'aria aperta, dei pomeriggi infuocati sotto il sole d'agosto. Un sottile, trasparente velo di mestizia avvolge la parte più intima ed infantile delle persone e lo sguardo dei pensieri si volge all'indietro, alla ricerca dei ricordi di un'estate, che spesso ha mantenuto meno di quanto abbia mai promesso.

    E sarebbe troppo scontato se fosse tutto qui: perché, mentre l'anima se ne sta sospesa alla finestra, fra un sospiro e l'altro, un'essenza fresca, frizzante e gioiosa solletica il Cuore. I mosti fermentano nelle cantine, i tini di legno sussurrano melodie incomprensibili, ma tanto dolci e leggiadre da risvegliare il sorriso sopito ed addormentato.

    È la magia dell'autunno, che si diffonde fra gli alberi, nei boschi: quando dal terreno spuntano funghi dalle forme più strane, come eccentrici fiori i quali, nei loro colori caldi e rassicuranti, nulla hanno da invidiare alla lontana primavera.

    Le viti, poi, sfoggiano grappoli di perle e pietre preziose, e li offrono a chiunque, con gratuità: al passero, al pettirosso, al cinghiale, alle api e alle vespe così come a noi uomini che, effettivamente, non potremo mai comprendere il segreto di tanta generosità.

    Chiedo scusa se mi dilungo, d'altronde non avrei mai pensato di farlo ma, mentre la penna corre sulla carta, mi rendo conto che scrivere è un po' come dipingere.

    Esiste un soggetto principale da ritrarre, tuttavia, man mano che si procede nel lavoro, ci si imbatte nei particolari dello sfondo e del contorno, acquisendo la consapevolezza che ogni elemento rappresenta un particolare a sé, da non trascurare.

    Così, a poco a poco che dipingo i miei pensieri, attingendo ai colori sfocati delle parole, mi accorgo che sussistono, dentro di me, tante sfumature appena abbozzate che devo necessariamente rifinire e definire, perché la mia opera abbia un senso compiuto; non me ne voglia l'incauto lettore!

    La mia storia ha inizio, appunto, in un pomeriggio di settembre, all'ombra di un grande faggio.

    Me ne stavo assopito e stanco, fiaccato da una notte insonne, trascorsa al galoppo.

    Proprio quella mattina, infatti, ero giunto presso il Castello di Porta Somma, poco prima che un raggio di sole facesse segno alla luna di andare a riposare. Nella luce fioca e plumbea di quell'alba cupa e piovosa, si distinguevano a malapena le mura merlate della rocca. Il vento non era da meno e mi spirava alle spalle: come uno spirito dispettoso s'insinuava sotto il mio mantello bagnato e mi ricordava quanto freddo ed inospitale potesse apparire il mondo, quando ci si ritrovava soli ed abbandonati ai capricci di madre natura.

    Aurelio, di propria iniziativa, si fermò nei pressi dei cancelli, che occludevano l'accesso alla torre del maniero.

    Una sentinella, mezza addormentata, col berretto calzato fin sulla nuca a riparare le orecchie gelate dal freddo, si affacciò all'unica finestra rischiarata dal riverbero di una candela.

    «Chi è laggiù?» Gridò il guardiano.

    «Sono Francesco Canova, il viaggiatore: sono stato convocato, con urgenza, dal conte Verdi Massacci!» Tuonai in modo deciso.

    Pochi istanti dopo, i cancelli si aprirono: io ed Aurelio accedemmo all'interno del cortile e trovammo riparo sotto il loggiato, il quale si snodava lungo il perimetro interno dell'edificio.

    Una goffa figura in vestaglia da notte, grossa e traballante, mi si fece incontro: «Benvenuto Francesco, l'aspettavamo con ansia», sbuffò lo strano tipo, rassettandosi il berretto da notte sulla testa. «Ma innanzitutto, piacere! Sono Ettore Roana: il nuovo segretario del conte.» Aggiunse quello.

    «Piacere mio!» Replicai io, aggiungendo: «Ci sarebbe un posto caldo, dove far riposare il mio povero cavallo? Magari anche del fieno e dell'acqua?»

    «Non si preoccupi, il suo cavallo starà come un re!» Esclamò il tizio, abbozzando un mezzo sorriso fra le labbra grassocce, appena percepibile nella penombra che avvolgeva ancora le mura. Poi, battendo le mani, fece accorrere due inservienti che si presero cura di Aurelio e lo condussero alle stalle.

    Io, al contrario, fui sistemato all'interno di una delle tante camere destinate agli ospiti: qui mi prepararono un bagno caldo e mi fecero trovare delle vesti pulite. Sul tavolo trovai pure frutta fresca e secca, con cui avrei potuto fare colazione.

    Seppur immerso nell'acqua tiepida ed avvolgente della vasca, quella sensazione di freddo e di umido, che avevo accumulato lungo il tragitto, ancora mi serpeggiava nelle ossa.

    Di seguito desinai con piacere, poiché la fame mi stringeva lo stomaco. Noci, nocciole, mandorle ed uva passa: non mancava nulla per una colazione ricca e corroborante, accompagnata da mosto cotto invecchiato. Delizie per il mio palato: annusavo quella frutta e cercavo di percepirne i più reconditi odori, meravigliandomi di quanta intima gioia mi procurasse tutto ciò.

    Per il mosto, poi, non c'erano parole: come melassa fluttuava nel bicchiere e, come miele, mi addolciva la bocca, ogni volta che lo portavo al palato. L'aroma, inoltre, mi faceva pensare all'estate che se ne era appena andata.

    Sazio e appagato, mi distesi un po' sul letto; il bicchiere era al mio fianco sul comodino: lo appoggiai per un attimo solo, con l'intento di tornare a goderne, e sprofondai in un dolce sonno riparatore.

    Il sole era già alto, quando i miei occhi decisero di tornare a spalancarsi. Proprio come le finestre, dalle quali entrava sommessamente la luce di una giornata che, pur se non piovosa, appariva cupa e buia.

    Il camino, che in precedenza ardeva e, crepitando, aveva prodotto le note di una dolce ninna-nanna, ora s'era spento: restavano solo alcuni spuntoni di legna bruciacchiata, debolmente fumanti.

    Mi alzai, e mi approcciai alla finestra: oltre le mura, un mantello grigio di nebbia avvolgeva il mondo.

    Così mi aggiustai gli abiti; legai i capelli lunghi e ricci con un laccio, che trovai nella mia borsa, ed uscii della camera.

    Subito un servo mi corse incontro, riferendomi che il conte mi aspettava al piano superiore. Mi propose di seguirlo su per quelle scale, i cui soffitti erano magistralmente affrescati. Feci in tempo ad ammirare un cielo stellato, dipinto con estrema maestria, e delle figure angeliche, che si affacciavano lungo il perimetro; e mi ritrovai nella stanza del conte.

    Un grande camino, che occupava quasi una parete intera, era alle spalle del padrone di casa. Massacci sedeva su una grande sedia di velluto, sulla quale il suo piccolo ed esile corpicino stava semplicemente appollaiato e somigliava ad un uccellino pronto a spiccare il volo.

    Il conte non era certamente un bambino: a giudicare dalla testa calva, dalle rughe disegnate sulla fronte e dalle sopracciglia imbiancate, avrà avuto almeno una sessantina d'anni. Era, però, di costituzione piccola e gracile, per non dire malaticcia. E viveva, a differenza di me, rintanato nel proprio fortilizio. Non era sposato e non aveva discendenza.

    Nel maniero, con lui, abitavano solo pochi inservienti e qualche guardia. C'erano poi tanti contadini che lavoravano le sue terre, ma che al palazzo venivano solo per consegnare le messi, la frutta e gli altri prodotti dei campi.

    «Prego Francesco, si accomodi pure!» Mi salutò il conte.

    Io lo ringraziai per la gentilezza e per l'accoglienza ed egli restò per un po' in silenzio.

    Di seguito, tornando a prendere fiato e sempre con tono docile e fiacco, aggiunse: «La ringrazio per aver risposto alla convocazione e per la sua solita puntualità».

    Io chinai la testa, in segno di rispetto nei confronti di quel piccolo uomo cagionevole e mesto ma, comunque, molto educato.

    «Avrei una commissione per lei.» Proferì il Massacci.

    Io, da parte mia, accennai un sorriso: infatti, pur sentendomi ancora piuttosto stanco e sfinito a causa del viaggio, ero felice che mi capitasse un nuova occasione di lavorare.

    «Dovrebbe, quanto prima, mettersi in cammino verso la Montagna del Vento, ad un paio d'ore da qui. Sul sentiero, che conduce alla cima, troverà un maestoso faggio, secolare, dalla chioma rigogliosa e rami grandi come tronchi. Si fermi lì ed attenda: qualcuno verrà e le dirà cosa fare.» E, dopo aver pronunciato tali parole, facendo una pausa, mi fissò attentamente negli occhi ed aggiunse: «Naturalmente pagherò io i suoi servigi, immediatamente ed in anticipo». Quindi rimase in silenzio, in attesa che io proferissi risposta.

    Me ne stavo seduto, difronte a questo piccolo uomo, che quasi mi sussurrava, tanto la sua voce era flebile, ed ero come incantato da quell'atmosfera di fiaba. Il camino, la sua luce aranciata che riempiva la stanza, il calore e l'odore della legna bruciata e l'infinità dei paesaggi affrescati e colorati alle pareti catturavano tutta la mia attenzione e mi distraevano dal discorso del conte.

    Appena rinvenni e mi accorsi, che egli attendeva una mia risposta, dissi: «Per me non ci sono affatto problemi ma, per quantificare il compenso, dovrei conoscere, all'incirca, quanta strada e quanti giorni di cammino mi attendono».

    La fronte del vecchio si corrucciò ulteriormente, i suoi occhi opachi ebbero un guizzo e la sua bocca quasi parve incrinarsi in un ghigno preoccupato; dunque, aggiustandosi lo scialle che gli copriva le spalle, pronunciò queste parole: «Non saprei dirle con esattezza, non saprei proprio: la pagherò per una settimana, anzi no, due...» Seguì una pausa e poi riprese: «Facciamo per un mese, così lei non avrà di che preoccuparsi, ma mi raccomando: non abbandoni l'incarico, non torni indietro, non desista. Io confido in lei».

    La cosa mi stupiva non poco: certo, avevo la mia fama di persona seria e rispettabile ed avevo già lavorato per il conte in passato, ma non mi aveva mai pagato così tanto per un lavoro, per giunta così incerto nei modi e nei tempi. E comunque, mai prima, si era rivolto a me con un accoramento tale, parlandomi di fiducia. In genere i rapporti erano sempre stati molto formali e, a volte, non avevo interloquito nemmeno con lui, ma con qualcuno dei suoi servitori.

    Il mio volto, tuttavia, non tradì alcuna emozione.

    Con fare impassibile e tranquillo, accettai, facendomi pagare per un mese di lavoro e pensando che, per il momento, avevo fatto un buon affare, pur senza sapere, ahimè, a cosa stavo andando incontro.

    Mi congedai dal vecchio conte e lo ringraziai. Appena fuori la porta, il servo mi attendeva per condurmi, prima in camera a recuperare le mie cose e poi giù nelle stalle a riprendere Aurelio. Il mio cavallo se ne stava lì, tutto solo, in silenzio. Mi accertai che acqua e cibo non gli fossero mancati.

    Chiesi, quindi, al domestico di procurarmi dell'acqua per la mia bisaccia, del pane e formaggio, che l'uomo rimediò immediatamente, senza farmi attendere troppo.

    Era pomeriggio quando lasciai il castello: la nebbia si era un poco diradata e qualche raggio di sole filtrava fra le nuvole.

    Scesi lungo il pendio della collina e, giunto a valle, attraversai il ponte in pietra sul fiume, imboccando la strada maestra. Quest'ultima mi avrebbe condotto fino all'unico sentiero che s'inerpicava sulla Montagna del Vento.

    Anche se avevo sempre viaggiato tanto e percorsa un'infinità di miglia, questo tragitto era per me nuovo ed inesplorato. Infatti la montagna non ospitava rocche o castelli, né paesi o insediamenti, se non un antico monastero di frati, che conducevano un vero e proprio eremitaggio.

    Altro non conoscevo di quel sito impervio e inaccessibile. Una leggenda voleva che, anticamente, fosse stato luogo di incontro per stregoni e fattucchiere e che fosse stato abitato, in tempi non precisati, da fate e folletti. Qualcuno lo riteneva, al contrario, un posto sacro: ne ignoravo, tuttavia, il motivo. Non mi ero mai interessato della storia e delle vicissitudini di quel posto lontano e dimenticato: mi limitavo solo ad ammirarlo nella sua maestosità, ogni volta che transitavo nelle sue vicinanze.

    Ai piedi del gigante, difatti, si srotolava, parallela al corso di un torrente, fra anguste grotte e strette gole, boschi di roverelle e noccioli, la strada che collegava la Contea dei Camartini con il Ducato dei Savi Margutti. Percorrevo sovente quella via poiché, in entrambi i territori, io coltivavo floride clientele.

    Decisamente allungato su di un fianco e leggermente ripiegato su se stesso, l'imponente massiccio assomigliava, nella forma, ad un ferro di cavallo. Le nuvole ne sfioravano la cresta quando, nel periodo invernale, si copriva di bianco ed una fitta nebbia l'avvolgeva. In estate, invece, la vetta era ben visibile e, col proprio profilo frastagliato, sembrava solleticasse la volta celeste.

    In basso, lo circondava un anello verde di boscaglia: faggi, querce e conifere che, salendo, lasciavano il passo al verde sbiadito di prati incolti, spesso fioriti nel corso della bella stagione. La sommità infine, orgogliosa e spavalda, esibiva i suoi muscoli di pietra e roccia.

    Il sentiero, nella sua parte iniziale, era pianeggiante: attraversava un boschetto che profumava dei tanti funghi, nascosti nel sottobosco. Successivamente si scopriva su una sorta d'altipiano, per proseguire leggermente in salita attraverso un prato.

    Arrivai così al grande faggio: non avevo mai visto una pianta tanto maestosa ed imponente. Feci un giro attorno a quel tronco immenso e provai un senso di vertigine. I rami pure, così come aveva detto il vecchio conte, erano grandi come tronchi ed estremamente espansi.

    La brezza leggera, che correva fra le foglie, induceva la pianta a vibrare e respirare; ed una melodia arcana sembrava impadronirsi dei miei sensi e della mia ragione.

    Forse a causa della stanchezza accumulata, forse per la magia di quel momento così singolare, presi e scesi da cavallo; stesi un mantello sull'erba, ancora umida per le recenti piogge, e sprofondai nel dormiveglia.

    Aurelio, credo, fosse nelle vicinanze, anche lui stanco e sfiancato. Aprivo sporadicamente gli occhi ed assistevo, sopra di me, alla danza delle innumerevoli foglie, quasi fossero lì per cullare i miei sogni.

    E, così, immagini sbiadite, evanescenti ed eteree affiorarono nella mia mente. Il ricordo del camino, che crepitava presso il palazzo del conte; le scintille dorate che ascendevano, mescolandosi con le stelle degli affreschi, per poi scendere giù e sfiorarmi delicatamente il viso.

    Sentii le mani candide di un angelo che mi accarezzavano: erano le foglie del grande albero, le prime a cadere sotto i colpi dell'autunno imminente. Queste, scivolando via dai rami, mi sfioravano con delicatezza il viso.

    Riaprii gli occhi che il sole si stava preparando tristemente al crepuscolo. Attraverso la nebbia, rada e quasi del tutto dileguata, era possibile assistere allo spettacolo dell'orizzonte che si tingeva improvvisamente di rosa. Venere sorrideva, poco più su, vestita di luce e d'azzurro. Dalla parte opposta faceva timidamente il suo ingresso, avvolto in una veste strappata di nuvole, il volto dorato della luna.

    Mi alzai, nell'attesa che arrivasse qualcuno: quella persona che il conte mi aveva chiesto di attendere e che avrebbe recato le informazioni necessarie al compimento del mio lavoro.

    La notte, tuttavia, stava scendendo ed a breve si sarebbe fatto buio: le stesse nuvole parevano addensarsi ad oriente e non promettevano nulla di buono. Cosa fare? Pensai fra me e me. Devo tornare indietro dal conte e informarlo che nessuno s'è presentato all'appuntamento.

    Rimuginavo che avrei restituito la somma percepita inutilmente poche ore prima; quindi, mi sarei fermato al castello per la notte, per poi ripartire l'indomani, in cerca di nuova occupazione.

    Nei territori più a sud, tra l'altro, iniziava la stagione della raccolta delle uve. Questa costituiva per me una buona opportunità, in quanto spesso facevo la spola fra i campi e le tenute dei possidenti, per informarli sull'andamento dei raccolti e per recare indietro le istruzioni dei proprietari ai loro fattori.

    Non sempre, infatti, le uve venivano condotte a castello e vinificate: a volte erano oggetto anche di compravendita con ducati e principati che ne erano sprovvisti. E, spesso, queste trattative viaggiavano attraverso veline, che mi occupavo io di consegnare.

    Ancora una volta, però, i miei propositi non potevano essere più sbagliati. Mi guardai intorno e non trovai più Aurelio. Lo chiamai e richiamai. Cercai ovunque, spingendomi anche nel bosco che precedeva la radura, ove stazionava il grande faggio.

    Tornai indietro e mi avventurai su per il sentiero, che proseguiva verso la montagna: il cavallo era sparito.

    Cosa poteva essere capitato al mio fido palafreno? Non era mai accaduto un evento tale: non ci eravamo mai separati e, di certo, non si sarebbe allontanato da solo.

    Era, ormai, buio e la luna rischiarava debolmente il fianco della montagna. Le nuvole, come grigi sipari, si aprivano e si chiudevano ripetutamente davanti a lei e qualche tuono cominciava a borbottare in lontananza.

    Tornare indietro sarebbe stato impossibile: a piedi ci avrei messo tre o quattro giorni. Mi sentivo stanco e le condizioni del tempo non promettevano nulla di buono. Anche la temperatura, che fino a quel momento era stata gradevole, cominciava silenziosamente a scendere; ed io iniziavo ad avere freddo. Avevo, nella mia borsa, una pelliccia che presto indossai per ripararmi. Ero consapevole che non avrei potuto trascorrere l'intera nottata in quel posto, al freddo e col rischio del temporale che incombeva.

    Sapevo che sulla montagna vivevano i monaci e decisi, non avendo alternativa, di incamminarmi in cerca del monastero e chiedere loro se potevano ospitarmi, solo per quella notte. Speravo, veramente, che potessero anche vendermi un cavallo col quale, il giorno dopo, rimettermi in cammino e tornare dal conte, ma per il momento l'urgenza era trovare riparo al più presto.

    Il sentiero, in terra battuta e ciottoli, era abbastanza visibile, seppur proseguendo diventava più stretto e soprattutto più scosceso. Quando la luna l'illuminava, ella si specchiava in quei sassi bianchi e, di colpo, era come se la via lattea fosse ai miei piedi e m'indicasse la strada. Ma quando, poi, le nuvole dispettose finivano per coprirla, allora sprofondavo nel buio e dovevo stare attento a dove mettevo i piedi.

    Avevo, infatti, delle candele con me, ma erano riposte nella borsa legata alla sella di Aurelio; ormai perdute, quindi, dovevo proseguire alla cieca. Il tratturo correva lungo il fianco occidentale della montagna, a volte passava attraverso dei veri e propri scalini e dislivelli, a volte si riappianava permettendomi di riprendere fiato.

    Le nubi avevano, ormai, serrato completamente la volta celeste e le stelle, sembrava, fossero anche loro scappate per rifugiarsi altrove. La luna era come prigioniera di un esercito di nembi e la sua flebile luce era appena percepibile al di là di quelli: proprio come il grido di qualcuno, che fosse stato rinchiuso dentro spesse mura ma, di cui, pur senza vederlo, se ne percepivano chiari il pianto e le grida.

    Una goccia di pioggia mi sfiorò il naso, un'altra la fronte; ne seguirono molte altre e smisi di contarle. L'acqua cominciava a correre lungo il sentiero ed alimentava un ruscello, che prima non esisteva. Nonostante gli stivali, percepivo che i miei piedi erano freddi e bagnati; col mantello cercavo di proteggermi, ma l'impeto del temporale si faceva sempre più forte e riusciva a penetrare oltre la pelliccia che mi avrebbe dovuto scaldare.

    A quel punto, nella confusione e nella paura più totale, mi fermai. La montagna parve accorgersi della mia minuscola figura e, forse impietosita, comandò al cielo di aprirsi. Fu un attimo, ed una saetta, scintillante e dorata, squarciò il firmamento. Per un istante chiusi gli occhi ma, riaprendoli immediatamente, nel chiarore che scemava, potei intravvedere qualcosa: una sagoma. Questa assomigliava ad una piccola cappella o forse ad un rifugio per pastori. Tale struttura si trovava a destra rispetto al sentiero, lungo il dirupo che scendeva, pericolosamente, sul fianco della montagna.

    Decisi, camminando carponi ed anche rotolandomi nel fango, di raggiungerla: a quel punto poteva essere la mia unica ancora di salvezza. Era troppo pericoloso restare all'aperto.

    Forse davvero quel fulmine, se non un suggerimento, era stato un avvertimento: dovevo trovare riparo quanto prima se non volevo rischiare di morire su quella montagna.

    Mentre strisciavo come un verme nel buio, infreddolito e sudicio, avevo smesso di pensare: la percezione aveva preso il sopravvento. Sentivo ogni più piccolo rigagnolo penetrarmi fra le vesti ed avvertivo l'odore della terra bagnata e dei muschi su cui mi rotolavo.

    A tratti sprofondavo in una pozzanghera ed il sapore della terra mi riempiva il palato.

    Realizzai, così, che non ce la potevo fare: non sapevo più dove mi trovavo e dove stavo andando.

    Quindi, un'altra saetta illuminò il cielo e potei scorgere il rifugio, lì a pochi passi da me.

    La speranza m'infuse coraggio e mi riappropriai della mia umanità: così, alzandomi in piedi, arrivai a toccare, di nuovo nel buio, le mura di quell'edificio.

    Con le mani cercai qualcosa che somigliasse ad una porta: trovai, dunque, una specie di maniglia in ferro e la spinsi in avanti. L'uscio si aprì di colpo e sprofondai dentro, cadendo a terra sul pavimento freddo ma piacevolmente asciutto.

    La spalla, che aveva picchiato sul suolo, mi doleva; non vedevo nulla e udivo solo il ticchettare incessante della pioggia sul tetto, il lamento del vento e l'alito freddo che entrava dalla porta che avevo spalancato.

    Sollevai, pertanto, una gamba, senza rimettermi in piedi e, con un colpo secco, chiusi quell'anta aperta dietro di me. Poi mi abbandonai allo sfinimento fisico e spirituale; appoggiai il capo su quel pavimento di pietra, e persi i sensi.

    Trascorsero, non saprei con certezza, se tre o quattro, forse anche cinque ore. Non ricordo nulla: il mio corpo e la mia mente avevano trovato congiuntamente riposo.

    Cosa che, ammetto, non accadeva quasi mai al sottoscritto. C'erano, invero, nella mia vita, momenti in cui le membra, stanche e sfibrate, cercavano requie su un prato come su un letto, lasciandosi andare completamente all'ozio riparatore.

    La mente, però, non le seguiva ed insisteva nella sua opera tutta cerebrale di lavorio continuo e logorante. Essa trascinava con sé la coscienza: ed allora restavo sveglio a pensare.

    Il mio corpo, consumato e pesante, trovava riposo ma l'anima, come una colomba bianca, volava fuori dalla finestra ed andava incontro al sole, pur non sempre trovandolo.

    Così mi accadeva di librarmi attraverso una coltre di nuvole e brancolare nella nebbia, di perdere di vista la terra e di smarrire l'azzurro del cielo. In tali istanti, senza una meta precisa, rivivevo momenti passati: li osservavo e li guardavo, non senza giudizio e spirito critico. Trovavo soluzioni tarde ed alternative a scelte già fatte; esploravo sentieri che avevo a loro tempo scartato; sperimentavo opportunità che non avrei mai immaginato.

    Il presente e il futuro rimanevano sospesi, cedendo la scena ad un passato confuso e fastidiosamente attuale, diviso fra rimorsi, utopici sviluppi e speranze ormai decadute.

    Ma mi sto, ahimè, dilungando troppo, finendo per annoiare l'incauto lettore. Anche perché in quella situazione, in cui mi trovavo, non avevo proprio coscienza: me ne stavo esanime; e credo che nemmeno l'ombra di un sogno passeggero potesse sfiorarmi.

    Quando tornai ad aprire gli occhi, proprio un attimo prima che le palpebre si schiudessero, la prima sensazione che ricordo bene, come fosse ora, fu quella dei vestiti gelidi e bagnati che mi aderivano al corpo. Tutto era profondamente buio e nulla potevo vedere attorno, davanti e dietro di me. Riuscivo, di contro, a percepire il rumore: quel martellante ticchettio della pioggia sul tetto, che avevo ignorato nel periodo del riposo, ma che ora mi sembrava quasi insopportabile.

    Man mano, poi, che mi riappropriavo dei miei sensi, iniziai ad ascoltare l'ululato del vento che bussava, di tanto in tanto, sui battenti di una finestra, sita forse dietro di me.

    Pensai che dovevo rimettermi in piedi e riassumere, quanto prima, una posizione eretta, che mi aiutasse, da uomo quale ero, a ragionare. Poggiai i palmi delle mani sul pavimento, feci forza con quanto di energia mi rimaneva fra le vene e, infreddolito, mi tirai su, prima col busto e quindi con le gambe.

    Avevo timore a muovere il primo passo, come se un piede nel posto sbagliato avesse potuto farmi nuovamente capitolare a terra. Ebbene, mi venne in soccorso un nuovo fulmine, che illuminò tutta la montagna. Il suo riflesso argentato penetrò con irruenza attraverso la piccola finestra alle mie spalle, proprio sopra l'uscio della porta di legno, e rischiarò, per un singolo istante, tutto l'ambiente in cui mi trovavo.

    Sopravvenne nuovamente l'oscurità. Anche se non ebbi il tempo di guardarmi intorno, fui fortunato perché potei intravedere, proprio difronte a me, il contorno di un camino, che ospitava alcuni spezzoni di legna. Mossi sicché, rincuorato, qualche timido passo in quella direzione. Una volta giunto sul ciglio del focolare, mi chinai ed iniziai con le mani a tastare l'ambiente, nella speranza di trovare un acciarino ed una pietra per l'accensione.

    E, se è vero che la fortuna aiuta gli audaci, io venni premiato, in quanto li trovai proprio adagiati alla parete destra del camino. Raccattato così nel buio qualche vecchio carbone e qualche pezzo di corteccia secca nella cenere, iniziai a sfregare e, nonostante l'umidità, la pietra partorì due piccole scintille che per me, in quel momento, significarono luce e calore.

    Tirai un sospiro di sollievo e mi affrettai a consolidare il focarello con qualche altro pezzo di legna, che non feci fatica a recuperare nelle vicinanze. Non mi ero ancora voltato a scrutare l'ambiente che mi circondava: ero così preso dalla necessità primaria di vedere e scaldarmi, che dimenticai tutto il resto.

    Di seguito rientrai in me: la fiamma del fuoco, che lentamente cresceva, spandeva attorno a sé un aura aranciata che rischiarava la stanza. Tutto era stato edificato in pietra bianca di fiume, squadrata e magistralmente accostata, a formare le mura e lo stesso camino. La stanza era di modeste dimensioni, anche piuttosto bassa; sopra di me insisteva un tetto costituito da travi di quercia e mattoni in cotto. Il camino era, per la stanza, molto grande. All'interno pendeva un gancio per appendervi, se ce ne fosse stato bisogno, una pentola per cucinare.

    Finalmente iniziai a voltarmi, prima solo col collo e, poi, aiutandomi con i piedi: il piccolo edificio consisteva di una sola stanza che era, anche, molto ben tenuta. C'era un'unica finestra, quella sopra la porta di ingresso. Tale uscio era piuttosto grande, così da poterci entrare pure con un mulo, a differenza della finestra, le cui dimensioni erano estremamente ridotte.

    Alla mia sinistra, un tavolo in noce stava adagiato alla parete. Sopra di questo, erano stati appoggiati un candelabro con tre candele mezze consumate ed un piatto di terracotta con una brocca. Una sedia, anch'essa in noce, completava l'arredamento, povero e scarno, del rifugio.

    Dalla parte opposta, alla mia destra, il pavimento s'interrompeva bruscamente in un punto ed una rigida scala in legno scendeva in profondità, forse in una sorta di scantinato.

    A giudicare dalla tecnica costruttiva e dall'ordine che c'era nel locale, pensai subito che si trattasse di un ricovero costruito dei monaci del convento: forse un punto di ristoro dove rifocillarsi quando si trovavano di passaggio o, anche semplicemente, ripararsi quando incombeva il mal tempo, proprio come era accaduto a me.

    Tranquillizzato in questo senso, convenni di approfittare di quella sedia per accomodarmi e fermarmi a riflettere sul da farsi. Mi avvicinai con lentezza e, sempre facendo attenzione a non inciampare, tirai verso di me il pesante manufatto e vi appoggiai, con un gesto repentino e liberatorio, tutto il mio peso.

    Con stupore notai che nel piatto di terracotta giaceva, fasciata in una tovaglietta bianca di lana, una pagnottella di pane di segale e, sotto di questa, stava riposto un pezzo di formaggio stagionato. Il pane poi era ancora piuttosto fresco: credo avesse non più di tre giorni. In bocca sentii subito l'acquolina riempirmi il palato. Feci, quindi, per spezzare la pagnotta che, profumatamente, si ruppe fra le mie mani. Così, iniziando a mordicchiare il formaggio, intrapresi quella tanto inattesa quanto piacevole cena. Il profumo del pane e quell'aroma misto di farina e legna bruciata non finivano di accarezzarmi le narici. Morso dopo morso, sentivo la vita tornare a scorrere dentro di me; mentre quella sensazione fastidiosa di freddo umido, che avevo nelle ossa, lentamente si faceva da parte.

    In questo modo io, che non ero mai stato un fervente religioso né un modello da seguire in fatto di Fede, in quel frangente mi voltai verso la finestrella alla mia sinistra e ringraziai Dio. Nella convinzione che, attraverso quella piccola apertura Egli potesse ascoltarmi, espressi la mia gratitudine per il dono di quel momento e non solo. Gli fui grato per la vita che mi aveva concesso e nei confronti della quale provavo, in quell'istante, un amore sfrenato. Perché, seppur nella difficoltà e nello scoramento, seppur stretto nella paura e nell'inquietudine della situazione, l'odore ed il sapore del cibo mi avevano ricondotto a quei piaceri primari, materiali, imprescindibili e genuini di cui la vita traboccava ma che spesso non ero in grado di riconoscere ed apprezzare. E questo piacere trascendeva il mio corpo, che tutto non riusciva a contenerlo; e sfociava, proprio come un fiume che si riversava in mare, nell'infinità della mia Anima. E l'Anima, eterea, incorporea, inconsistentemente illimitata, tutto poteva contenere. Cosicché un pasto, semplicemente frugale e contingente, acquisiva una dimensione più alta, potrei dire anche spirituale, per me in quei brevi ed indimenticabili, drammatici e significativi momenti.

    Ero rinato: il lume della ragione era tornato a rischiarare i pensieri.

    La prima cosa, che decisi, fu di togliermi quegli abiti ancora bagnati per metterli accanto al camino ad asciugare.

    E, mentre cercavo una pelle o uno straccio, con cui avvolgermi nel frattempo che le vesti si fossero asciugate, incominciai a rimuginare sulla situazione. Chi era stato lì in precedenza? E perché se ne era andato lasciando il cibo? Forse si era solo allontanato per poi tornare; e magari, sorpreso dal maltempo, se ne stava fermo da qualche parte ad aspettare che spiovesse per rimettersi successivamente in cammino. Non mi era dato saperlo. Se anche fosse tornato da un momento all'altro, ero pronto a pagare per il disturbo: nella borsa, che avevo alla cinghia, seppur bagnata, conservavo ancora le monete che mi aveva corrisposto il conte in precedenza.

    Nel frattempo la pioggia pareva spegnersi un po' alla volta, mentre i primi, timidi e fiochi bagliori dell'alba cominciavano a dipingersi sulla tela della piccola finestra. Un nuovo giorno stava per cominciare e mi ritrovavo da solo, senza il mio cavallo, in un posto non precisato ai piedi della Montagna del Vento.

    Il tempo trascorreva, scandito dai ceppi di legna che, man mano, il fuoco consumava. Gli abiti, nel frattempo, s'erano asciugati e mi ero potuto rivestire. Anche i capelli non erano più bagnati. Si approssimava già la metà della mattinata e sarei potuto ripartire, se non fosse stato per la pioggia che, con mia sorpresa, aveva ripreso a cadere copiosa.

    Ero prigioniero in un certo senso: poiché, dopo la brutta avventura della sera precedente, non avevo la minima intenzione di rischiare la vita, avventurandomi per i canaloni della montagna, col rischio di finire travolto dalle acque, che scorrevano incontrollate.

    E che cosa avrebbe dovuto fare un uomo che, pur non volendo, si trovava improvvisamente catapultato in una situazione non prevista, dalla quale avrebbe voluto fuggire, senza averne la benché minima possibilità?

    Su questa questione meditavo, in cerca di una soluzione, il più possibile celere ed immediata. Ma quando, poi, mi accorgevo che non ce n'erano di percorribili, allora mi allontanavo col pensiero ed attraversavo il confine, netto ma sottile, che divideva la materia dallo spirito, finendo per trascendere.

    Quante volte mi ero trovato in situazioni simili? Spesso mi era capitato di affrontare circostanze sgradite o, peggio, di capitare in contesti che non volevo e che mi calzavano stretti, aggravati dalla triste consapevolezza che non esistessero vie d'uscita.

    Ed era proprio in quei momenti che tornavo ad incontrare Dio. Diversamente da quanto era accaduto in precedenza, durante il pasto, quando avevo cercato l'Altissimo, spinto dalla necessità di lodarlo e ringraziarlo; nei momenti di sconforto mi avvicinavo a Lui in cerca di soccorso e di sostegno.

    Omaggiarlo, quando la gioia era tanto grande da non poterla contenere oppure invocarlo, quando il dolore e l'angoscia erano così struggenti che ogni soluzione umana risultava inutile ed inefficace: era questo il mio utile credo. Era questa la stortura spirituale che mi portavo dietro: cercare Dio dove non c'era, fra le gioie e i dolori di questo mondo, come se avessero a che fare con Lui.

    E così lo cercai; e pregai affinché mi aiutasse e mi sostenesse; affinché mi concedesse il coraggio di rimettermi in marcia ed affinché portasse via, una volta per tutte, quelle nuvole, foriere solo di disperazione.

    E mentre pregavo, i minuti e le ore passavano inesorabilmente ed arrivò il pomeriggio. Me ne accorsi poiché il bagliore del sole stava scemando ed anche la temperatura tornava ad abbassarsi.

    Rinforzai così il fuoco e tornai ad indagare, con lo sguardo, l'intera mia prigione.

    Avevo dimenticato di esplorare quella ripida scala in legno, che scendeva attraverso il pavimento; e decisi di affrettarmi, rincuorato da una nuova speranza, anche se infondata, di salvezza.

    Accesi, pertanto, una delle candele, che stazionavano sul tavolo, e mi risolsi a scendere giù. C'erano cinque gradini molto stretti e dovevo stare attento a come appoggiavo i miei piedi.

    Con una mano mi aggrappavo alla scala, che scricchiolava paurosamente, e con l'altra sostenevo la candela, sforzandomi di guardare in fondo e capire, in anticipo, cosa si nascondesse là sotto.

    Raggiunta la base e lasciatami la scala alle spalle, si presentava difronte a me l'ingresso di una grotta, scavata nella pietra. Un arco in mattoncini ne circuiva l'ingresso e, nel punto più alto, era stata praticata un'incisione nel mattone.

    Avvicinai la candela: la scritta recitava "Magister". Incuriosito, attraversai l'arco e scoprii, con mia grande sorpresa, che la grotta si avventurava per un tratto in leggera pendenza a scendere, ma poi cominciava a salire. In alcuni punti erano stati realizzati dei veri e propri gradini in muratura, con tanto di corrimano in legno.

    La mia piccola candela, però, non mi avrebbe accompagnato per molto: così decisi di tornare indietro, al piano superiore, per cercarne delle altre.

    Ebbi fortuna e ne recuperai una manciata, appoggiate proprio sopra il camino, dentro una cassetta di legno, opportunamente riposta da un accorto frate. Le presi con me, pronto a tornare sotto per esplorare quell'antro. Ne lasciai soltanto una accesa sul candelabro. Ero consapevole che stava scendendo la notte e, se per qualche motivo fossi tornato indietro, avrei preferito trovare il chiarore della candela ad attendermi piuttosto che le tenebre.

    Indossai, dunque, la cintura e vi agganciai la mia spada. Mi avvolsi nel mantello, legai a tracolla la borsa con i danari e l'acciarino e, candela alla mano, tornai a scendere per quella scomoda scaletta.

    La grotta era lì che mi aspettava, fredda e silenziosa. Percorsi il primo tratto in discesa abbastanza agevolmente: il pavimento, tra l'altro, era stato lavorato con lo scalpello, proprio per evitare che fosse scivoloso. La cosa più strana era che, nonostante le pioggia abbondante, la grotta fosse completamente asciutta: questo mi faceva pensare alla bravura ed al genio di chi l'aveva realizzata: non capivo se, effettivamente, si trattasse di rocce impermeabili oppure se erano stati progettati dei sistemi di drenaggio molto efficienti.

    Arrivato nel punto più basso, prima che il percorso prendesse a salire, trovai un gancio rudimentale in ferro battuto, sapientemente incastrato nella roccia, al quale era appesa una tunica marrone, abbastanza pesante, in lana di pecora.

    La tunica era in discrete condizioni e perfettamente integra. Pensai, ancora una volta, ai monaci della montagna: qualcuno l'aveva abbandonata lì. Notai due piccole tasche sui fianchi e, nella condizione in cui mi trovavo, non ebbi scrupoli a frugarvi dentro. In una erano riposte tre monete d'argento; ma non era il denaro di cui avevo bisogno in quel momento, per cui riposi le monete al loro posto. Nell'altra, invece, era conservato un foglio di carta ingiallito, attentamente ripiegato più volte su se stesso. Lo aprii immediatamente, facendo attenzione ad appoggiare la candela sullo scalino, e mi piegai su me stesso per leggerne il contenuto e sfruttare quel poco di luce che avevo a disposizione.

    Si trattava di parole scritte con calligrafia attenta e raffinata:

    "Venerando Abate Villanova,

    Vi scrivo con celerità la presente comunicazione, in quanto non possiamo più attendere oltre.

    Sono profondamente sconvolto dalla vostra ultima lettera e dalla gravità della questione che sollevate.

    Se, come sta scritto, i tempi sono prossimi alla fine e la Salvezza sarà privilegio di pochi, allora non possiamo esitare.

    Siamo chiamati a procedere ed a metterci in salvo: solo in questo modo potremo servire ancora Nostro Signore.

    Vi garantisco che conosco molto bene questa montagna e i suoi sentieri. Sarò io la vostra guida lassù ove, in base allo scritto in Vostro possesso, verranno spalancate le porte della Salvezza.

    Non dobbiamo farci scrupoli o remore in tal senso. Non accadde lo stesso a Noè, quando costruì l'arca?

    Tutti gli altri, che siano i confratelli o il papato di Roma, periranno, com'è già accaduto ai tempi del diluvio. Alla loro anima, se meritevole, provvederà il Signore. Che siano maledetti, altrimenti!

    Il conte Verdi Massacci è già informato e d'accordo con me: è pronto a procedere, non appena Voi lo riterrete opportuno.

    Affido questo messaggio ad una persona fidata, inviatami personalmente dal conte: vi prego, rispondete immediatamente e solo affidandovi alla stessa persona. Non possiamo permetterci alcun rischio e non c'è più un minuto da sprecare.

    Confido nella Vostra risolutezza d'intenzioni.

    Il libro in vostro possesso, l'appoggio militare del conte e la mia conoscenza della montagna sono facce diverse della stessa moneta: la moneta con cui riscatteremo la nostra Salvezza.

    In fede,

    Abate Bisanzi Corradi"

    Compresi, non solo che quelle parole fossero disperate, ma anche che nascondevano qualcosa di terrificante, in procinto di accadere. Ma, stando chiuso in quella grotta, senza sapere né come né perché, il mio interesse prioritario si concentrava su come trovare una via di fuga a quella scomoda situazione.

    Così ripiegai il foglio e lo riposi nella tunica, senza attribuirgli troppa importanza.

    La lettera dell'abate sviò, in questo senso, ogni mio dubbio: la grotta era al servizio dei monaci e, quindi, potevo provare a risalirla e scoprire dove mi avesse condotto: magari proprio al monastero o presso un altro rifugio. Almeno, all'interno dell'antro, non pioveva e avrei potuto camminare abbastanza comodo e spedito.

    Mossi alcuni passi e, successivamente, mi fermai: forse era meglio prendere con me quella tunica. In caso di freddo o di pioggia, mi avrebbe riparato e fatto molto comodo. In una situazione diversa, non ne avrei approfittato ma credo che, se un monaco mi avesse visto in quelle condizioni, non si sarebbe certo rifiutato di soccorrermi.

    Così tornai indietro ed afferrai la pesante veste sotto braccio, il sinistro, evitando che venisse a contatto con la candela che sostenevo con la mano destra. Incamminandomi, notai che quella cavità non faceva altro che risalire la montagna, ma da dentro. Era sicuramente una via di comunicazione che i religiosi utilizzavano per gli spostamenti e che li metteva al riparo da occhi indiscreti e dai capricci del tempo.

    Camminai a lungo, inerpicandomi su per la salita, attento a non battere la testa nei punti più bassi. Essendo io abbastanza alto, dovevo mantenermi leggermente chino in avanti e questo un poco m'infastidiva.

    Nel frattempo avevo già cambiato tre volte la candela, quando raggiunsi una sorta di spazio pianeggiante e più largo: diciamo una cavità naturale che i frati, scavando, avevano intercettato. All'interno sibilava anche una piccola sorgente d'acqua che scaturiva da una roccia. Questa correva per un paio di metri e poi tornava a nascondersi dentro un'altra faglia, aprendosi letteralmente un varco nella pietra.

    Approfittai, dunque, per rifocillarmi: avevo con me ancora un po' di quel pane e del formaggio. Desinai, bevvi di quell'acqua fresca e dal sapore quasi sulfureo e mi appoggiai su una roccia allungata e quasi piatta. Mi addormentai per un po', lasciando però la candela accesa e continuando a serrare nel pugno la mia spada.

    Quando mi destai, avevo smarrito la cognizione del tempo e non avevo idea di che ora fosse: avevo intrapreso l'esplorazione della grotta quando stava facendo notte, al rifugio, poi avevo camminato, forse, per un paio d'ore abbondanti. Non sapevo, tuttavia, per quanto tempo avessi dormito.

    Mi svegliai perché turbato da un sogno estremamente reale.

    Avevo raggiunto la vetta della Montagna del Vento e mi trovavo in groppa ad un mulo bianco, brandendo in mano la spada. Dal mio punto di vista privilegiato, scorgevo il fianco più nascosto della Montagna, ovvero quello racchiuso nell'incavo del ferro di cavallo disegnato dalle rocce. Il pendio scendeva giù scintillante, quasi argentato. Era notte, infatti, e sopra di me splendeva una grande luna piena. I fianchi rocciosi scendevano, quasi arrotolandosi, formando una sorta di U. Al centro nel punto più basso, le rocce, levigate da un ghiacciaio quasi del tutto sciolto, formavano una valle dolce e protetta. Alla base giaceva un piccolo lago, le cui acque erano lievemente increspate dalle carezze del vento. Intorno a me regnava il silenzio, interrotto piacevolmente dalla voce delicata di una cascatella. Questa, da uno degli speroni rocciosi che incorniciavano la valle, precipitava per una ventina di metri giù nel profondo dello specchio d'acqua adagiato sul fondo.

    Stavo contemplando quella meravigliosa natura notturna, quando il disco lunare, tutto d'un tratto, parve incrinarsi.

    Un po' come quando si colpisce, repentinamente e con un oggetto appuntito, la superficie di uno specchio. Allora, tutta l'immagine, riflessa nel vetro, viene sconvolta da sottili crepe le quali, come serpenti infinitamente affilati, scompongono la figura in tanti tasselli, rendendola simile ad un mosaico.

    Sta di fatto che un boato infranse il silenzio e, dalle fratture che si erano appena formate, incominciò a filtrare qualcosa di rosso. Le crepe lunari si allargavano e da ogni faglia fuoriusciva qualcosa di liquido che assomigliava al sangue. Anzi, ahimè, si trattava proprio di questo.

    Una moltitudine di rivoli color rosso granato affioravano sulla superficie, interrompendo il velo di luce dorata: tale visione era paragonabile, direi, ad una moneta d'oro che qualcuno si era divertito a graffiare con un punteruolo arrugginito. Trascorsero pochi minuti e non restava più nulla di ciò che era prima la luna: un disco rossastro galleggiava nel cielo mentre gocce di sangue raggrumo iniziavano a staccarsi e precipitavano verso la terra. Così ebbe inizio un temporale mai visto: il sangue mi scivolava addosso e potevo sentirne l'odore intenso ed inconfondibile, mentre tutto ciò mi dava la nausea. Scivolai giù dal mulo su cui sedevo, caddi a terra e mi risvegliai in un bagno di sudore.

    La mia mano era ferma sull'impugnatura della spada; intorno a me era buio in quanto la candela, che avevo lasciata accesa, si era consumata del tutto, riducendosi ad un moccolo di cera scomposto.

    Accesi subito, servendomi dell'acciarino e della pietra che avevo preso nel rifugio, una nuova candela; e tornai a guardarmi intorno.

    L'acqua continuava a gorgogliare e ne bevvi ancora un po' per rinfrescarmi il palato. Difronte a me, il percorso, scavato dai monaci, riprendeva il suo tragitto, nuovamente in salita. Due scalini piuttosto alti erano stati scolpiti nella pietra marmorea: di lì la parete di roccia era stata letteralmente bucata ed erosa, riaprendo nuovamente un tratto ascendente, piuttosto basso e ancora più scomodo del precedente.

    Salii, a fatica, i due gradini e mi piegai, su me stesso, per accedere all'ambiente ove l'altezza era ridotta. Percorsi, in seguito, un paio di metri in salita ed arrivai in prossimità di un bivio.

    L'antro si divideva in due: uno correva a destra, ripido ed ascendente; a sinistra, invece, il percorso si faceva pianeggiante per poi degradare dolcemente. I due accessi erano stati scolpiti, per così dire, dalla stessa mano ed erano stati abbelliti e rinforzati con una cerniera ad arco in mattoncini rossi. Nel punto più alto di tale volta, al centro, era stata incastonata una pietra bianca e levigata: su quella di sinistra era stata incisa la dicitura "Aqua e su quella di destra stava scritto Domus".

    Non mi soffermai troppo a lungo a riflettere e fui subito attratto dalla prospettiva della comoda discesa: pertanto intrapresi il sentiero di sinistra.

    Avanzavo sempre leggermente piegato, ma con passo agile e svelto, appoggiandomi, nei punti più scoscesi, alla roccia. La via, aperta dai monaci, si faceva poi più ripida e sembrava avvoltolarsi su se stessa, proprio come un'elica, fino a quando diventò così scomoda ed ardua che i costruttori avevano pensato, bene, di realizzare una vera e propria scala in muratura. Quest'ultima, assumendo la classica forma a chiocciola, proseguiva la discesa all'interno di un cratere, quasi del tutto verticale e somigliante ad un vero e proprio pozzo.

    Iniziai, quindi, a comprendere a cosa alludesse l'indicazione "Aqua": si trattava, in tutta certezza, di una cisterna a servizio del monastero.

    Convinto che non avrei trovato nulla che potesse essermi d'ausilio, iniziai ad accarezzare l'idea di tornare indietro ed intraprendere il sentiero sulla destra. Ma, proprio mentre stavo per voltarmi, scorgetti in un punto lontano, nel buio, un chiarore che veniva da destra: non era certo una candela come la mia la cui fiamma, nella tenebra, emetteva una luce debole e soffusa, invisibile già solo a pochi metri di distanza.

    Si trattava, al contrario, di una breccia nella roccia, ovvero di una sorta di finestra o di porta che conduceva all'esterno. Questo significava che là fuori era di nuovo spuntato il sole e che, probabilmente, non pioveva più, vista l'intensità di quel bagliore.

    Cominciai a correre tanto veloce che quasi mi girava la testa e, scalino dopo scalino, mi sentivo più vicino alla salvezza la quale, in quel momento, passava necessariamente da quella luce ignota e misteriosa.

    Fu così che giunsi sul posto: in effetti la scala terminava in quel punto. Il pozzo, invece, scavato in verticale nella roccia, proseguiva la sua discesa in profondità.

    Proprio laddove insisteva l'ultimo gradino della scala, era stato edificato in mattoncini un arco, che sosteneva una carrucola di legno, attorno alla quale era avvolta una corda legata ad un secchio. Avevo raggiunto la cisterna vera e propria. Alla mia destra, invece, si distendevano solo pochi metri di grotta pianeggiante, i quali mi dividevano dall'esterno. Mentre mi avvicinavo all'apertura, scorsi un fazzoletto di cielo azzurro e il fianco grigio roccioso della montagna. Oltrepassai quella soglia ma, con mia grande delusione, mi accorsi che non mi avrebbe condotto da nessuna parte: l'estremità terminale dell'antro si affacciava, infatti, su una sorta di terrazza naturale, appoggiata sul fianco di un ripido dirupo. Difronte a me, così come alla mia destra e alla mia sinistra, la montagna offriva il suo volto più inaccessibile ed impervio. Centinaia di metri di burrone si snodavano, in basso, a perdita d'occhio. Alle mie spalle, la situazione non era migliore: la parete stessa, su cui si affacciava la grotta, costituiva un monolite verticale di roccia granitica, che saliva fin su a toccare il cielo. Non c'erano vie di fuga per me, se non tornare indietro. Mi accasciai a terra, sulle ginocchia, ed invocai Dio: domandai a Lui, con le lacrime che mi bagnavano gli occhi, il motivo di tanta sofferenza. Ero solo, smarrito, nessuno sapeva dove mi trovassi e, ahimè, nessuno se lo stava domandando e sarebbe corso a cercarmi.

    Nel corso del mio breve vissuto di quarantenne, non avevo mai intessuto legami importanti con uomini e donne. Avevo sempre trascorso un'esistenza appartata, se così si può dire, a proposito di una persona che, per mestiere, è sempre in viaggio.

    Il mio, infatti, era un nascondersi in movimento. I lunghi, continui e rocamboleschi viaggi di lavoro mi allontanavano dal rumore delle città e dal disordine dei luoghi di aggregazione. Le strade, grazie al cielo, costituivano lunghi luoghi di eremitaggio, interrotti ogni tanto da qualche villaggio e raramente da una città. E, a me, non mancava nulla nel mio peregrinare. Di certo non conoscevo la noia, poiché percorrevo ogni giorno valli solcate da fiumi; attraversavo gli stessi corsi d'acqua su ponti di pietra o legno; mi arrampicavo su per le montagne, per poi discenderne i fianchi; ammiravo albe e contemplavo tramonti. Combattevo col brutto tempo; gioivo delle belle giornate e delle notti di luna; mi divertivo d'estate ad accamparmi nei campi pieni di lucciole; e mi capitava di affrontare la morte quando, in inverno, mi sorprendeva una bufera di neve.

    Dormivo per castelli, fra una commissione e l'altra, oppure mi capitava di soggiornare nei conventi, nelle taverne o di accamparmi nelle stalle o nei prati, quando la stagione lo permetteva.

    Godevo dei frutti della natura: quante more, susine selvatiche, grappoli d'uva mi si offrivano lungo il percorso! E quante volte i castellani o gli stessi monaci m'invitavano alle loro tavole ricche ed imbandite!

    Certo, in tali occasioni conviviali, non ero solo e sapevo, anche, approfittare della compagnia. Mi piaceva, dopo giorni e giorni trascorsi in solitudine, poter finalmente godere dello stare insieme. E, la condivisione del buon cibo e dell'ottimo vino, era la forma di socialità che di gran lunga preferivo.

    Credevo proprio che l'essere umano avesse la necessità di condividere, almeno in certi periodi della propria esistenza, la propria interiorità. Questo avveniva con tempi, modi e conseguenze diverse da individuo ad individuo. Il livello più alto ed impegnativo stava nei sentimenti che univano le persone. Amore ed amicizia comportavano un vivere comune in cui opinioni, pensieri, inclinazioni, gioie, dolori e piaceri si fondevano e mescolavano, proprio come colori sulla tavolozza del pittore. Nascevano, in questo modo, nuove sfumature e tonalità, inedite tinte e soluzioni cromatiche a cui gli individui coinvolti potevano attingere, come pennelli, nel dipingere la tele delle proprie vite. Soltanto in questa maniera nascevano, pertanto, capolavori assoluti, unici ed inimitabili, decisamente più complessi e sfaccettati, perché frutto di emozioni che, in solitudine, i soggetti non avrebbero mai sperimentato.

    Io, dal mio canto, non cercavo, tuttavia, queste forme di condivisione, ma mi accontentavo di un livello molto più basso: assolutamente non negativo o inferiore. Semplicemente un condividere meno profondo ed complicato: quello del cibo e dell'alcool.

    Desinare con qualcuno, a tavola, assurgeva ad un atto comune ed inclusivo. Credo, tuttora, che non sia un caso se anche Nostro Signore abbia scelto il Rito del Pane e del Vino per esprimere il senso più profondo della Chiesa, intesa come comunità di credenti, legati gli uni con gli altri, dalla stessa corda invisibile che li rende partecipi di Dio.

    Amavo, quindi, trascorrere delle serate in compagnia di coloro che capitavano sulla mia strada: che fosse il duca o il castellano, o i frati che mi offrivano la cena, oppure un pastore con cui mi accampavo sui prati nelle notti d'estate o, anche, un compagno appena conosciuto, in una qualsiasi taverna.

    E, mentre il cibo rassicurava i commensali, soddisfacendo il bisogno primario della fame ed inducendoli a rilassarsi ed a lasciarsi andare; il vino faceva il resto, solleticando la fantasia e la spontaneità, sciogliendo e liberando prima i pensieri e quindi la lingua, dai freni più timidi e rigidi della ragione.

    Avevo, così, i miei momenti di protagonismo in cui ciò, che avevo dentro e avevo accumulato nel corso degli ultimi viaggi, sgorgava come acqua di sorgente. Ed andavo in solluchero quando mi accorgevo che qualcuno beveva e si appagava alle mie fonti.

    Talvolta, al contrario, lasciavo che fosse l'estro di qualcun altro ad intrattenermi: mi ponevo in ascolto, felice di compiacere il mio interlocutore e crogiolandomi fra le pieghe delle sue parole.

    Tali stati d'animo andavano e venivano; cambiavano e si rinnovavano nel corso della stessa serata. Tutto ciò mi bastava e non sentivo il bisogno di stringere ulteriori legami con nessuno: non cercavo l'amicizia e non inseguivo l'amore.

    Con le donne, ammetto che ero piuttosto schivo: non che non ne fossi attratto, anzi, a volte mi capitava di contemplare delle tali bellezze e di condurle via con me, in viaggio. Certamente, non nella realtà ma nella fantasia.

    Accadeva, sovente, che la sera m'infatuassi di una dama conosciuta nel corso del convivio. In tali momenti, provavo dentro di me attrazione e curiosità, ma non mi spingevo oltre e tutto si riduceva, esternamente, ad uno scambio di parole e sorrisi mentre, dentro nel profondo del mio cuore, scoppiava un incendio d'emozioni. Non soffrivo per questo, ma era esattamente quello che volevo e che auspicavo da una serata.

    Il giorno dopo, alla partenza per una nuova commissione, avrei conservato il ricordo, esteticamente piacevole, e l'emozione, intimamente struggente, legata a quel viso, e li avrei portati via con me.

    Questi mi avrebbero tenuto compagnia per giorni e per notti: con quella dama avrei condiviso prati fioriti e tramonti; con gli occhi di quel viso avrei guardato il cielo, per scoprire cosa c'era di diverso rispetto a quando lo facevano i miei.

    Ma, poi, i giorni passavano e, come in un sogno, mi svegliavo una mattina e ricominciavo a vivere in solitudine: ad affrontare quella realtà che mi pareva più semplice quando camminavo da solo.

    Era, il mio, un vivere semplificato: due occhi, due mani, due braccia, due gambe, due piedi ed una sola testa ed un solo cuore. Aumentare questi numeri mi sembrava proprio una pazzia: già una testa ed un cuore entravano spesso in collisione ed ogni scelta passava attraverso una mediazione complessa, che portava ad un compromesso, non senza conflitti e rimorsi.

    Ciò mi accadeva spesso: trovarmi difronte a delle scelte e scoprire, sempre, con chiarezza quale soluzione partoriva il mio cervello e quale proposito, contrariamente, mi palpitava nel cuore.

    Legarsi, cosicché, ad una persona nell'amore od a più individui nell'amicizia, avrebbe significato amplificare tali voci contraddittorie. Queste avrebbero inevitabilmente e confusamente risuonato, ogni volta che si sarebbero dovute affrontare delle scelte comuni. Ed è proprio da ciò che io rifuggivo.

    Coltivavo, difatti, il timore di una vita trascorsa nell'irresolutezza, che mi avesse condotto all'incompiutezza. Come se decidere, sempre e solo per me stesso, mi stesse conducendo verso qualcosa di compiuto e sensato: nella convinzione, giusta o sbagliata non saprei, che nella mia soggettività albergasse il senso, la causa ed il fine di ogni mia azione.

    Comunque mi sono dilungato troppo, uscendo dai binari della narrazione, smarrendomi in un mare di riflessioni e perdendo di vista, come un marinaio inesperto, la rotta che conduce alla terra. Mi scuso con l'incauto lettore e riprendo, proprio, dall'immagine di me stesso: fermo, in ginocchio e in preghiera, sul ciglio del precipizio.

    Ad un certo punto percepii qualcosa, puntato alle mie spalle. Laonde, una voce da anziano tuonò: «Non muovetevi oppure siete morto! Guardate, che non scherzo affatto; piuttosto chi siete?»

    Fui sorpreso: dopo tanto tempo trascorso in solitudine, era la prima voce che sentivo e, nonostante le minacce, ne fui quasi sollevato.

    «Mi chiamo

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