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DEL VENTO e altre storie: La mia infanzia in Sardegna
DEL VENTO e altre storie: La mia infanzia in Sardegna
DEL VENTO e altre storie: La mia infanzia in Sardegna
E-book117 pagine1 ora

DEL VENTO e altre storie: La mia infanzia in Sardegna

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Info su questo ebook

La Sardegna che l’autrice descrive non è quella patinata delle spiagge alla moda ma il mondo rurale degli anni Sessanta.
Di quel mondo e di una bambina si parla nei venti racconti che compongono questo libro.
La vita in uno stazzo fra le colline, le cose di tutti i giorni (ma non per questo banali o noiose), il grande amore per gli animali e la natura, le persone sagge e generose che l’hanno cresciuta: ogni racconto è un atto d’amore per un’isola molto amata e mai dimenticata, un viaggio nella Sardegna più vera e affascinante. Affreschi di paesaggi ventosi, rocce misteriose, tradizioni e cibi, personaggi mai dimenticati: ogni aspetto di quella vita è un ricordo dolce e indelebile.
E alla fine del libro ci chiederemo perché quella bimbetta, cresciuta per “conto terzi” da una famiglia gallurese, con nessun giocattolo e pochi amici, parla della sua infanzia come di un periodo pieno di felicità. Ma basterà la sintesi di un passaggio del racconto “Pomeriggi d’estate” per capire il perché di quella gioia di vivere: “Quei pomeriggi erano uno spazio completamente mio, un’oasi di libertà che mi consentiva di decidere in totale autonomia del mio tempo e dei miei pensieri”. E in quella libertà la bambina sognava creando mondi immaginari.
Solo a una certa età, quando curiosità e smanie di carriera si sono attenuate, riusciamo a comprendere che il posto migliore in cui vogliamo e possiamo vivere è quello che ci fa sentire tranquilli, a casa. Un luogo dove la nostra inquietudine si placa e che ci trasmette benessere e serenità. La Sardegna per me è tutto questo. [...] E forse è proprio vero che non siamo noi a scegliere i luoghi ma sono i luoghi che scelgono noi”.
LinguaItaliano
Data di uscita29 giu 2018
ISBN9788861557482
DEL VENTO e altre storie: La mia infanzia in Sardegna

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    DEL VENTO e altre storie - Argia Granini

    Argia Granini

    DEL VENTO

    e altre storie

    La mia infanzia in Sardegna

    Collana Girovaghi 8

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

    commerciale@giraldieditore.it

    info@giraldieditore.it

    www.giraldieditore.it

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    ISBN 978-88-6155-748-2

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2018

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Questa è una storia di fantasia, i personaggi potranno evocare immagini o associazioni di idee, è uno degli scopi della narrativa, ma non hanno nulla a che fare con la realtà.

    Ogni coincidenza con nomi o fatti è da considerarsi casuale e non voluta.

    Per quanto riguarda l’orrore, quello del mondo reale, nessun libro potrà mai eguagliarlo.

    L’orrore ci accompagna tutti i giorni, ne siamo talmente assuefatti da non riuscire neanche a riconoscerlo, è tutto intorno a noi, ci intingiamo i biscotti tutte le mattine, prima di uscire nel mondo.

    Ringraziamenti

    Al giovanissimo novantenne che ha arricchito con la sua prefazione il mio libro, un affettuoso grazie per l’amicizia di sempre e per tutte le cose che da lui ho imparato. Ti ringraziiggju Luca.

    E devo ringraziare anche Mario Scampuddu, vicepresidente dell’Accademia della lingua gallurese che ha accettato di leggere in anteprima i miei racconti per supportare la mia memoria di quei tempi e per aiutarmi con il gallurese.

    Un grazie particolare anche a Lina Pintus che ha risvegliato ricordi olfattivi con le sue sublimi ricette.

    Al poeta Santino Cuccu che mi ha dedicato una poesia dopo aver letto il mio manoscritto, un affettuoso e commosso grazie.

    E infine un riconoscente ringraziamento ai miei quasi cugini Aldo, Antonio, Piera e Donatella e al mitico Pietro Pruneddu, pastore contadino ma anche appassionato lettore e poeta.

    Prefazione

    di Luca Goldoni

    Una volta, durante un’intervista, mi chiesero: «Indichi un aggettivo in cui si riconosce». Così a bruciapelo, non so perché diedi quella risposta (forse la pescai fra i meandri del subconscio). Dissi: «Influenzabile».

    Come spesso mi accade, soltanto a posteriori trovo la motivazione di una reazione istintiva. Così misi a fuoco la mia influenzabilità.

    Analisi numero uno: se faccio lo scrittore, lo devo al mio compagno di liceo Sarre Molossi, figlio del direttore della Gazzetta di Parma, e portatore sano del virus del giornalismo. Mi contagiò obbligandomi a collaborare al giornalino di classe, scritto con la stilografica (la biro non esisteva): L’eco della prima B, della seconda B e così via per le otto classi del Ginnasio-Liceo Romagnosi di Parma. Tante volte ho pensato che se Molossi fosse stato figlio di un sindacalista, forse sarei diventato un Cobas.

    Successiva influenza. Sono nato a Parma ma se ho cominciato la mia carriera scrivendo di Romagna lo devo ad alcuni amici di Ravenna e di Cervia che mi hanno accompagnato fra i luoghi, le storie e le leggende di quel pianeta.

    E vengo all’influenza specifica che è all’origine della mia prefazione. Conoscevo la Sardegna per sentito dire quando la mia sorte professionale incrociò quella di Argia Granini, collega in carta stampata di sorprendente vitalità.

    Sono tanti anni che Argia vive a Bologna, ma un tenero cordone ombelicale la lega alla Sardegna; infatti per una serie di vicende familiari, pur essendo figlia di padre emiliano e madre toscana, ha trascorso l’infanzia presso una seconda famiglia che più sarda non si può, e che l’ha cresciuta per conto terzi, adottandola senza timbri burocratici.

    È Argia che mi ha trasmesso le magie legate alla gente e alla terra di quest’isola. Ho riletto il diario di uno dei miei primi viaggi.

    Esco allo svincolo di Perfugas e proseguo per Bulzi. Guido piano, perché questa è una campagna particolare. Ogni tanto, sepolta in una valletta tra le querce, o eretta su un dosso fra gli olivastri, si staglia una visione che mozza il fiato: una piccola basilica del 1000, le pietre bianche e nere del romanico-pisano, la facciata col rosone, i capitelli morsi dal maestrale, il campanile con il traforo delle bifore e delle trifore.

    È come imbattersi in un Giotto abbandonato dietro una siepe. Ma qui non è giusto parlare di abbandono: questi stupefacenti fantasmi sembrano piuttosto appartenere al loro contesto, immutato nei secoli. Niente parcheggi, chalet, rivendita di souvenir o pompe di benzina, come a Sant’Apollinare e Pomposa. Ma ventosi orizzonti disabitati, un lento spiralare di corvi, un remoto scampanio di pascolo.

    Dopo qualche chilometro arrivo a Sedini, dove abita Gavino: ci conosciamo da poco tempo, sono diventato un parente che capita ogni tanto dal Nord con una scatola infiocchettata: lui ha una testa fiera e rotonda, da antico romano, e della sua famiglia fanno parte una moglie minuta e gentile, tre figli e un grosso trattore che lo aiuta a campare.

    Sono mesi che non ci vediamo, che c’è di nuovo? Gavino mi risponde in sardo: «L’unica noidai è chi emmu autu l’ea». Non si rassegna al fatto che in tanti anni non ho fatto progressi e che deve continuare a tradurre: Di nuovo c’è che abbiamo trovato l’acqua.

    Una trivella è scesa a cinquanta metri e ha sprigionato un altissimo zampillo. Tutti sotto a ballare, fradici e festanti, li si vede nella foto ricordo. Neanche nel Texas si esulta così; qui, se si deve aspettare l’acqua dal cielo, passano anche intere stagioni.

    Farika, la moglie, ha cucinato il porcetto e la mazza frissa, cioè panna ottenuta dal latte di capra. Dopo cena parliamo di frumento, il raccolto è stato avaro, ma il mio amico non indulge all’antico lamento contadino, non piange su quello che è stato, parla sempre di quello che verrà e adesso è Natale, ci sono i porcetti e gli agnelli da vendere.

    Vado a letto presto, mi faccio chiamare alle cinque: mi piace salire con lui fra il bosco sulla collina, per il pasto degli animali. Individua subito la mucca gravida che forse ha partorito durante la notte, ma dal ventre non si capisce. Allora le scosta la coda e tasta le mucose con le sue dita grosse ma aggraziate nel gesto professionale. Scuote la testa, nessuna indicazione. Allora si abbassa, saggia i capezzoli fra i polpastrelli e si apre in un soddisfatto sorriso: ha poppato!

    Chissà dove ha lasciato il vitello, anzi dove l’ha nascosto. Ci guardiamo attorno, il cocuzzolo del monte è accidentato, rocce e macchia mediterranea con alti cespugli di cisto e di lentisco. Bisogna trovarlo in fetta perché c’è la volpe. E che ci fa la volpe con il vitello? «Lu lotti si li magna la lingua», e lo condanna a morire dissanguato. E se non c’è la volpe, c’è la cornacchia. Dopo la volpe, è il nemico più implacabile: si appollaia sulla groppa della mucca gravida, le rende un servizio perché le becca le zecche, ma, più furba di una gazza, aspetta che spunti il vitello con le sue ossa ancora tenere, gli buca il cranio e gli succhia il cervello, bevendoselo come un uovo.

    Bisogna quindi individuare subito dove è il neonato. Ma il territorio, dicevo, è vasto e mosso. Allora dice che ritornerà dopo col cane, è un sistema sicuro. Il cane abbaia e allarma la madre, che trotterella verso l’anfratto in cui ha rintanato il vitello. Bisognerà stare attenti nel portarglielo via, perché questa non è razza bruna alpina: è sarda, gelosa, pronta a caricare come un toro.

    Imparo che la capra è schizzinosa, muore di sete piuttosto che bere acqua torbida, non passa se c’è una pozzanghera, mentre la pecora ci va dentro. La pecora inoltre non soffre il freddo, anche se è tosata, mentre la capra, che ha sempre tutta la sua lana addosso, è freddolosa, si imbuca in una grotta quando arriva il maltempo. Se scoppia un incendio, tutto il bestiame fugge, meno la capra, che ipnotizzata dal fuoco, si lascia bruciare.

    Il mio amico ha una fune arrotolata a una spalla, come un lazo: quando all’uscita di casa gli avevo chiesto a che serviva, non mi aveva risposto. «Si ti l’aristi ditta, no saristi venutu», se te l’avessi detto

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