Il grande dì
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Anteprima del libro
Il grande dì - Enea Maroccolo
Ringraziamenti
La pietra e il tempo
I
In quei giorni sembrava che il deserto cercasse d’impressionarmi. Nella solitudine tra le dune, le sensazioni e i pensieri cominciavano a subire forme che m’intimorivano.
Mi ero allontanato dalle abitudini che avevo sentito per molto tempo consone e deliziose. Ero quindi spaventato. L’isolamento non mi aveva mai sconvolto, nemmeno agli inizi. Invece stava crescendo e s’insinuava il desiderio d’avviarmi verso l’orizzonte. Sentivo poi una voglia di pesce e di navigare.
Solo per necessità avevo interrotto la mia desertica astensione dal mondo, concedendomi temporanee visite presso alcuni villaggi. Quel tempo strano invece mi portava una malinconica necessità di sentire i suoni delle grandi città situate sui fiumi, davanti ai mari. Il ricordo del profumo dei porti echeggiava in me in maniera insolita. Il mio distacco freddo da qualsiasi desiderio non aveva mai oscillato così. Aveva dapprima cominciato tentennando parecchio. Poi era svanito, lasciandomi perplesso su quanti giorni erano passati dai primi sintomi. Nella mia mente, la fine di ogni frase si spezzava e i pensieri si seguivano. Il loro destino era limpido: nessuna logica soluzione avrebbe impedito a quelle sparpagliate sensazioni di manifestarsi al cuore. Percepivo un suono saturo in me. Un’energia possente si attorcigliava attorno al mio essere, atta a un solo scopo: il mio ritorno dal deserto. Definitivo forse. Come se non bastasse un’ironica nota si sparpagliava nella mente, per gettarsi nella bocca in una risata solitaria. In realtà il mio era un ghigno crudo come le vertebre squarciate di un manzo.
Tornare dal deserto, la mia casa madre, non era una domanda che mi ponevo. Era semmai una dominante. Nello spazio della mia mente osservavo quanto stavano svanendo i ricordi più recenti. Mi allontanavo così dall’unico motivo che mi aveva tenuto lì per anni: la mia incolumità. Quello che prima era stato un bene si manifestava come un dolore nel petto. Il mio spirito di pietra si stava facendo spremere, come un ratto avvinto dalla morsa di una serpe strangolatrice.
C’era qualcosa di rituale in quel percepire. Le conclusioni della mia coscienza lo riconoscevano. Difatti, quel dolore che sentivo, era una chiara manifestazione: non stavo più seguendo il fine del progetto, il disegno del creato. Quindi se volevo ritornare presto a riprenderlo dovevo seguire la sensazione dominante. Anche questa volta.
L’idea di andarmene dall’unico posto che mi aveva protetto non mi piaceva. Il riflesso di quel pensiero mi segnava il viso, all’ombra del mio cappuccio. Sentivo i muscoli della faccia tendersi e schiacciarsi attorno agli occhi, in una smorfia di dolore. Tutto quello che avevo vissuto nel deserto, era bastato alla mia salvazione dalla morte: ma la voce della creazione mi voleva fuori di lì. Insistente.
Mantenevo un solo credo nei confronti dell’avvicinarsi di questo nuovo viaggio: non farmi riconoscere. Questo lo avevo esercitato per forza di cose, anche dietro le dune. Uscire dal deserto, per andare dove mi dettava la forza, era una cosa: farmi prendere di nuovo era ben altro. Vivevo come un’eremita. Comunque mi spostavo tra le genti. Ero ad appena un paio d’ore di cammino da Petra, in mezzo ai due mari e non lontano dal Sinai. Oltre le dune avevo trovato un piccolo avvallamento roccioso e una piccola grotta che mi faceva da casa. Nel tempo, la capacità di avvicinarmi ai villaggi senza rivelarmi, lungo le vie carovaniere, si era consolidata. Mi sapevo ben confondere. Mi disperdevo appena gli eventi e la mia volontà lo disponevano. Sghignazzavo sulla stupidità di chi m’inseguiva attratto dalla luce che m’avvolgeva. La necessità di recuperare cibo spezie e altro si trasformava da sopravvivenza a gioco. La permanenza tra le sabbie mi costringeva a farlo ogni due cicli lunari. Quando mi recavo nei piccoli villaggi lungo le trame delle carovane mi sentivo emozionato. Il tutto finiva tornando nelle placide e gobbe mammelle della casa madre. Però sapevo che, una volta allontanatomi da quello spazio protettivo che mi ero creato, la morte e la tortura mi avrebbero inseguito senza dubbio.
Rimasi fermo ancora per una manciata di giorni, circuendo il sole e la luna con lo sguardo e con variazioni di me stesso sempre più consistenti. Poi si manifestò un altro bisogno: togliermi di dosso la fuliggine di tutto il passato. Nelle tenebrose serate dove il vento soffiava tra le dune divenute ombre, mi vedevo sempre meno capace di lasciare che i paesaggi, lontani da li, si manifestassero senza di me. Sentii inoltre il richiamo del Giordano. Il suo ricordo mi sovvenne fulgido: era come se lo vedessi dove in realtà frusciava la sabbia. Sulle sue rive avevo passato momenti indimenticabili. Sapevo che se avessi per primo raggiunto il fiume, dopo sarei stato pronto a spostarmi di nuovo sulla buccia della terra. Con il vigore necessario che dava il flusso delle sue acque.
L’idea di falsare le mie abitudini conquistate con tanto dolore mi rendeva comunque nervoso. Più passava il tempo e più mi spaventava questo impulso di abbandonare la casa madre. Decisi così che dovevo muovermi con calma, seguendo per prima la strada della purificazione del corpo.
Non mi mossi di un palmo, seduto sulle mie gambe, fin che non ne potei più. Poi mi spogliai dalla pesante veste e lasciai che il mio fisico si spurgasse. Il mio ricordo è rimasto vago a proposito del tempo che passò prima che ritornassi a riprendere il controllo. Nudo, tra la sabbia rovente del giorno e il vento freddo della notte, lasciai che il limite della mia resistenza trapassasse. Andai oltre quello che potevo, quasi a rischiare di decompormi li. Quando decisi di riprendere i movimenti, mi lasciai rotolare giù dalla duna dove stavo. Fino in fondo. Poi mi rialzai in piedi. Ero avvolto