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La Paginetta
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E-book807 pagine9 ore

La Paginetta

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Info su questo ebook

Gli eventi, le aspirazioni, i sentimenti di una persona nell’intero arco della sua vita e l’eco di una città dai primi anni Sessanta ai tempi nostri: piccole memorie di un’esistenza giornaliera nel grande flusso della storia. Le possiamo leggere nel vissuto di un uomo che ha conservato le riflessioni della sua quotidianità, dalla giovinezza alla terza età, nelle quali ciascuno può confrontarsi perché sono gli atti abituali e gli interrogativi di sempre.
LinguaItaliano
Data di uscita19 nov 2019
ISBN9788893781954
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    Anteprima del libro

    La Paginetta - Paolo Rumor

    intenzionale.

    Prefazione

    Nel corso della vita adottiamo i più diversi comportamenti in risposta a ogni genere di circostanza. Qualcuno di questi, per il semplice fatto di venire ripetuto spesso, assume a volte col tempo un significato secondario del tutto scollegato da quello iniziale e continua a essere compiuto in forza di quest’altro motivo che è divenuto prevalente sul primo. Ci troviamo così a percorrere di preferenza certe vie della città in cui abitiamo solo perché vi passavamo da giovani ed esse si sono caricate di ricordi, o a sostare sulla panchina di un viale dove sedevamo con un nostro caro che è scomparso, o a compiere itinerari particolari frequentati in un certo periodo della vita, a indossare abiti e a servirci di oggetti come se questa ripetizione obbedisse a un richiamo intrinseco. Spesso ci sembra di farlo solo perché crediamo di ripetere gesti divenuti abitudinari ma, se ci fermiamo a ragionare su ciò scopriamo presto che, ben nascosto tanto da non essere quasi più percepibile, il motivo reale di quell’impulso consiste nella necessità della mente di riprovare una sensazione che molto tempo prima era stata importante per lei, o di riattualizzare una situazione che anni addietro aveva originato quel sentimento. Questa reiterazione é ciò che gli psicologi chiamano un rito, comportamenti che quasi tutti compiono più o meno senza accorgersi, dettati dal bisogno di ammorbidire le durezze della vita, di allontanare pericoli inconsci o anche solo di tornare ad assaporare momenti di piacere o di calore umano del nostro passato, cosa di cui avvertiamo in un modo o nell’altro l’esigenza nelle profondità dell’intimo.

    Questo meccanismo consuetudinario si é consolidato nella mia esistenza relativamente all’abitudine di scrivere spesso qualcosa, senz’altro motivo che di esprimere degli stati d’animo. Erano i primi d’agosto del 1960 e avevo quattordici anni, la terza media appena conclusa. In vista del Ginnasio il mio papà aveva ritenuto di stimolarmi a una maggiore padronanza nella scrittura, anche se non mi sembra che in questa materia io fossi carente perché ricordo che già alla fine delle scuole elementari il maestro mi aveva elogiato nel componimento. Ma tranne che per la forma o lo stile della stesura il trapasso dell’età richiedeva l’elaborazione di pensieri più maturi, perciò lui mi aveva invitato a scrivere ogni giorno una paginetta in forma libera, come suggeriva la mia mente, così da acquisire scioltezza e soprattutto profondità espressiva.

    Lo stimolo a migliorare ciò che lui considerava una mia immaturità concettuale e comunicativa emerge infatti da alcune note che mi faceva a matita in qualche passo, come quella del dieci agosto ’60, quando concludevo il terzo brano dicendo: ...Finora nulla di interessante: la vita quotidiana si svolge senza interruzioni e domani forse avrò qualcosa di più vivo da scrivere. E lui di fianco a matita: Che sforzo! Ricordati che il vivo è quello che hai dentro tu, non ciò che ti balla intorno.

    Da quell’estate di cinquantasette anni fa ho continuato a stendere una pagina o qualcosa di più al giorno, e per molto tempo la intitolavo proprio così: Paginetta, con accanto la data. Quest’esercizio avrebbe dovuto protrarsi per una periodo limitato, appunto per migliorare la mia capacità espressiva ma, in forza dell’abitudine ormai acquisita col passare del tempo, dell’affetto sottaciuto per il padre che rinnovavo con quell’adempimento postumo, della sua presenza interiore che continuava ad ammonirmi inconsciamente anche dopo la sua scomparsa, sono rimasto fedele alla consegna nonostante fosse cessato da molto lo scopo originario; infatti ho proseguito fino ad oggi nello scrivere le mie note frequenti e alle soglie della vecchiaia custodisco con una certa sacralità i numerosi quaderni di Paginette, assolvendo più o meno settimanalmente all’invito che nel mio intimo suscita ancora il genitore scomparso da trentasei anni.

    Come dicevo, col passare del tempo quell’abitudine è divenuta un bisogno istintivo, anzi un piacere e in questo modo essa ha potuto persistere perché la necessità immediata si era dissolta poco dopo. I primi quaderni che ho scritto erano quelli d’uso comune fino agli inizi del ’65: in cartoncino nero con le pagine bordate di rosso e fissate con due semplici punti metallici, figli di una nazione sobria, o forse ero io che li preferivo perché sono sempre stato piuttosto abitudinario. Intitolavo invariabilmente ciascuno scritto: Paginetta, col numero progressivo sul lato destro, e ciò fino al dieci agosto del ’68, mentre il numero è scomparso il cinque luglio del ’69. La mia scrittura era ampia, non aveva ancora perso la rotondità della forma elementare; la lunghezza del testo era di una pagina e poco più, probabilmente perché prendevo alla lettera la consegna paterna di scrivere ogni giorno una paginetta. Il papà leggeva quei brevi componimenti perché trovo le sue correzioni a matita, qui e là nella forma e nei contenuti, fino al giugno del ’62, i miei sedici anni. Lui evidentemente teneva alla mia capacità letteraria e per quanto mi riguarda dimostravo di non avere pudori nell’esprimere con quelle piccole note giornaliere lo stato d’animo che vi era connesso. Ora un poco mi stupisco che non avessi riserbo di esternare i miei sentimenti, appunto sapendo che sarebbero stati letti dal padre, ma forse le interiorità più personali non le avrò travasate in quegli scritti, oppure semplicemente non avevo intimità di cui essere schivo, e questo probabilmente corrispondeva al carattere trasparente della mia giovinezza, aperto ai congiunti e ai terzi con spontaneità e immediatezza: é quello che mi causerà alcuni problemi nei rapporti successivi, perché sono arrivato alla soglia del mondo adulto un poco sprovvisto di quelle astuzie che in genere ogni giovane ha già elaborato dopo la pubertà. Ma questa limpidezza doveva inevitabilmente misurarsi con l’acquisizione di una personalità più articolata che intanto andava sviluppandosi dentro di me. Freud dice che la struttura psichica umana è immodificabile: magari in ritardo rispetto ad altri coetanei il conflitto edipico emergeva pure nella mia interiorità, mitigato dall’ambiente sociale e dissimulato da un’educazione confessionale: è ciò che io stesso manifestavo apertamente il 28 giugno di quell’anno quando mi chiedevo, ben sapendo che lui l’avrebbe notato: Perché queste mie paginette devono essere lette e corrette da qualcuno? A volte mi spuntano sulla penna delle sensazioni che chiedono di essere liberate trascrivendole sulla carta, ma devo trattenerle perché non mi piace che si sappia quello che penso e provo. È una chiara ribellione, una sorta di protesta a distanza nei confronti del padre nella quale si manifestava il mio desiderio di emancipazione appunto sbocciato intorno ai sedici anni, e un poco mi stupisco ora per il coraggio con cui l’avevo esternata perché io non avevo mai osato oppormi al genitore importante e rispettato dalla comunità civica. Tuttavia si è trattato di un fuoco di paglia e adesso riconosco quanto sarebbe stato piuttosto necessario che avessimo creato fin da allora un’intesa più matura, un rapporto più sincero e virile. Invece una sorta di impedimento nascosto, un inesplicabile pudore si è interposto poco per volta tra me e lui impedendoci di parlare nella verità. Questo l’ho capito molto più tardi, dopo che era scomparso, e ancora oggi non mi so capacitare che nella nostra famiglia, dove non mancava certo l’affetto, fosse così grande il ritegno a un dialogo autentico. Non è stata una cosa di poco conto: l’avviamento stesso del lavoro ne è risultato coinvolto e soltanto più tardi ho compreso quante cose avrei potuto impostare diversamente se vi fosse stata tra noi la confidenza, prima ancora del rispetto.

    Ho detto sopra che lui ha cessato proprio in quel periodo la correzione dei miei scritti perché dopo il giugno del ’62 non trovo più le sue annotazioni a matita: forse avrà capito che la cosa stava assumendo l’aspetto di una vera e propria invadenza della mia intimità e che questo rischiava di fare più danni che non la mia imperizia nello scrivere.

    Con gli anni i quaderni hanno cambiato copertina e si sono ammodernati. La perdita dell’intitolazione e del numero progressivo corrispondono alla discontinuità della mia grafia: la rotondità è andata svanendo dal ’66 a metà ’69, quando anche l’omogeneità dello scritto si interrompe bruscamente divenendo breve e spezzata, con tratti rapidi che riportano pensieri concisi, senza fluidità. È il periodo che coincide con l’acquisizione di un carattere personale e manifesta forse alcune perturbazioni che non riuscivano a filtrare all’esterno perché costrette da una fedeltà molto spiccata ai valori della famiglia e alle amicizie impegnate della comunità giovanile, o semplicemente perché ostacolate dal segreto timore di smarrire il mondo delle sicurezze intime. Il legame alle abitudini è stato un mio tratto distintivo: penso che denoti una fragilità interiore in cerca di rassicurazioni, e infatti per qualche tempo si è manifestato con quelle numerose ritualità che sono caratteristiche dei deboli o degli intolleranti. Oggi non ho pudore di riconoscere, nel mio attaccamento alle tradizioni in quel lontano periodo, l’espressione di un inconfessato timore ad abbandonare le certezze del nido domestico.

    Per tutti gli anni successivi, compresi quelli della maturità e oltre, questi scritti hanno mantenuto la forma del componimento breve, anche se spesso la dimensione si è fatta molto più corposa. Indubbiamente il rito di questi componimenti é l’ultimo residuo che mi unisce a quella figura e a quelle situazioni ormai così lontane, ma ora sento che può essere utile anche per far tornare alla vita una parte di me che se ne è andata giorno dopo giorno nell’inesorabile fluire del tempo. Perciò ho deciso di servirmi di quei quaderni per ridare corpo alle ossa rinsecchite del mio passato, un po’ come il profeta Ezechiele descriveva ai suoi compatrioti nel rammentare loro la resurrezione degli ultimi tempi. Nello stesso modo, ripescare i depositi della mente contenuti nelle mie paginette è come riattualizzare le situazioni e i luoghi della vita trascorsa, dar loro anima affinché ciò che è stato non sia completamente perduto. Qualcuno, leggendo in futuro questi scritti, farà rinascere qualcosa della mia esistenza e del piccolo mondo che ho descritto.

    Così prende forma l’intenzione di scrivere questo libro. Uso le mie Paginette per riunire ancora una volta la famiglia che non c’è più e per rivedere luoghi che oggi sono radicalmente cambiati. Infatti il tempo ha compiuto nel frattempo la sua opera: sono emersi nuovi modi di fare e di pensare, anche Vicenza è mutata, perciò devo ricollegare il presente al passato e viceversa, affinché non ci sia più un prima e un dopo ma solo un unico tempo e un’unica vita fatta di tutti coloro che sono stati e che sono. Assieme a loro anche i luoghi torneranno alla realtà e bellezza del tempo in cui li ho vissuti: così nel momento in cui alcuni leggeranno queste pagine saranno risanate le ferite che nel frattempo la modernità ha inflitto alle cose. In realtà questo non è un libro nel modo usuale di intendere: come ho spiegato si tratta di una vera e propria rivitalizzazione del mio trascorso, un modo per non morire del tutto, come esprime bene Eliade Mircea quando parla della riattualizzazione del tempo mitico (Trattato di Storia delle Religioni, Einaudi, 1954). Naturalmente io mi riferisco al mio mito perché per questa mente il tempo ricordato non è affatto una cronaca bensì un’epopea, come nelle storie che sono all’origine dei popoli. Che sia epocale il flusso della mia vita non c’è alcun dubbio, come lo é per ciascun altro uomo anziano: è quella sacralità che serve a proiettare la nostra singola esistenza in un’altra dimensione, a farci rimanere vivi fin che rimane il ricordo di ognuno di noi, grandi o piccoli uomini che siamo stati.

    Una selezione di quegli scritti è stata però necessaria: non potevo riportare anche quelli poco significativi, e in realtà scorrendo oggi le pagine, soprattutto del periodo iniziale, vedo come il papà avesse ragione nel prescrivermi una composizione quotidiana: le mie annotazioni dei primi anni sessanta erano spesso limitate alla descrizione dell’esteriorità, del quotidiano, con una scarsa elaborazione interiore. Le due classi del ginnasio che sono seguite all’inizio di questi componimenti giornalieri sono state per me particolarmente penose: la mia giovinezza si era scontrata con l’esigenza di un’evoluzione concettuale alla quale non ero preparato, forse trattenuto più a lungo per mia costituzione nel mondo della fantasia ove il pensiero dilagava ribelle alle pretese della ragione, e questa invece stava premendo per far fronte alle necessità della vita. Credo di riconoscere quella maturazione nel cambiamento della grafia e nella scomposizione del testo, intorno al 1966 come ho già detto. In effetti leggendo le annotazioni di quel periodo noto io stesso, prima di ogni altra cosa, la mente di un giovane che produce riflessioni via via più personali.

    Ho dovuto fare una cernita nei miei scritti anche per motivi di spazio: dall’anno ‘sessanta ne ho stesi migliaia, perciò ho estratto un gruppo che esprima nel modo più completo la varietà dei comportamenti e del pensiero del mio passato, oltre all’ambiente che costituiva il suo clima familiare.

    A volte la forma ha avuto bisogno di una qualche revisione, senza modificare nient’altro, perché il modo di esprimersi di un giovane, intendo certi particolari di stile, di lessico e di struttura, deve essere adattato alla mente di lettori adulti. Anche la riservatezza ha voluto la sua parte, io infatti non sono disposto a svelare gli angoli più personali: il riserbo della mia interiorità possiede dei confini invalicabili che ho rispettato.

    Il libro che ne è risultato conserva la struttura della narrazione interiore, ciascuna delle quali riporta la data in cui è stata scritta. Ho preferito lasciarla per tenerla ambientata nel suo momento, che è tuttavia un tempo presente per il motivo che ho detto: nel trasferirle esse rivivono come se le scrivessi ora: non certamente l’io di oggi ma quello di un ragazzo, poi di un uomo maturo, infine di un anziano.

    Vicenza, agosto 2017

    PRIMA PARTE

    Tormeno di Arcugnano

    È la casa paterna di campagna posta nel versante collinare di Costacolonna, quarto tornante, affacciata sulla pianura che vede metà arco delle montagne, si allunga per un buon tratto verso levante, si arresta contro il paese di Longara e il montante dei Colli Berici che si aprono come una quinta alla sua destra, nascondendo dopo i primi cocuzzoli lo specchio lacustre di Fimon. Si tratta di un podere con vigneto: un paio di campi a prato, siepi e alberelli vari, il viale che sale verso un roccolo abbandonato posto di là del cancelletto di confine, molti filari di viti con differenti tipi d’uva, un orto, il giardino e il cortile sterrato ombreggiati da castagni e pini marittimi. Nei lati che guardano la pianura e la campagna interna la casa è circondata da una lunga balaustra: sul versante di sinistra si stende il bosco che circonda anche la campagna della fattoria Bonora, nella valle sottostante. Sotto, la frazione del Tormeno.

    L’aveva acquistato il nonno Domenico tra le due guerre, poi era rimasto al papà nella divisione del patrimonio con gli zii. Ci abitiamo nei mesi estivi e di inizio autunno, dalla fine delle scuole alla loro riapertura ai primi di ottobre. Questo ci permette di condurre a termine la vendemmia che si compie intorno a metà settembre, a seconda della maturazione dell’uva che varia ogni anno, e le funzioni connesse che la prolungano. A volte rimaniamo anche fino a ottobre inoltrato. Il podere di campagna lo conduce a tempo ridotto il custode che abita con la propria famiglia al secondo piano e lavora in città nel Magazzino di Carta all’ingrosso gestito dallo zio Nicolò (detto Nilo), anche se io qualche volta ne parlo chiamandolo il contadino. Fra poco egli si trasferirà nella nuova casetta che il papà farà costruire vicino alla nostra, sul lato sinistro della proprietà, sbancando un tratto di pendio.

    In questa data, l’agosto del 1960, io sono un ragazzo di quattordici anni, coi miei fratelli Francesco, detto Cesco, di diciassette, e Domenico, detto Nico, di venti. Il papà, Giacomo, ha lo studio d’avvocato a Vicenza, sul Ponte Pusterla, ma non svolge più nessuna pratica forense perché dal dopo guerra è Presidente della Camera di Commercio, vicepresidente della Fiera Campionaria, della Cassa di Risparmio Verona Vicenza e Belluno, e ultimamente dell’Autostrada A4 Brescia-Padova ancora in costruzione. Perciò da molto tempo egli ha passato la sua clientela, principalmente nel settore agrario e previdenziale, a un collega molto più giovane che ospita nel proprio Studio, mentre lui ci viene ben poche volte, di solito per ricevere qualche persona in un ambiente meno formale rispetto a quello degli Enti che ho detto. La mia mamma, Rosa, ha cessato da tempo il suo insegnamento elementare ed è aiutata nella conduzione delle due case dalla domestica Edith che vive con noi da quando sono nato, nel ’46. A Vicenza, dove dimoriamo nel periodo scolastico, abitiamo in Contrà Mure Porta Nova, al n. 30, dietro il Giardino Salvi, un fabbricato piuttosto lungo e ampio che al piano terra e al primo ospita il Magazzino di Carta che ho detto, mentre al secondo piano, contornate da larghe terrazze, ci sono l’abitazione nostra e dello zio. Queste terrazze sono raggiunte da piante di glicine che salgono dal marciapiedi, agganciate al muro da giunti di ferro, e si spandono per sopra sostenute da una trama di fili formando una ragnatela di rametti che da primavera ad autunno costruiscono un piano compatto di foglie e ci ombreggiano consentendo di restare al fresco in ogni ora, quasi fossimo sotto gli alberi in campagna.

    ***

    8 agosto 1960

    È tarda mattina, sono stato ad acquistare le solite cose di ogni giorno giù in paese e ho ascoltato un brano di musica alla radio prima di scrivere queste righe. Sul tappetino dietro la porta accostata il gatto sonnecchia acciambellato, la coda sul muso, e per la sala non c’è altro suono che il ticchettio dell’orologio a pendolo; in lontananza un cane abbaia. La mamma è qui dietro, in cucina, sulla poltrona di vimini e consulta certi suoi appunti e ritagli per confezionare vestiti che sceglie nella raccolta delle riviste. Indossa la camicia a fantasia rosso arancione e sfoglia attentamente, con calma, qualche pagina; ogni tanto dice qualcosa alla Edith, parlando di lavori che sarebbe opportuno compiere, e lei risponde senza muoversi dal secchiaio dove sta lavando dei pomodori raccolti nell’orto, gli zoccoli ai piedi.

    Stavo pensando ai ragazzi, riprende (per lei noi tre siamo sempre ragazzi), perché quest’inverno hanno bisogno di qualche camicia in più: soprattutto Nico e Cesco. Ho visto che sono cresciuti di collo e di manica.

    Sì signora, ho visto anch’io.

    Dietro la finestra a bifora, sopra il glicine si vedono passare lentamente alti strati di nuvole bianche e vaporose; nella stanza penetrano a tratti piccole bave di vento fresco. Ieri era stata una giornata calda e solo verso sera avevano iniziato ad addensarsi certi nembi scuri: questa notte infatti ha piovuto. Il sole ora è scialbo e i suoi raggi, filtrando attraverso una cortina di nebbia, non hanno colore e illuminano la pianura dentro un’umidità sospesa. Sembra quasi un giorno di novembre, quando il cielo è di perla e grava sulla natura intristita. Mi piace starmene qui tranquillo, e se non fosse che devo terminare quello che sto scrivendo mi stenderei in divano a lasciare che la mente segua i suoi pensieri come faccio talvolta.

    Adesso la coda del gatto attraversa la stanza, alta e tremolante, indovino che lui struscia il muso sullo spigolo del tavolo, prosegue placido verso la cucina dove andrà a fare la gobba contro una gamba della Edith, intralciandola nei movimenti per farsi allungare qualcosa.

    Cesco dovrebbe tornare dalla città tra poco: è stato ad aggiustare il portapacchi della lambretta che slittava. Quest’aria leggera sa di gelsomino, quello che si arrampica alla ringhiera della terrazzetta e spande il suo profumo penetrante per tutta la casa. Fuori un calabrone ronza lieve sulla pergola, poi più niente. Passa qualche minuto, sento i passi della Edith su per la scala, ecco: adesso si direbbe che non ci sia più alcun suono e anche l’aria si è condensata in uno spessore nel quale le cose sono come annegate; leggera la mano della mamma sfoglia le pagine.

    9 agosto

    Ieri pomeriggio, subito dopo il breve piovasco, sentivo il bisogno di muovermi e non avendo altro da fare me ne sono andato attorno in bicicletta. Arrivato a Longara prendo sulla destra, di fianco alla chiesa, la strada bianca che sale verso San Rocco ma dopo poco diventa troppo faticosa con la mia bici senza cambio: ridiscendo, rifaccio lo stradone, giro a sinistra per Torri e imbocco la Militare che seguo per quel suo percorso di nuovo in salita, anche se più leggero dell’altro: ma non finisce mai? Sono tentato di tornarmene indietro un’altra volta e mi fermo anche, lì con un piede per terra, poi non me la sento di interrompere il giro: cosa racconto, che a metà strada ho mollato tutto? Però si sta così bene seduti sul muretto a godere l’aria mossa che sale dalla Val Ferrara! Ecco, adesso lascio qui la bici addosso al cordolo e mi stendo un poco più sopra, sull’erba secca della costa, tanto nessuno mi corre dietro! Si sentono le cavallette sfrigolare al sole: impara da loro Paolo, che si gustano questo caldo asciutto senza avere compiti di scuola da fare. Là sotto si intravede la Contrada delle Cenge e la canaletta che prosegue tra i campi mezza vuota, sfumando in lontananza tra i vapori che la fanno tremolare. Qualcuno batte un martello nella corte, forse affila la falce. Il dosso della costa indirizza l’aria della valle da questa parte e qualche rondine ne approfitta per farsi trasportare senza muovere le ali: salgono piatte, poi un leggero movimento del busto e guizzano nell’altro versante raggiungendo le compagne che volteggiano attorno al campanile di Lapio. Starei qui fermo senza pensare a nulla, ascoltando i suoni lontani e guardando il profilo dei dossi, in pace per una mezz'oretta, ma io so che non sono capace di oziare: perché devo sentirmi in colpa anche fuori di casa? Completo il tragitto attraverso il paese di Arcugnano, faccio il salitone di Villa Pasini a piedi perché la bici non si schioda, e poi più avanti giro dentro per Villa Margherita. La discesa di Costacolonna è veloce, soprattutto dopo il viale dei cipressi e se non sto attento rischio di scivolare sui sassolini della strada sterrata: ecco là in fondo il cancello di casa e il muso della Laika.

    Eppure questi giri non mi soddisfano, si rimane immersi in un mondo artificiale e le cose passano di lato senza poterle toccare e gustare come piace a me. Bisognerebbe lasciare la bicicletta al bordo strada, come ho fatto ieri, e spostarsi per una decina di metri all’interno, magari dietro una cortina di piante e si sarebbe subito in un altro ambiente, come stare lontano da ogni rumore e dalla gente. Ma poi si teme che qualcuno faccia un brutto scherzo e manca il coraggio di proseguire a piedi. Perché bisogna sempre guardarsi dagli altri?

    11 agosto

    Per la prima volta un cielo e un sole degni di Agosto, con quell’aria calda di piena estate senza nuvole in transito. Ma forse non ne avremo ancora per molto: ieri era San Lorenzo e, come dice il proverbio: San Vincenzo dalla gran freddura, San Lorenzo dalla gran calura, l’uno e l’altro poco dura. Speriamo. Oggi Cesco va a nuotare in piscina a Vicenza e fa bene, piacerebbe anche a me: chissà che la mamma me lo permetta!

    Il popolo delle cicale sul pino grande e su quelli laterali fa un chiasso penetrante, mimetizzate tra le rughe di corteccia scura: sembra una sola voce che emana da ogni anfratto, come se le piante emettessero un suono diffuso. Su questi tronchi si nascondono bene ed è quasi impossibile individuarle, invece sui noci e gli altri tronchi lisci si distinguono facilmente, basta osservare il profilo dei legni. Mentre sto scrivendo queste righe sul comodino di paglia di Vienna, seduto in divano, il gatto nero che viene dalla cucina salta sul quaderno e mi fa ridere: forse la penna che traccia questi segni è una gran curiosità per lui. Ora si avvicina l’altro, il fratello, e insieme se ne vanno rincorrendosi. Che simpatici, e pensare che la mamma non li apprezza: tutte così le donne?

    È ancora prima mattina, credo le otto e mezza, abbiamo fatto colazione e la Edith si prepara a scendere in paese per acquisti dal macellaio: ha parlato poco fa con la mamma che ha deciso cosa cucinare. È una faccenda di cui si occupa solo lei e non delega a nessun altro; io non ci capisco niente e quando vado giù a fare la spesa del resto guai se tornassi con qualcosa che non le garba! La scelta della carne è molto delicata e da quando Cesco ha passato l’epatite praticamente mangiamo solo cose di produzione nostra, tranne le fettine di vitello o di fegato o qualcos’altro. La Edith però sa che mi piace assaggiare qualche ritaglio di lardo salato e me ne porta un cartoccio che mi preparo a casa per conto mio riducendolo a pezzetti. Io vado giù più tardi per acquistare le solite cose di ogni giorno che mi toccano: pane, latte e burro dal lattaio e poco altro confezionato. Da quando in casa c’è il frigorifero, qui in fondo alla cucina, e non è tanto tempo, non occorre più consumare il cibo in giornata, perciò nel pomeriggio mi faccio il panino come piace a me, col burro spalmato e la pasta d’acciuga o la marmellata, qualche volta lo zucchero.

    In questo momento la moglie del custode attraversa il cortile e va a stendere il bucato sui fili di plastica dietro il vigneto, il catino sotto il braccio. Un vecchio scende a piedi la strada di Costacolonna canticchiando, la giacca di fustagno sulle spalle.

    19 agosto

    Questa mattina ci eravamo alzati col vento che fischiava contro le finestre, faceva sbattere le porte e tremare i vetri, ma la giornata ora è serena con un bel sole luminoso. Certamente quel vento era il residuo di un temporale lontano che ha ripulito l’aria, e infatti dalla finestra della nostra camera si vedevano distintamente le Pale di San Martino spuntare dietro il profilo dell’Altopiano. Il contadino ha portato via il gatto giovane, ma con molta fatica perché non si lasciava prendere: forse aveva capito che stava per emigrare. Mi dispiace perché era simpatico, ma se non si fa così avremo presto in casa i gattini. Per ora mi dovrò accontentare della compagnia dell’altro che è rimasto. Nulla di nuovo in giornata: forse andrò a fare una biciclettata o leggerò qualcosa o continuerò a legare i paletti della torretta che io e Cesco stiamo riparando sulla seconda biforcazione del noce. Non è una cosa difficile ma bisogna assicurarsi bene al tronco, poi occorre essere in due perché uno deve tenere la corda tesa: lui che è più bravo sta seduto a cavalcioni dei pali portanti mentre io dall’incrocio del ramo mi limito a tenergli il capo libero. Quest’estate mi sembra che stia mettendo una cert’aria da bulletto e si vede che ci tiene a farsi notare. Quando andiamo al lago in bicicletta si tiene il cappello di paglia a tesa larga con l’ala arricciata alla cow boy, poi in prossimità del pontile cammina come uno che la sa lunga; se c’è una ragazza intorno vedi che tira dritto indifferente ma poi gira gli occhi per sbirciare che effetto le fa.

    Sono le dieci e ho deciso di riprendere in mano il libro con la copertina rossa dei racconti di Renato Fucini: ieri stavo leggendo le pagine in cui lui descrive gli anni dei suoi studi giovanili, a Pisa, dal 1859 al 1863, e l’atmosfera della Toscana risorgimentale, i paesaggi della maremma, i borghi e la vita della nostra Italia in quel periodo fatale che ha visto la costruzione della nazione. Quanto siamo cambiati da allora, sembra un altro popolo, eppure non è trascorso che un secolo. Ci sono state anche le due guerre, e quando si pensa alle cose accadute in quest’arco di tempo paiono avvenimenti dell’antichità: invece li hanno vissuti il mio bisnonno e i suoi figli che vedo ancora nelle fotografie, giovani come sono io adesso, e quei momenti erano il loro presente, i fatti comuni che vivo anch’io nelle cose minute di ogni giorno. Passa il tempo nelle piccole faccende quotidiane e le settimane si sommano, i mesi diventano anni: anch’io ricordo come fossero di ieri certi avvenimenti che ho vissuto invece molto tempo prima. Nelle fotografie della raccolta la mamma e il papà erano ragazzi, e come sono cambiati ora!

    21 agosto

    Una domenica piuttosto afosa, le cicale che appesantiscono l’aria e noi siamo appena tornati dalla Messa a Monte Berico. Dal piazzale non si riusciva nemmeno a distinguere la pianura, tanta é l’umidità sospesa. Siamo passati per il chiosco e Nico si è affacciato al poggiolo che dà sul precipizio della valletta: io non sono riuscito perché ho paura del vuoto, ho dato solo uno sguardo tenendomi indietro.

    Mi raccomando ragazzi, diceva la mamma, non sporgetevi troppo. Poi siamo risaliti con calma per il marciapiedi fino al Museo del Risorgimento dove lui ci precedeva con l’auto. Poca gente intorno, i cittadini sono in vacanza ed è ancora presto per salire dalla città lungo i portici in vista della festa dell’8 settembre, soprattutto con questi calori. Due frati con la tonaca nera scendevano dalla casa dell’Ordine, le maniche rimboccate: non desiderano fare una nuotata al mare in questa stagione? Vestiti così sembra che non abbiano nemmeno gli stessi pensieri della gente comune: già, cosa può pensare un frate?

    Nel pomeriggio io e Cesco faremo un salto al lago che ci aspetta da qualche giorno: in questo periodo è tutto rigoglioso di ninfee larghe e grasse, ma noi andiamo al largo con la barca a quattro remi, nel punto in cui è del tutto libero e c’è sempre una leggera corrente increspata mossa dall’aria che scende dal canalone di testa dei colli perché sotto il bosco è più fresco. Eccoci lì che buttiamo il peso di cemento che fa da ancora, ci cambiamo in barca e ci tuffiamo stando a nuotare o a galleggiare intorno per lungo: a me piace guardare da mezzo al lago, schiena in giù e gambe larghe che fluttuano con le braccia libere come un tronco d’albero, e contemplare i boschi della corona che avvolge la valle. Sembra quasi d’essere al centro di un teatro con la scena intorno. Al mare non c’è un panorama simile e le onde impediscono di traccheggiare tranquilli. Qui invece il silenzio è profondo, l’acqua sembra verde e par quasi d’essere in un mondo a parte; si avverte appena lo sciacquio delle nostre bracciate, i richiami degli uccelli di palude, qualche voce dal borgo vecchio, e penso a quei nostri antichi che spingevano con un palo la canoa di legno scavato e pescavano in questi stessi luoghi per tornare col pesce alle capanne che sorgevano sulle palafitte presso la riva. Risalire in barca è sempre un po’ impegnativo: bisogna afferrare la poppa con le mani larghe e darsi una forte spinta con le gambe in acqua mentre le braccia sollevano il corpo; ma se la spinta iniziale non è sufficiente ci si trova con la pancia sul bordo come un sacco e non si va né avanti né indietro. Eccomi infatti a metà della manovra che cerco di far forza con le spalle e inevitabilmente sbilancio la barca: Cesco è in piedi che si sta asciugando avvolto nel telo di spugna colorata e dondola a gambe larghe e se non si siede subito va a finire che torna in acqua:

    Ciò ma sta ‘tento no? Lassa che me senta almanco! E io sono piegato in due che rido come un matto ma non riesco a muovermi, quasi un granchio attaccato a un sasso: lui mi tira per le spalle e rotolo dentro goffamente.

    23 agosto

    Sono salito con la Laika al cancelletto che sul campo in alto chiude la nostra proprietà, l’ho aperto con la chiave appesa al chiodo del pilastrino e ho proseguito fino al podere che fa il culmine del dosso. C’è il roccolo dove venivamo qualche volta da piccoli coi nostri genitori, di cui abbiamo alcune fotografie nell’album della raccolta: la mamma giovane, noi tre bambini, il papà tutto magro, affacciati alla finestrella. Ora il cipresso di lato l’ha mezzo avviluppato con le sue fronde, il resto è coperto di edera ed è abbandonato da molto ma si può salire ancora con la scaletta esterna di pietra. Dal piano di sopra mi sono affacciato alla finestra che guarda la pianura e si hanno le montagne sulla sinistra: è un paesaggio molto bello, fatto di campagne e punteggiato dai campanili dei paesi. In fondo s’indovinano le anse del Bacchiglione. Oggi l’atmosfera é velata per la calura del periodo ma credo che dopo un temporale, quando l’aria è tersa e trasparente, si possa vedere la linea della laguna: dicono infatti che la si scorge dal Monte Brosimo sopra San Rocco o dal colle di San Gottardo, anche se non ci sono mai stato.

    Se il cielo è pulito si distinguono tutte le pieghe delle montagne, come fossero qui davanti, e dietro il bordo dell’Altopiano spuntano il Cimon della Pala e la gobba bianca della Marmolada. Il papà dice che quando era ragazzetto di notte vedeva dalla città sui bordi di questi monti le vampe delle cannonate, al tempo della guerra con l’Austria, e nei momenti delle offensive sentiva un lontano continuo brontolio. Da qui si sarebbe potuto scorgere anche meglio la linea del fronte. Ora c’è una gran pace, sono seduto sulle pietre calde del muretto e me ne sto ad ascoltare lo sfrigolio delle cavallette di campo. La Laika si gratta, si lecca una zampa, scruta avanti con la linguetta mezza fuori per rinfrescarsi: chissà cosa pensa, cosa può pensare un cane? Poi mi guarda, si chiederà che intenzione ho e allora capisco che è impaziente di tornare.

    26 agosto

    Cesco ha cominciato gli esami di riparazione al Liceo Scientifico con la prova di italiano, seguirà quella di matematica e da ultimo gli orali. Secondo me dovrebbe andar tutto bene perché adesso è più preparato di questa primavera; la mamma però non è dello stesso parere, lei è sempre prudente nelle nostre faccende scolastiche. Se andasse male sarebbe proprio un caso di sfortuna o di stanchezza mentale, specialmente in matematica; se invece tutto fila liscio sarà festa in famiglia e la mamma per prima cosa metterà via la scatola delle fiale ricostituenti che gli somministra ogni mattina. Dunque non ci resta che sperare e accendere candeline al santo degli esami di riparazione.

    Ieri sono sceso con l’amico Remetto al podere dei Bonora, nella valle: era tanto che non ci si andava e il sentiero che praticavamo di solito è rimboschito fino a rendere molto difficile il passaggio. Anche la nostra sorgente é rimpicciolita, occultata da un frascame di erbe alte e dal terriccio accumulatosi durante l’inverno, eppure la polla d’acqua ha la stessa portata, rigogliosa e fresca. Per quanti anni abbiamo percorso questa valle fin da quando si era bambini, spingendoci fino all’ultima fetta di prato prima della curva di bosco che chiude ogni accesso? Ora però si sente che qualcosa è cambiato, non nei luoghi ma in noi due, e c’era dell’imbarazzo ieri, un modo di fare non tanto spontaneo senza nemmeno sapere perché. E stavamo lì senza riuscire a dirci niente, come se le tante estati trascorse nei giochi fossero un motivo di cui vergognarsi. Forse sentivamo di essere cresciuti, ma sono cose che non si riesce a dire.

    10 settembre

    Ogni estate sempre la stessa cosa: mi mancano i soldi per i miei acquisti e per andare qualche pomeriggio al Luna Park in Campo Marzo, e l’unico modo per procurarseli è quello stabilito col papà: compiere qualcuno dei tanti lavori che posso fare qui in campagna, quelli per i quali non è necessario il contadino, con le cinquanta lire di compenso stabilite per ciascuno. I lavoretti da fare sono molti: zappare attorno alle piante di fichi, segare i tronchetti di legna per la stufa o il focolare, annaffiare il giardino, dare l’erba ai conigli nelle gabbie, battere e raccogliere le noci ecc. Quelli più adatti a me sono l’annaffiatura e la segatura: ormai ho fatto l’abitudine a entrambi, perciò oggi stesso comincio a risanare le mie finanze. Ma ci sono due difficoltà: il cassone della legna in rimessa è troppo voluminoso per riempirlo con le mie sole forze; quanto all’annaffiatura non credo che la mamma accetti la proposta perché dice che il getto della canna sporca i muri esterni della casa e i gradini di pietra, quando la polvere è troppo secca, e io poi non ho il coraggio di chiederle il compenso del lavoro. Le cose si mettono male: penso che dovrò inventarmi un altro modo per guadagnare qualcosa per i miei divertimenti.

    Questo sabato è tornata un po’ la calura e stamattina sono sceso con Cesco alla sorgente dei Bonora: dopo tutta l’estate è ancora rigogliosa e butta la sua solita polla d’acqua fresca che va ad alimentare il fossatello che costeggia il campo di sorgo, bordeggiato da salici bassi. Non si resiste al piacere di stendersi sull’erba e berne qualche sorsata, ma ogni volta temo che mi salti in faccia un ranocchio perché so che si nascondono sott’acqua e tengono fuori solo gli occhi: sono verdastri e si confondono con le alghe del bordo, per questo prendo un rametto e frugo la mota del fondo, non si sa mai. Poi bisogna attendere che l’acqua si ripulisca dal limo in sospensione che va a defluire nella canaletta.

    Nel pomeriggio viene il dott. Plinio Cazzola, direttore della Camera di Commercio, con la moglie. Il papà, in tenuta casereccia (io so che gli piace mostrarsi nella versione agreste, come persona del popolo), spalanca il cancello e aiuta l’ingresso dell’auto facendo segno di parcheggiarla sul cortile.

    Buongiorno Direttore, fa la mamma ossequiosa.

    Cara Signora, fa lui accennando un mezzo inchino.

    I nostri figlioli Paolo e Francesco. Io e Cesco salutiamo come si deve in queste occasioni perché in casa ci tengono a mitigare la nostra selvatichezza. Non sono svelto a trattenere la Laika dall’alzare la zampetta contro il cerchione della ruota dell’ospite (lei lo fa come i maschi) e la mamma mi spalanca gli occhi piegando la testa. È un tipo precisino, coi baffetti a spazzola, ben vestito e di maniere forbite; la mamma in questi casi alimenta la conversazione coi suoi modi espansivi ma curati, mettendo i nuovi venuti a proprio agio e mantenendo nel contempo il clima su un tenore di garbata qualità. Infatti lei indossa un abito adatto all’ambiente di campagna, gonna ampia in fantasia, ma non si è fatta mancare la collana di perle come per sottolineare con discrezione lo stato: un particolare che può essere sfuggito all’uomo ma non alla sua signora. Il tono é di affabilità casalinga e credo che la moglie del direttore si sia rilassata sentendosi a proprio agio: chissà cosa immaginava, visto che in Camera il papà è considerato con sacro timore perché fa filare tutti senza tante cerimonie e non manca di alzare la voce (almeno è ciò che ho capito altre volte da certe confidenze dell’autista). Poi sono andati a passeggiare sul vigneto dove mi immagino il papà che espone i tipi d’uva e potrebbe essere Cincinnato che si compiace dei frutti del proprio podere, come altre volte. Indubbiamente la mamma possiede un’ospitalità innata (che magari le viene anche dall’ambiente familiare e scolastico di Brescia) e io credo che proprio per questo il papà inviti di buon grado persone di riguardo, sapendo di non avere quell’espansività salottiera che a volta occorre anche nei rapporti di lavoro. Dopo le presentazioni di cortesia Cesco mi fa segno di ritirarci perché pensa che noi due siamo di troppo, e forse ha ragione, eppure non sono sicuro che i miei non desiderino vederci in compagnia dei loro conoscenti. Sotto quest’aspetto Cesco è più selvatico di me.

    16 settembre

    Se si dovesse descrivere una giornata tipica di fine ottobre o novembre questo sarebbe il momento adatto. Sulla campagna, fino a ieri splendente di luce, é calato un denso spessore di nebbia; i suoni sono attutiti, qualche voce giunge non si sa da dove e qui in casa si avverte distintamente il ticchettio dell’acqua sul secchiaio di marmo della cucina. Sono le undici e il gallo canta, brutto segno: la pioggia è imminente, in effetti ogni tanto nuvole cariche perdono qualche goccia. C’è anche una leggera brezza che solletica la pelle sotto la canottiera e sposta leggermente le foglie cadute sul vialetto. In altri momenti tutto sembra fermo: nessun movimento degli alberi nel bosco o nel vigneto o qui in giardino, non un rumore. E tutti tacciono perché pare che discorrere rompa un incanto, o forse senza volerlo rispettano il silenzio che grava su ogni cosa. Ma non avverto quella malinconia di altre giornate come questa: viene voglia di lavorare, di rendersi utili. Io sto svolgendo i compiti per le vacanze, quando ho finito andrò in legnaia a segare bastoni e spero di liberarmi da questa pesantezza che incombe sulla casa. Cesco dove sarà? Prima l’ho visto armeggiare in rimessa con la chiave inglese e la catena della bicicletta: lui non riesce a star fermo e se non lo si sente vuol dire che ha trovato da aggiustare, imbullonare, smontare qualcosa: poi compare con la mani impiastricciate e va in cerca della benzina per sgrassarle. La mamma si è abituata a dargli un’occhiata prima di mettersi a tavola.

    19 settembre

    Ma pensa un po’, mi tocca di scrivere questa paginetta a intervalli perché il gatto bianco e nero vuole sedersi sul quaderno aperto. Da quando siamo venuti al Tormeno è cresciuto tanto che ormai è un vero gattone e, anche se un po’ viziato, è sempre una bella bestia. Fin che scrivo sua madre lo chiama da fuori e lui ubbidiente si precipita per la porta, non come noi che ci facciamo invitare due o tre volte. La monotonia del paesaggio non è cambiata: da qualche giorno la stessa pioggia sottile e insistente, sempre questo star fermi che costringe solo a leggere. Ma la pioggia qui in campagna ha un non so che di poetico, specialmente quando si accende il fuoco nel camino o nella stufa un’oretta per assorbire l’umidità: allora ci raccogliamo in casa, la mamma sferruzza nella poltrona a sdraio rossa sotto l’orologio a cucù e Cesco scrive qualcosa di scuola.

    Edith, mi sembra che la salsa di pomodoro non basti per la peperonata, vero? Cesco fammi una cortesia va là, andresti a prendere un vasetto di passata in cantina? E già che ci sei fa un salto nell’orto e stacca due bei peperoni e una cipolla grossa, dovrebbe essercene ancora qualcuna.

    Gli ultimi signora, ormai siamo avanti, l’ho visto ieri.

    Aspettiamo che il papà e Nico rientrino dalla città e io mi trovo imbambolato a fissare la fiamma bassa che si muove sui tronchetti, ogni tanto qualche piccolo scoppiettìo, la bava di schiuma che esce dal ceppo, la cenere dove covano i carboni consumati. Potrei stare qui una mezz’ora senza stancarmi, è come se qualcosa di vivo si muovesse lì davanti. A tratti sale dalla pianura, sordo e attutito, il rumore di una moto che passa la chiesetta ed entra in paese, poi ritorna il silenzio e sembra che la casa navighi nello spazio profondo, staccata da tutto il mondo. Ormai qui dentro si sta volentieri con qualcosa sulle spalle, ed eccomi qua che non posso neanche raccogliere le noci: sarà per un’altra volta.

    21 settembre

    E non usare il chiodo grosso altrimenti il palo si spacca per lungo, ah!

    Sempre così lui, morire se va bene quello che faccio. Siamo qui sopra la torretta del noce, io e Cesco, e cerchiamo di sostituire i pali di recinzione che rischiano di staccarsi dalla legatura di filo di ferro che si è arrugginita: o li sistemiamo oppure dobbiamo sfasciare l’impianto.

    Io dico che fareste bene a buttare giù tutto, dice la mamma che ci guarda da sotto con le mani sui fianchi, non è più sicuro e non si sa mai, mi fa paura quel palco: non vedete come si è imbarcato?

    Questo mercoledì dovevamo vendemmiare ma il tempo ancora una volta non ce l’ha permesso: vorrà dire che dedicherò il pomeriggio ai compiti, un poco trascurati negli ultimi giorni. Fuori c’è un vento sostenuto, ma non tanto da impedirmi di raccogliere le noci che ieri ho battuto. Per terra ce ne sono molte e con l’aiuto di queste folate avrò un raccolto abbondante. Invece al mattino ci svegliamo con una nebbiolina fitta e sospesa che invade tutta la valle, ed emergono solo punte di alberi e tetti di case sparse. Io mi siedo di traverso alla finestra della camera da letto e nel tratto di strada che porta a Santa Croce vedo passare biciclette con gente che indossa l’impermeabile, motorette e qualche carro; da quassù si domina questo mondo affaccendato che non manda voci perché siamo troppo in alto per poterle sentire, e la nebbia contribuisce a spegnere i suoni. Purtroppo con la gente passa anche il tempo e va alla svelta, troppo, e l’inizio della scuola è vicino; ieri non ci facevo caso pensando ai giorni che rimanevano, ma ora so che una settimana vola in un attimo e devo gustarmi gli ultimi giorni di libertà.

    23 settembre

    Ieri abbiamo vendemmiato l’uva nera del Pinot, sicuramente in ritardo rispetto agli altri anni, ma è maturata così. Per me é una giornata fra le più interessanti qui in campagna e ho impiegato tutta la forza dei miei muscoli per trasportare le ceste dalla metà superiore del vigneto fin giù alla rimessa, salire i tre gradini dello scalone di legno e versarle nella macchina che sgrana i grappoli, posata di traverso sopra la tina grande. Sulle tre del pomeriggio sono arrivati anche il vecchio compagno di scuola di Nico, Paolo Quaglia e un suo amico che hanno dato una mano a tagliare i grappoli e a portare giù le ceste e i secchi. Verso sera avevano le mani e i muscoli indolenziti perché non sembra ma trasportare le ceste su e giù per il campo con la carriola o il bigòlo è una bella fatica. Questa mattina ho raccolto le noci che restavano, ho scopato la scalinata e portato tutto nella concimaia: speriamo che il padron di casa sia finalmente accontentato. Mentre scrivo il cielo si rasserena e il sole ritorna dopo alcuni giorni a brillare, sembra meno intensamente di prima.

    26 settembre

    Ormai l’autunno ci ha raggiunto in pieno e consuma le cose belle che la primavera aveva creato. Da un pezzo la nebbia mattutina nasconde al risveglio le campagne della valle; altre volte la pioggia, anche se molto leggera, contribuisce a intristire le giornate. Mancano tre giorni all’inizio della scuola e ciò non mi rende affatto allegro perché sento che sto per affrontare un mondo nuovo dove tutto è sconosciuto: il Ginnasio, un Istituto dove sono passate le menti illustri di Vicenza e dove ci sono ancora i ricordi del papà e del cugino Mariano. Quella non è solo una scuola ma un’istituzione cittadina: ci vanno i giovani dai quali i genitori si aspettano grandi cose mentre io non mi sento di avere doti particolari. Già alle Medie ho dovuto prendere delle ripetizioni di latino, chissà cosa succederà col greco! E poi ci saranno le ragazze: Cesco dice che sono delle secchione ma io non riesco a figurarmi di averne una al fianco che magari mi prenderà in giro perché più brava di me. Mi consolo pensando al Natale, non solo per le vacanze sulla neve ma anche per quel senso di intimità che si forma nei giorni che lo precedono. Mi piace preparare il presepio, l’albero e più di tutto mi prende quella sensazione che si prova nei giorni che precedono le feste, quel clima d’attesa che elettrizza e cuce assieme tutte le piccole faccende giornaliere, come se nelle comuni attività si fosse insinuato qualcosa di speciale, diverso da ogni altra giornata. Poi a pensarci bene non c’è nulla di reale in tutto questo, solo l’idea che a Natale

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