Correva L’anno 2013-2014
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Recensioni su Correva L’anno 2013-2014
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Anteprima del libro
Correva L’anno 2013-2014 - Paolo Granticelli
Incubo
Inizi di luglio 2013
Prefazione di un libro mai scritto
Perfetto, dopo aver controllato tutte le misure di sicurezza necessarie si può cominciare a scrivere. Questo scritto, infatti, deve rimanere segreto, nel senso che non dovrebbe mai pervenire nelle mani di nessuno, cosa che mi auguro accada, ma soprattutto non dovrà mai essere associato al nome della mia persona reale. Ho deciso di dedicarmi a quest’opera per esprimere una particolare visione della realtà, o, piuttosto, un particolare rapporto dell’individuo con essa, rapporto che si rivelerà fuori dal comune e, probabilmente, queste, verranno scambiate per le parole di un pazzo, mentre leverò il mio cappello, o i miei capelli, a quegli intelletti che sapranno andare sotto i contenuti paradossali espressi per approdare ad una nuova concezione dell’esistenza.
Già il fatto di scrivere è contraddittorio in sé, o almeno per me; scrivere significa infatti attribuire alle proprie riflessioni due proprietà: la prima è quella di durare nel tempo, cosa che è del tutto positiva se considerata a livello soggettivo e personale, ma che, se combinata con la seconda, può portare ad un disastro, essendo la seconda la distribuzione al maggior numero possibile di persone. Per meglio spiegarmi potrei citare questo mio pensiero : Spero che questo libro sia capito da tutti e letto da nessuno
. Ovvero, la mia intenzione è quella di rendere partecipe una gran quantità di persone della visione della quale mi faccio portatore, ma spero anche che la mia opera rimanga del tutto sconosciuta.
Scrivere, infatti, causa in me un forte contrasto tra ciò che sono e ciò che vorrei essere, tema centrale del libro, sul quale mi limito ad accennare che il fatto di scrivere sia un qualcosa che sottragga l’individuo dalla riflessione su se stesso e all’individuo la riflessione su se stesso che viene stampata su carta: anche se si tratta di scrivere su se stesso, poiché risulta essere un’ attività, e, come tale, caratterizzata da un fine, che, specificamente, è quello del divenire qualcosa, o meglio di essere qualcuno, scopo che al contempo voglio raggiungere e voglio evitare a qualsiasi costo. Il fatto è che l’avere una finalità verso la quale tendere, come una funzione al suo limite, è consolatorio e sposta il significato dell’attimo presente nel futuro, causando l’effetto di una fune tesa e che, proprio per questa tensione, non può rendersi conto delle innumerevoli cordicelle sfilacciate che la compongono.
Proprio per questo mi auguro che questo libro non venga letto e che venga, come probabilmente avverrà, o scartato da un editore, oppure relegato in una soffitta, magari con una copertina nera, considerato come l’espressione delle parole di un folle, ma, al contempo, spero vi sia riconosciuto il mio genio e che mi porti ad un successo che riveli finalmente chi io sia. Non pensiate che questa situazione di frattura sia una tecnica commerciale di persuasione, anche se, in fondo, lo è, ma io non voglio che lo sia, e questo genera un turbinoso regresso all’infinito, che esprime il mio modo di essere e mette voi, lettori, davanti ad una scelta paradossale, cioè quella di leggere o non leggere, che implica anche un rapporto diretto con me, se avete capito di cosa stiamo parlando, altrimenti vi invito a rileggere dal precedente capoverso prima di continuare.
In altre parole, sto scrivendo ciò che vorrei non fosse mai letto, ma che pure riveli me stesso e la mia concezione della realtà umana, tant’è vero che quando, lo stesso giorno in cui cominciai questa prefazione, comunicai ad una persona a me cara, anzi forse la più cara, di aver appunto cominciato la stesura, e, dopo che questa mi ebbe raccomandato non scrivere a mano, per la mia pessima grafia, come del resto ho fatto, affinché potesse leggere il mio lavoro, gli dissi che tanto non lo avrebbe dovuto leggere per nulla; la domanda sorse spontanea: Cosa lo scrivi a fare?
. La risposta potrebbe essere sinteticamente questa: per vincere il Premio Nobel come autore anonimo, frase che rispecchia i forti contrasti dell’opera.
L’idea di cominciare a scrivere è nata in me dopo una rivelazione improvvisa il giorno 16 giugno, quando, facendo come direbbero gli inglesi, un bagno di sole
, mi accorsi della profondità dei miei pensieri, in particolare in uno stato a metà tra il dormiveglia ed il cosciente, e del fatto di avere molte cose da dire, che, con tutta probabilità, le persone che le persone normali definiscono normali e quindi felici di vivere la loro vita anonima, pensando che potrebbe sempre andare peggio e dimostrandotelo con esempi concreti, non avranno mai nemmeno sfiorato nel corso della loro esistenza felice.
Come già accennato, queste potranno essere scambiate con le parole di un pazzo, e più penso a quanti, leggendo appena la prefazione, oppure le prime pagine, o non compreranno il libro, o accantoneranno la lettura, più gioisco perché in tal modo quest’attività non mi fornirà, ne mi fornisce ora, né speranza né consolazione, ma, al tempo stesso, mi rammarico, più per loro che per me, come per chi non ascolta la lezione di un bravo maestro, sebbene di loro non mi interessi neanche una briciola, o ancora meno, e porterei questo come testimonianza della loro inferiorità intellettuale, della quale, tra l’altro, non necessito nemmeno di una prova, perché basta salire su un autobus o andare ad un aperitivo al bar o ad una cena con bruttezze truccate, per toccare con mano l’abisso che ora mi accingo a descrivere.
Inizi di luglio 2013
Racconto di una mattina tipica.
Era una mattina come tutte le altre, caratterizzata dai soliti rituali che affossano la vita. Dopo la sveglia alle sei e trenta, aver calzato le ciabatte posizionate vicino al letto in posizione strategica affinché l’azione d’indossarle non comportasse una qualche fatica, si diresse al bagno, dove dopo una breve e tragica occhiata allo specchio, svuotò la vescica, con facilità grazie alla preparazione
, la sera precedente, della tavoletta del cesso. Questa preparazione consisteva nell’alzare sempre, prima di andare a letto, la tavoletta sfruttando rigorosamente un unico quadratino di carta igienica (per ragioni ecologiche e di risparmio), per una sorta di ribrezzo e una volontà di mantenere intatta la propria persona.
Giunto alla cucina, dopo aver considerato quanto maledetto fosse il mondo e quanto dura la giornata che lo avrebbe aspettato, arrivò la prima vera e propria fatica della giornata, e cioè la preparazione della tazza di latte caldo. L’apertura dell’anta con la mano sinistra verso l’alto era ostacolata da una coppia di molle, bisognava poi estrarre una tazza con difficoltà, sia per la scelta della tazza in sé, che per l’estrazione della stessa, in specie se si trovava impilata sopra, e soprattutto sotto, altre. Inoltre c’era anche una limitazione temporale, poiché l’azione avrebbe dovuto essere il più veloce possibile, in quanto con la mano destra, simultaneamente, veniva aperto il frigorifero per estrarre il latte che sarebbe poi stato versato nella tazza, e tutto questo sempre per ragioni ecologico-economiche. La tazza produceva un fastidioso suono sul piano di vetro, arrecando ulteriore malumore, accentuato dal fatto che lo sportello dell’anta andasse trattenuto durante la chiusura, in specie nell’ultima parte di percorrenza del suo arco, per evitare ulteriori rumori nel silenzio mattutino.
Se l’aver preso la tazza e il latte e l’aver posto l’uno nell’altra si rivelava piuttosto seccante, veramente difficoltoso era il trasporto fino all’angolo opposto, al microonde, a causa delle oscillazioni del latte che se superava gli orli della tazza implicava imprecazioni represse nel silenzio mattutino. Una volta posta la tazza nel microonde, con il terrore di rovesciare il latte, con un suono vetroso e irritante, essendo la regolazione del timer avvenuta la sera precedente, bastava serrare con forza lo sportello, per metterlo in moto, a causa di un difetto dell’apparecchio, provocando quindi un ulteriore suono indesiderato nel silenzio della mattina. Importante considerazione era quella sugli oggetti al di sopra del microonde, di cui ne ostacolavano il funzionamento, era infatti necessario spostarli, e il pensiero giungeva a coloro che sopra ve li avevano messi.
Mentre il latte si scaldava, era solito aprire l’armadietto soprastante il microonde e prendere le fette biscottate, per poi frugare nel cassetto delle posate alla ricerca di un cucchiaino che non avesse aloni o imperfezioni, ricerca che talvolta lo portava a scartarne anche parecchi e produceva un fastidioso rumore metallico.
In seguito posava la confezione di fette biscottate sul tavolo e il cucchiaino sopra di esse, per preservarlo da un immondo contatto col piano nero della tavola, per poi finalmente sedersi. Solo allora si metteva le calze, che erano le stesse indossate dopo la doccia la sera precedente e poi poste sulla sedia prima di andare a letto. Queste, rigorosamente nere, dovevano essere perfette, ma molte volte non lo erano, poiché avevano dei punti dove il tessuto si riuniva, formando un grumo con estremo fastidio e allora le soluzioni erano due, o quella di scambiare le calze sui piedi, cosa che si rivelava particolarmente tediosa, soprattutto se a non andare bene era la seconda ad essere stata indossata e ciò implicava quindi che la prima venisse tolta, oppure, se così non avesse funzionato, allora l’unica soluzione era tornare in camera, con la difficoltà di scegliere le calze nere al buio e di limitare i rumori nel silenzio della mattina.
Se tutto andava bene, però, avanzavano circa quindici secondi rispetto all’impostazione del timer, e quindi si appoggiava all’angolo, con le gambe incrociate e cominciavano le scommesse. Il piano interno del microonde presentava, infatti tre raggi, che, assieme al piatto stesso, giravano, e davano l’idea di un giro del piatto. La scommessa con se stesso verteva su quanti giri avrebbe fatto il piatto prima dello scadere del timer, il che comportava, per il conteggio, un elevato grado di attenzione che terminava con uno shock, quando il timer scadeva con lo spegnimento della luce interna e un secco tintinnio, che lasciava un senso di amarezza.
Dopo aver riportato la tazza fumante, con il terrore di mollare la presa per la sua temperatura, fino al tavolo, cominciava ad aprire la scatola, imprecando dentro sé nel caso l’avesse trovata non chiusa con quella specie di etichetta per mantenere le fette croccanti. Al contempo venivano tuffati nel latte sia il cibo che il cucchiaino. Fetta inzuppata per metà, la prima, per una frazione minore la seconda, via via sempre meno, calando il livello del latte, fino alla quarta ultima, rigorosa; sempre meno inzuppate probabilmente in relazione al calo di temperatura del latte che comporta la diminuzione dell’assorbibilità delle fette, bianco mare con minute particelle infine. Terminava scolandosi il latte restante, per poi posare la tazza nel lavandino e le fette al loro posto, richiudendo con cura, come ogni mattina faceva, la confezione, e pulire il tavolo con un asciugamano dai fastidiosi schizzi di latte fuoriusciti dalla tazza.
Con passo incedente ritornava al bagno e, una volta accesa la luce, saliva la rabbia di Calibano. Piaga quotidiana, germinatrice notturna, di qua di là, perché colpire me, ormai sono un po’ vecchio, basta affliggermi, voglio la purezza. Preso lo spazzolino e il dentifricio dalla busta, l’operazione di lavarsi i denti era piuttosto complessa. Contrariamente a qualsiasi suddivisione dentistica, per lui, le due arcate di denti si dividevano in due ali esterne caratterizzate, ognuna da quattro settori, destra in alto, destra in basso, sinistra in alto sinistra in basso. Ogni settore aveva tre lati, interno, sotto ed esterno, da spazzolare con venti colpi esatti:
Unoduetrequattinseisettottovecicidoditrequacinsedciasetotoventi.
Mentre un discorso a parte era la parte centrale, infatti, per lo spessore quasi nullo degli incisivi e dei canini, i lati erano solamente due, da cui quattro regioni, centrointernosopra, centroesternosopra, centrointernosotto, centroesternosotto, peggio della politica italiana, con quel canino di Casini che gettava sempre dei sospetti di appartenenza. Sapeva, infatti che i denti più sporchi erano quelli che restavano a metà tra le fasce laterali e quella centrale, e su questi rimaneva dieci secondi in più: Unodutrequatcinseittonoveci. Raffinata nel corso di anni questa tecnica aveva una sola problematica. Il dentifricio è meno solubile all’inizio, quindi l’arcata iniziale verrà pulita meno, però alla fine è scialacquato, e quella finale pure, da dove parto destra sinistra, sopra o sotto, il centro deve essere il più pulito, in specie l’arcata superiore che è la parte del sorriso, che poi non mi servirà a nulla per quel che devo fare, quindi sta al centro in termini di tempo, va bene la settimana scorsa sono partito dai qui e arrivato di lì, oggi parto di lì e arrivo qui, non si sa, il dentista troverà carie… unoduetrequattinseisettottovecicidoditrequacinsedciasetotoventi.
Sputata una gran quantità di acqua e dopo un lavaggio sommario del volto che escludeva la fronte perché i capelli la coprivano e non c’era tempo di asciugarsi una mano con la quale sostenerli, e che aveva la funzione di ridurre ai minimi termini qualsiasi propria considerazione di pelle pseudopura, si asciugava, rigorosamente tamponandosi sempre con la stessa salvietta blu e verde, per non perdere quella costosa abbronzatura invernale.
Uscito dal bagno, prendeva i vestiti rigorosamente preparati la sera precedente sulla sinuosa linea del muro che dava sulle scale. Tintinnio di cintura sempre uguale.
Luce accesa al punto giusto, non bianca né nera, per ottenere massimo effetto sull’autostima, con regolazione millimetrica. Sei e quaranta, l’anticipo di oggi sulle sei e quarantatre, no, la sveglia a pendolo è indietro, troppo veloce, necessità di allungamento, oppure veloce io, o ancora pendolo veloce. Gettati i vestiti, allora cominciava a cambiarsi il pigiama consunto, o quello verdenero con squarcio caro sul petto, o quello azzurro, in grado di contenere due di lui, con buco inguinale.
Indecisione, prima sopra o poi sotto, per meglio inserire come sempre la camicia o la maglia nei pantaloni, per quella pressione su trapezio e petto che giova in sicurezza. Petto in fiamme di dolore, felicità, pump, bicipiti allungati, massacrati il giorno prima, normali senza dolore, senso di smarrimento, di perdita di tempo, poco crescita. Magrissimo (lapidario). Non è vero, filo di grasso che attenua le inserzioni tendinee dell’addome…rabbia, poco muscolo. Posa tirata, le braccia in alto, troppo piccole, per tirare l’addome, soprattutto gli obliqui e il Gran Dentato, mediocrità, non male, non bene: annichilazione del corpo. Tirata la cintura di Orione, tutta stelle, mancanza di cintura di Adone, repressione depressione, rabbia repressa, male fino agli obliqui esterni e non più sotto: poco crescita, vita troppo stretta, vita difficile.
Ancora in ciabatte si ritornava in camera. Odore di acqua dei fiori andata a male, terribile senso di calore e di perdita di sonno, che non viene durante la notte ma solo la mattina. Prendeva dalla mensola i suoi fantastici tre. Cellulare, rigorosi i Toni Bassi
, vecchio volutamente, rappresentante di animo proletario, tasca sinistra, I-pod, nuovo touch, per esigenza, contenente la scintilla della vita, simbolo di lotta e libertà, tasca destra, orologio, nero grande zarro portato sul polso destro senza un motivo, così, regalo dei diciotto, ricordo di affetti vani, ostacolatori di crescita personale e portatori di vita biologicamente felice: videogame degli ormoni. Il portafoglio non serviva: soldi non erano necessari, nemmeno documenti, e nemmeno la patente, purtroppo: meglio non rischiare di perderlo.
Si dirigeva nel ripostiglio dove lanciava le ciabatte direttamente dai piedi, per non toccarle, e prendeva le scarpe nere. Perfette Spider-Man cattivo, da nuove, ora incubi sfilacciati di vernice. Passi in calze. Al divano le indossava, sassolini all’interno, via, no, sfilacciatura della suola, noia alle piante. Allora si rialzava e si assestava sul nuovo equilibrio dei tacchetti, un’occhiata al volto per lui abbronzato con disprezzo, ricaduta sul divano. Angolo retto alle ginocchia, busto a centottanta, con lieve ripiegamento della testa..divano con schienale corto. Caminetto vuoto nitido, di marmo, freddo pastorale, sveglia di cetra, Apollineo nietzscheano, sei e quarantasei, buona ancora sei minuti, ma forse il pendolo è veloce. Mi dica di Petronio, scena muta…possibile? L’ignoranza dilaga nel mare della gente, distacco freddo come il marmo, via da qui aiuto America ahi, hai, ora va meglio; che differenza c’è tra l’essere e l’avere? Nessuna, o meglio quella che c’è tra l’essere ricco e avere molti soldi. Quarantanove, ancora tre minuti, rumore in strada, è quella prima. Cinquantuno andiamo, in piedi, no, ieri sono stato fuori troppo, si non si può rischiare zero ritardo, via. Spense le luci, prese lo zaino, classico, rosso, fin dalla prima elementare
, pesante, ingombrante, cammello schiacciato dalla tradizione, solo sulla la destra, più facile, la migliore come sempre, per quei pochi metri.
Scale bianche fredde ultima occhiata di sfuggita allo specchio sinistro sulla sinistra, visione orribile del profilo sinistro, il