Gli anomali oscuri
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Anteprima del libro
Gli anomali oscuri - Massimo Di Pietro
GLI ANOMALI OSCURI
di Massimo Di Pietro
Prima edizione: marzo 2018
Tutti i diritti riservati 2018 BERTONI EDITORE
Via G. Rossa - Zona Ind. S. Sabina, Perugia (Pg)
Bertoni Editore
www.bertonieditore.com
info@bertonieditore.com
È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi
mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata.
Massimo Di Pietro
GLI ANOMALI OSCURI
di Massimo Di Pietro
Prima edizione: marzo 2018
Tutti i diritti riservati 2018 BERTONI EDITORE
Via G. Rossa - Zona Ind. S. Sabina, Perugia (Pg)
Bertoni Editore
www.bertonieditore.com
info@bertonieditore.com
È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi
mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata.
Massimo Di Pietro
GLI ANOMALI
OSCURI
I
LA FESTA DI COMPLEANNO
Un vecchio che muore è una biblioteca che brucia
.
(Anonimo)
Sono le quattro del mattino e sono sveglio; dormo poco, forse per l’età che avanza, forse per i soliti pensieri, che vengono a rubarmi il sonno.
Accendo le luci, mi alzo e mentre appoggio sul fuoco la caffettiera, avverto lo sguardo severo del gatto che mi fissa dalla poltrona, infastidito dal brusco risveglio.
Il primo gatto si chiamava Carota, lo presi in casa tanti anni fa; era vecchio e malandato e morì quasi subito;
lo presi con me per mantenere una promessa fatta ad una persona che se n’è andata troppo presto; anche il secondo durò poco, venne il terzo e poi il quarto, che ora mi sta fissando, ostile, dal lato opposto del soggiorno.
La nostra non è una convivenza affettuosa; dormiamo in camere separate e per la maggior parte del tempo ci ignoriamo.
Sembra maldisposto nei miei confronti, sebbene lo rispetti e lo tratti con cura, ma bisognerebbe conoscere la sua opinione a riguardo; ho l’impressione che il problema tra di noi sia proprio la mancanza di comunicazione.
Mi aspetterei un po’ di riconoscenza, per avergli dato una casa, per fornirgli dei pasti decenti e per non averlo mai chiamato con quel nomignolo ridicolo che gli diedero alla nascita.
Mi sembra un gatto triste; forse immaginava una vita diversa, magari soffre di nostalgia, gli manca qualcosa, chissà, forse rimpiange proprio il ridicolo nomignolo.
A volte ci scambiamo qualche dispetto, ma vivere assieme è diventata un’abitudine e soffriremmo entrambi, ne sono certo, se per qualche motivo dovessimo separarci.
È ancora notte ma decido di scendere giù, a portare le buste dell’immondizia al punto di raccolta.
Scendo le scale e ripenso al contenuto dei sacchetti colorati che tengo tra le mani e di come l’ho ripartito; ho un fremito d’ansia al pensiero della scatoletta di tonno che non ho risciacquato ma sorrido e scuoto la testa al pensiero di quante preoccupazioni inutili tormentino noi anziani.
Indugio sul concetto, cercando di sostenerlo con altri esempi ma poi, puntuali, arrivano i soliti pensieri.
Tra una settimana dovrò festeggiare il mio settantaduesimo compleanno che, al solito, trascorrerò con la famiglia di mia sorella, figlie escluse, perché ormai sono grandi e quella sera avranno di meglio da fare e una buona scusa da inventare.
Uscendo dal palazzo mi fermo a respirare l’aria fresca della notte e cerco di focalizzare il momento della mia vita in cui questa ricorrenza si è trasformata dalla giornata più attesa dell’anno, ad un’inevitabile scocciatura intrisa di nostalgie e luoghi comuni.
No, sono ingiusto e come sempre tendo alla metà vuota del bicchiere: Claudia e Nisida stravedono per me e le mie nipoti mi adorano; persino i miei cognati, che all’inizio mi sopportavano, ora sono affettuosi con me.
Alla festa ci sarà la torta, con le candeline che, come da tradizione, dovrò spegnere tre volte di seguito.
Ci sarà qualche attimo di sincera commozione e come ogni anno tutti noi dedicheremo un pensiero speciale a nostro padre.
Ogni compleanno che riguarda la nostra famiglia evoca il suo ricordo perché lo consideravamo il più grande animatore di feste mai esistito.
Si chiamava Bruno.
Se ne andò tanti anni fa, in una notte d’inverno, quando delusioni e amarezze fermarono per sempre il suo cuore, lasciandomi nel dolore e nel rimpianto per quanto avevo perso erigendo tra di noi quell’assurdo muro.
Per quanto mi riguarda, la parola scomparso, riferita a mio padre, è priva di senso; lui non è scomparso, lui è sempre con me, si chiama Bruno e tra qualche giorno sarà l’ospite d’onore alla mia festa di compleanno.
Getto l’ultimo sacchetto nel bidone dell’umido e mi accorgo di essere spiato attraverso la persiana di una finestra, al secondo piano; sembra la figura di una donna, probabilmente anziana e insonne come me, che si ritrae appena alzo gli occhi verso di lei.
Accenno a un gesto di saluto e indugio, sperando che riappaia alla finestra.
Indugiare è sempre stata una costante nella mia vita; molte volte ho esitato, in particolare su questioni legate ai sentimenti.
Ho sempre vissuto in attesa di qualcuno o di qualcosa, che non è mai arrivato, e ora mi ritrovo solo, a vivere di ricordi.
Ciao amico!
mi grida dalla strada un ragazzo nero che passa veloce in bicicletta; credo di non averlo mai visto prima d’ora.
Gli rispondo ma ormai è troppo lontano per sentirmi: Ciao anche a te, vecchio mio
.
Non so chi sia ma è d’indole allegra e questo lo aiuterà.
Guardo la bicicletta allontanarsi e scomparire, tra i palazzoni, risucchiata dall’oscurità di una notte che sta finalmente per finire.
Rientro in casa, nell’aria c’è odore di caffè e qualche finestra è già illuminata: sono quelli del primo turno, il più ambito, perché termina alle due e consente di sfruttare tutto il pomeriggio.
Nel quartiere regna ancora il silenzio, rotto soltanto dal pianto di un bimbo.
Tanti anni fa avrei potuto essere padre ma non ne ho avuto il coraggio; per anni ho tentato di dare dignità a questo rifiuto ma un giorno ho capito che se le pessime azioni sono in sé esecrabili, le scuse accampate per giustificarle sono insopportabili.
Entro in casa e sveglio per la seconda volta il gatto che in segno di protesta lascia il soggiorno.
Mi lascio cadere sul divano e gli occhi cadono sul quaderno nero che costantemente mi segue, ormai da decenni, in attesa di un’idea buona per dar vita alla nostra opera prima.
Quella di scrivere un romanzo è stata un’idea che mi ha accompagnato a lungo ma che si è rafforzata ultimamente.
Ho sempre scribacchiato perlopiù poesie o brevi racconti.
Molto di quello che ho scritto, è andato perduto, altro l’ho buttato perché mi pareva pessimo o troppo intimo.
Poco altro ancora lo conservo con cura.
Da ragazzo immaginavo che scrivere potesse essere una passione, forse un mestiere, ma le cose sono andate diversamente, perché la vita ti porta altrove se non riesci a capire in tempo quali siano le tue aspirazioni; devi comprenderlo ma non basta, devi avere anche la forza per difenderle e farle crescere.
Ho lavorato per tutta la vita nei cantieri e nelle fabbriche e se dovessi condensare in dieci parole questo mio percorso, sceglierei: impegno, rispetto, umanità, umiltà, tenacia, illusione, inesperienza, obbedienza, sacrificio, rassegnazione.
Se invece dovessi sceglierne una sola, opterei per disciplina; sebbene abbia concorso a rendere ancor più introverso il mio carattere, devo ad essa quanto di buono ho combinato nei miei troppi anni di lavoro.
Molti ritengono che passione ed entusiasmo siano indispensabili per far bene le cose; sono requisiti importanti ma, credo, sopravvalutati.
Ogni tanto mi rivedo, impantanato nel grasso di un laminatoio, di notte, a far manutenzione, oppure ripenso alle tante domeniche trascorse al lavoro, per non ritardare la consegna di una linea di produzione.
Ebbene, ho ben presente le persone che mi stavano accanto in quelle occasioni e non ricordo particolari passioni o entusiasmi.
La passione induce troppo spesso a preferire ciò che piace e non ciò che è necessario fare.
In quel laminatoio eravamo lì, noi e soltanto noi, perché nessun altro lo voleva fare, perché ritenevamo fosse un dovere farlo e farlo al meglio.
La disciplina costa impegno e fatica e va rispettata perché conferisce dignità a chi la pratica.
Il mio è stato un percorso ondivago, gravato da pesanti fardelli, pieni di cose vecchie e inutili, da cui non ho saputo liberarmi.
Non ho amato il mio lavoro e raramente mi è piaciuto; al contrario mi sono sempre interessate le persone che ho incontrato; ad alcune di loro ho voluto bene mentre altre le ho detestate; con alcune ho condiviso lunghi percorsi, per altre provo una stima incondizionata.
Perché mai scrivere un libro?
Mah, forse per un residuo di vanità, per ricercare emozioni perdute, nella speranza di ritrovarmi un giorno di fronte a qualcuno che dopo averlo letto dica: Beh ragazzo, nella vita potevi fare di meglio, oggi mi sento magnanimo e ti concedo la possibilità di provarci una seconda volta
.
Prendo tra mani il quaderno nero, chiudo gli occhi ma so che l’ispirazione non arriverà nemmeno stavolta e allora decido finalmente di scrivere l’altra storia, l’unica che conosco bene e che forse merita di essere raccontata.
Inizierò a farlo subito ma non prima di un buon caffè e di un buffetto al gatto che risvegliato per l’ennesima volta troverà di sicuro il modo per dimostrare il suo disappunto.
Mi sbagliavo su entrambe le cose: il caffè è pessimo e il gatto sembra apprezzare quella mezza carezza; cerca ancora la mia mano, si gira su se stesso e mi guarda con indulgenza; credo voglia dirmi qualcosa, del tipo: Dai, vecchio e patetico rompipalle, lasciami in pace e inizia a fare quello che devi
.
Torno nella nostra poltrona, cerco nell’astuccio la stilografica che mi regalò Marisa poco prima di ammalarsi, e con un brivido di piacere inizio a sporcare d’inchiostro quel primo foglio, così ostinatamente bianco.
II
LA SVENTURA DI ADELE
I pazzi osano dove gli angeli temono d’andare
.
(Alexander Pope)
Alcune famiglie sono perseguitate dalla sventura e quella di Stefania certamente lo era.
La gente del posto evitava di passare accanto alla loro casa e se proprio era costretta a farlo, accelerava il passo, per timore del maleficio che regnava tra quelle mura.
Quella di Stefania e della sua famiglia è una storia triste.
So che molti di voi detestano la tristezza.
Vi angoscia, vi dà fastidio e cercate perciò di tenervi lontani da quanto possa indurla.
Posso capirvi e non ho nulla contro di voi tranne il fatto che, per compiacervi, ho simulato allegrie che non provavo.
Troppe volte, in passato, ho fatto il buffone per mascherare la mia natura malinconica ma ora mi sento di dire a tutti voi: "Che leggiate o no la storia di Stefania e della sua famiglia, non fa differenza.
Se però decideste di farlo, vi esorto a essere rispettosi.
Vi chiedo la cortesia di non essere irriverenti verso quelle anime che hanno sensibilità diverse dalle vostre".
Adele, la madre di Stefania, era convinta che quella non fosse la sua vera vita; ne era certa ma era troppo complicato parlare con qualcuno di quanto le stava accadendo; troppo difficile da spiegare e da capire.
Le capitava spesso di trasalire all’improvviso con la sensazione di avere perso coscienza di sé per alcuni momenti; non aveva ricordi precisi di cosa avvenisse in quegli istanti, ma ritornava in sé con l’impressione di aver visto luoghi sconosciuti.
Le immagini che le rimanevano impresse di quei viaggi erano sbiadite; era come risvegliarsi da un bel sogno, cercando avidamente di ricordarlo, ben sapendo che al primo batter di ciglio esso sarà perduto per sempre.
Quando il vento si alzava all’improvviso per annunciare l’arrivo della pioggia, Adele usciva da casa, chiudeva gli occhi, nella speranza che il vortice la afferrasse per condurla lontano, laddove esisteva un’altra parte di sé, con la quale riusciva a congiungersi di tanto in tanto, solo per pochi attimi.
Adele aveva una decina d’anni quando successe la disgrazia; i suoi genitori stavano ascoltando alla radio il racconto della nascita del primo Parlamento della Repubblica Italiana e il fratellino, eludendo la sorveglianza della nonna, uscì dalla casa ed entrò in un cantiere vicino, dentro al quale si stava costruendo un nuovo fabbricato.
Scivolò su una trave di legno e per una fatalità, cadde dentro ad una vasca colma di calce viva.
Sarebbe crudele indugiare sui particolari di quella tragedia ma basti sapere che la piccola creatura patì dolori atroci prima che la morte ponesse fine allo strazio.
La disgrazia ebbe conseguenze devastanti per il padre di Adele che cercò conforto nel vino finché una notte, rientrando stordito dall’osteria, cadde nel fossato che costeggiava la strada morendo annegato in pochi centimetri d’acqua.
Acqua ferma, acqua morta, quanto la sua residua voglia di vivere.
Dopo quella nuova disgrazia, Adele, s’isolò ancor di più dal mondo; si richiudeva per ore nel granaio a fantasticare e a guardare il cielo, attraverso le grate del lucernario, perché il segno che le avrebbe permesso di riavere la sua vera vita, sarebbe arrivato di sicuro da lassù.
Trascorse ancora qualche anno prima che Adele scoprisse di sentire le voci delle anime dei defunti e di poter dialogare con loro.
Accadeva di notte e quanto arrivavano, si sedeva sul letto e parlava a voce bassa con loro.
Per fortuna la prima che sentì fu quella del fratellino che le spiegò tutto; per meritare quel dono era necessario possedere una speciale purezza d’animo.
Erano poi necessari altri requisiti legati alla sofferenza e ai sogni infranti, ma questo, la voce del fratello, lo omise.
Dopo quella voce, ne seguirono altre, di anime a lei sconosciute, che raccontavano dolori e rimpianti della vita terrena, senza mai far menzione a quella presente.
Una notte Adele si sentiva più sola del solito; erano i giorni più freddi dell’inverno e il gelo le era penetrato nelle ossa e nel cuore.
A un tratto sentì una voce che riconobbe subito, era ancora quella del fratello: "Ciao Adelina, stavolta posso stare poco con te ma devo dirti una cosa importante che ancora non sai; porti la vita nel grembo, anzi , ne porti addirittura due.
Tutto cambierà, dovrai sostenere delle dure prove ma ce la farai".
Poi la voce sembrò esitare, divenne tremula e scomparve.
Adele si rannicchiò ai piedi del letto e iniziò a tremare, come un animale ferito e caduto in trappola.
La gravidanza fu accertata, prima da Adele, poi dagli altri, increduli o indignati.
Non volle fare il nome del malfattore, nonostante le suppliche della madre.
Aveva diciassette anni quando partorì prematuramente: la levatrice fece del proprio meglio ma furono necessari il medico e l’ospedale.
Il bimbo nacque per primo e visse solo pochi istanti, la bimba sopravvisse ma il medico fu molto chiaro nello spiegare che le possibilità di restare in vita, per la creatura, erano pochissime.
Appena le fu possibile Adele andò nella Cappella dell’ospedale dove accese una candela e rivolse poche parole al Signore: Stefania non ha colpe, la aspetta una vita dura ma ti prego, dalle la possibilità di vivere
.
La piccolina ce la fece e Adele ringraziò tutti, la levatrice, l’ospedale, il Signore e la voce del fratello che aveva mantenuto la promessa.
La serenità durò soltanto qualche anno; una notte la madre di Adele ebbe un malore dal quale non si riprese più e certi parenti lontani le trovarono un letto in un ricovero, dove consumò, incosciente, i pochi anni che le rimasero da vivere.
Anche il declino di Adele fu rapido; iniziò con la stanchezza che presto divenne cronica, poi arrivarono i medici e le medicine; lei parlò delle voci e questo non la aiutò.
Alla fine fu rinchiusa in una casa di cura, che divenne la sua ultima dimora.
Dal giorno del ricovero, smise di sentire le voci e i medici pensarono che la cosa fosse positiva; per lei quella mancanza fu invece motivo di disperazione; cercò inutilmente ogni notte e per tutte le notti che le rimasero da vivere, di mettersi in contatto con l’anima del figlio, per consolare quella piccola creatura, illusa da una vita di pochi attimi.
Un’esistenza di pochi secondi, lunghi a sufficienza per conoscere il dolore, ma non abbastanza per assaporare il calore e il conforto del primo abbraccio materno.
III
MARCO ANIMA LUNGA
"Io
Come nervo scoperto
Pensatore di me stesso.
Io
Come barca alla deriva
Illuso da fragili approdi
In un mare
Sempre più cupo"
La luce del primo sole s’infilò tra le crepe del balcone e irruppe nella stanza.
Bruno si svegliò e avvertì una stretta al cuore perché sapeva che lo stava aspettando un’altra giornata difficile.
Non se ne