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Dove sei vita.: Sulle posture dell'essere nel mondo
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E-book434 pagine6 ore

Dove sei vita.: Sulle posture dell'essere nel mondo

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Info su questo ebook

L’opera si presenta tripartita: la prima sezione tratta la dimensione della sopravvivenza: al centro è posta la figura del consumatore; al contempo v’è tutto l’apparato tecnico-scientifico che costituisce l’altro potere che prende in carico la salute ed i corpi dei soggetti, i quali, quando si limitano a sopravvivere, come animali, si aggrappano solamente alla sopravvivenza; la seconda sezione concerne l’esistenza: l’esistenza mostra il proprio carattere nell’odierna società capitalistica tecno-finanziaria. L’uomo d’affari, l’imprenditore, l’uomo che si fa da sé è la figura di riferimento di questa seconda parte. Qui diventa decisiva la scelta del soggetto; La terza sezione riguarda la vita: qui v’è il tentativo di resistere al mundus e preservare e forse salvare dimensioni come l’arte, l’amore e la libertà nella loro forma più autentica e, appunto, vitale. La vita è ciò che accade: essa avviene e ne va del soggetto nella sua più intima essenza. La figura di riferimento di questa terza parte (che ho provato umilmente a trattare) è Gesù Cristo.
LinguaItaliano
Data di uscita30 dic 2021
ISBN9788869633188
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    Anteprima del libro

    Dove sei vita. - Matteo Gazzoli

    Matteo Gazzoli

    DOVE SEI VITA?

    SULLE POSTURE DELL’ESSERE NEL MONDO

    Elison Publishing

    © 2022 Elison Publishing

    www.elisonpublishing.com

    ISBN 9788869633188

    PREFAZIONE

    Un professore, qualche anno or sono, mi disse che la parte più complessa da scrivere di un’opera fosse la premessa, ossia quell’insieme di parole che dovrebbero delineare il paesaggio che si è addensato nell’autore per poi emergere in un quadro d’insieme più o meno riuscito all’interno dell’opera medesima.

    Al termine di una trattazione come quella che desidero proporre qui di seguito, ecco che seggo dinnanzi a questo mio scritto con una conclamata incapacità di pre-mettere qualcosa per poterlo meglio presentare al lettore.

    Trovo che sia molto complesso poter dirigere il lettore verso mete e paesi chiari e precisi, quando, come si comprenderà leggendo, la presente trattazione non si pone alcun obiettivo, nessuna destinazione, ma un eterno errare.

    Potrei però tentare di tratteggiare l’aurora di questo libello e del suo essere.

    Dovendo indicare un periodo entro cui porre la generazione del presente testo, direi che essa si è fatta sempre più urgente a partire da alcune esperienze occupazionali a cui ho atteso per circa un anno e che mi hanno portato a sondare il mondo della pubblica amministrazione, delle relazioni con la cosiddetta utenza e le mansioni burocratiche ed impiegatizie più basilari (archivio, copiatura, scrittura e distribuzione di avvisi e locandine, etc…).

    In questo senso, si è fatta largo in me una cospicua forza d’evasione da un mondo grigio, molto ripetitivo, ciclico e spesso monotono e sottostante semplicemente alla produzione, all’efficacia ed alla funzionalità all’interno di un più ampio apparato, che è perlopiù composto da impiegati che ogni giorno compiono le medesime operazioni.

    Ora, sia chiaro: il grigiore di una funzione non è sinonimo del grigiore dell’anima di colui o colei che svolgono quella specifica mansione.

    Nel mio caso, però, mi rendevo conto che stavo perdendo qualcosa e che mentre compivo quei gesti ciclici e monotoni (ma utili e produttivi…) che mi consentivano di guadagnare qualche soldo e riempire le giornate, qualcosa accadeva senza ch’io vi ponessi la giusta e doverosa cura: questo qualcosa era la vita.

    Mi resi infatti conto che in quel periodo io mi stavo limitando a sopravvivere e ad esistere in una dimensione piuttosto mediocre: non a caso in quei mesi lessi molto poco, scrissi raramente e non sovvenne in me alcuna passione all’infuori di quelle elementari che servono a tenere in vita il corpo e a svagare la mente nel tempo libero.

    Allora, ad un certo punto, iniziai a cogliere quei temi che avrei desiderato approfondire e da lì cominciai a prendere appunti nei ritagli di tempo tra una mansione e l’altra: penso che l’idea di quest’opera sia sorta in modo consapevole quando iniziai a tracciare per penna le prime riflessioni ed i primi pensieri più o meno coerenti e seri su questi temi.

    Innanzitutto, il presente scritto si situa all’interno di una dimensione sfumata, contaminata, figlia di ricami di pensieri, riflessioni, libri e testi, lezioni seguite, professori e professoresse ascoltati ed ammirati, fascino suscitato da incontri provvidenziali, versi letti, scritti e pubblicati, dialoghi e chiacchierate, appunti presi per strada, letture divenute vitali per me nel corso, almeno, degli ultimi sei anni e forse ancor prima.

    Nell’autunno 2019 ebbi la sensazione di avere a disposizione un materiale insufficiente, ma d’un’insufficienza sufficiente per poter rispondere a quell’urgenza scritturale che si muoveva in me.

    Era una buona stagione per me, che, dopo mesi di vacche magre, ero preso dalla scrittura di un saggio ed anche dalla sistemazione di alcuni versi in una raccolta che intendeva proprio sondare il punto preciso in cui la poesia sorge ed in cui la vita affiora.

    Ebbene, certamente molte influenze premettero su me in quei giorni e sentii nitidamente una forte spinta scritturale verso questo nostro essere presenti in questo mondo.

    Non mi era ancora del tutto chiaro che cosa avrei voluto scrivere, ma sin da allora si iniziò a formare una percezione riferita a tutti gli appunti, le pubblicazioni personali, le letture, le riflessioni scritte su fogli svolazzanti e spersi tra le carte universitarie ed anche i ricordi di certe frasi, di certi lasciti orali che continuavano a muoversi nella mia mente.

    Il punto chiaro in me era che desideravo scrivere qualche cosa che inerisse l’essere, non da un punto di vista ontologico, ma da un’ottica materiale e materialista, contemporanea ed al contempo vitale, ossia facente riferimento a quel qualcosa che si tenta di cogliere nel momento in cui si dà, ma sfugge, inevitabilmente e tuttavia crea mondo.

    Come sempre furono le domande a guidare a poco a poco la scrittura di nuovi appunti, di nuovi pensieri che potessero dare adito ad un libello contaminato da tutti questi riferimenti: senza domande non c’è vita e non v’è nulla che valga la pena scrivere.

    Non intendevo approfondire il tema filosofico dell’essere da un punto di vista ontologico, ma la questione da cui partii era: che cosa significa essere nel mondo?

    Che cosa significa ritrovarsi a vagare in un mondo a cui siamo, almeno inizialmente, completamente estranei?

    Che cosa significa essere in questo mondo di oggi, specifico, particolare e diverso dal mondo di millenni, secoli, decenni or sono?

    Ancora: che mondo è quello in cui oggi siamo?

    Che cosa significa essere in questo mondo?

    Ebbene, come si sarà compreso, le questioni sono particolarmente stringenti e critiche, nella misura in cui per potere essere in questo mondo è necessario anche avere a che fare con le strutture, i sistemi, le costruzioni sociali, le convenzioni, le abitudini, le ideologie che il mondo mette a disposizione del soggetto.

    Tuttavia, anche in questo caso è stato inevitabile domandarmi se vi fossero differenze tra le modalità dell’essere nel mondo: potremmo dire che un fiore sta nel mondo come un cane? Un cane come un essere umano?

    V’è tuttavia qualcosa che li unisce tutti intimamente?

    Essere nel mondo come consumatore o come poeta è la stessa cosa?

    Oppure essere nel mondo, anche se nel medesimo tempo, mostra differenziazioni che è bene evidenziare e porre alla luce della verità?

    Allora, queste questioni non sorsero dal nulla in un pomeriggio d’autunno, ma erano già state pensate, appuntate, trascritte, condivise e perfino poste (per certi versi) all’interno di testi da me scritti precedentemente, ma che non avevano una configurazione così strutturata.

    Ecco perché non so esattamente come definire quello che è sorto dalla scrittura: convergono quivi moltissimi riferimenti scritti ed orali diversi e talvolta è probabile che io abbia citato più o meno fedelmente espressioni lette od ascoltate a cui però non resta che il mio ricordo d’averle udite, senza alcun altro appiglio a cui aggrapparmi.

    Trovo fondamentale questa contaminazione, che tiene insieme tratti chiari e riflessioni più oscure, pensieri confusi e definizioni più precise.

    Forse ciò che meglio potrebbe riferirsi a quanto scritto è il termine frammento.

    Anche durante la scrittura mi sono sempre più reso conto che avrei potuto citare altri testi ed autori, aggiungere parole a quelle già scritte e così via, ma ciò non era nel mio interesse, quantomeno rispetto a quest’opera.

    Confido infatti che in futuro io possa soffermarmi con maggior perizia e cura su alcuni pensieri che quivi sono solo accennati oppure non adeguatamente approfonditi, ma il presente libello è un grande insieme frammentario di riflessioni (al plurale!) che si riferiscono però ad un qualcosa di unico e singolare: l’essere nel mondo, in questo mondo.

    Ciò che domando sin d’ora al lettore è di non leggere queste pagine come se potesse produrre delle distinzioni nette, chiare e precise tra i capitoli, perché altrimenti non potrebbe comprendere molto di quanto vado scrivendo; al contempo, in maniera apparentemente contraddittoria, domando al lettore di cogliere le differenze tra le dimensioni dell’essere nel mondo, che vado proponendo.

    In particolare, chiedo al lettore di seguire passo-passo le parole scritte, che sono il flusso più o meno articolato delle mie riflessioni e dei miei pensieri, ma anche le parole non scritte, i rimandi non presenti sulla pagina e di avere cura e riguardo per gli spazi bianchi ed i silenzi tra le parole: ecco che questo testo si presenta come un erratico viaggio frammentario tra alcuni pensieri che mi hanno accompagnato nel corso degli ultimi anni.

    Dato che il pensiero non ha una struttura sempre precisa, il lettore troverà passaggi molto nitidi ed altri invece più opachi, addirittura apparentemente contraddittori, ma si dovrà fare lo sforzo di uscire dalla netta distinzione e contrapposizione dei contrari, i quali, ad un certo punto, non possono che sussistere stando insieme.

    Un riferimento a me chiaro e noto è, ad esempio, la suddivisione filosoficamente nota e millenaria tra vita attiva e vita contemplativa: ecco, per me tale distinzione è insensata e quindi il lettore non troverà alcuna chiara distinzione tra queste due vite, perché esse non sono contrarie, ma si compenetrano continuamente e pensarle separate significa non coglierne la reale portata e la decisiva rilevanza.

    Il pensiero non è totalmente altro rispetto all’azione né l’azione è totalmente altro rispetto al pensiero: infatti, quando si pensa si sta già agendo e quando agiamo, v’è nell’azione, nel suo darsi, il pensiero (naturalmente, come si potrà meglio comprendere, vi sono attività che richiedono un maggior grado di pensiero e di cura della riflessione e del domandare, ma questo sarà meglio indicato nel proseguo).

    Dunque, tentando di giungere alla conclusione di questa premessa, ecco che il presente insieme di frammenti, che da lungo tempo coabitano tra le mie carte e le mie memorie, si situa nel solco del mondo contemporaneo e di che cosa significa essere nel mondo, come esso si compone, che modalità dell’essere si danno in questo mondo, in che modo stare nel mondo in modo migliore o peggiore, in che modo essere nel mondo nella maniera più autentica e libera possibile.

    V’è dunque una fortissima carica libertaria tra queste pagine e debbo dire che quando ho iniziato a scrivere le prime righe (sempre a mano libera, in prima battuta) mi sono immediatamente accorto che questi frammenti avrebbero avuto come lettore privilegiato e, debbo ammetterlo, desiderato, i giovani, intesi come coloro che, pur essendo nel mondo, aspirano ad esserne parte riconosciuta, attiva e significativa e, soprattutto, libera.

    Se un giovane dovesse navigare tra queste pagine e ritenere che, più s’avanza nella lettura e più sente di leggere delle assurdità e delle riflessioni utopiche ed irraggiungibili e dunque inutili, allora, costui non è più giovane di un uomo di cui resti soltanto la fotografia su una lapide dimenticata.

    Auspico vivamente che questi spunti e frammenti e questi ricami di stoffe acquistate durante i miei viaggi possano trovare nel lettore più giovane un modo serio di entrare nel suo essere nel mondo.

    Infatti, può anche esser vero che il mondo è dei giovani, ma, se è così, allora il mondo è di quei giovani che sono nel mondo in un certo modo.

    Il presente frammentario ha questo tratto caratteristico: non tanto il che cos’è, ma il come.

    La modalità più che l’ontologia: come essere nel mondo?

    Come il mondo si presenta a noi?

    Come vivere?

    Come amare?

    Come essere liberi?

    Se qualcosa posso già anticipare sin d’ora al lettore è che qui non è in gioco un risultato da conseguire, ma una vita da vivere; non un obiettivo né una meta, ma una postura nell’essere nel mondo, nella vita che si dà, nel tempo che pare procedere inesorabilmente e negli incontri che accadono.

    Al termine di questa lettura non vi sarebbe nulla, per me, di maggiormente caro di un lettore che sia confuso, spaesato, magari anche angosciato da quanto letto, ma vivamente toccato da queste righe dense di domande e pensieri a cui si desidera dar seguito.

    Chiedo al lettore una lettura autentica, ossia tale da farlo immergere nelle pagine che seguiranno e poi, alla fine, decidere se tornare a riva, oppure continuare a farsi abbracciare dalle onde, in un dialogo senza fine.

    Forse il modo migliore per relazionarsi ad un libro non è tanto leggerlo, ma farsi leggere.

    Concludo perciò scrivendo che auguro a questo mio libro di leggere quanti più spiriti possibile e di poter donare loro quel miracolo, sempre meno incontrato e sempre più ignorato, che è la vita.

    INTRODUZIONE

    Vorrei sostare brevemente in quest’introduzione, perché il presente libello procede in modo piuttosto contiguo alle mie riflessioni e quindi credo che il tentativo di coerenza proposto (peraltro raramente, o forse mai raggiunto!) possa quantomeno essere colto tramite la lettura diretta dell’opera, che è sempre la maniera migliore di incontrare un libro.

    Ebbene, se le domande fondamentali che hanno segnato l’origine di queste pagine si sono presentate in modo riassuntivo nella premessa, qui di seguito desidero semplicemente indicare la struttura pensata a fondamento di questo scritto.

    L’opera si presenta suddivisa in due parti: la prima parte è tripartita, anche se naturalmente le parti dell’opera si compenetrano continuamente e pur presentandosi distintamente, sono l’una partecipe dell’altra:

    nella prima sezione il tema fondamentale è la dimensione della sopravvivenza: la sopravvivenza non va quivi intesa esclusivamente come l’insieme delle funzioni corporee di base, ma, poiché gli esseri umani non sono esseri istintivi né soggetti alla pura istintualità, ecco che essa si dà all’interno di una dimensione sociale, in particolare, nel nostro tempo, nella civiltà dei consumi. Quel che io credo è che sopravvivere in questo mondo significhi essere coincidenti con la figura del consumatore, con colui che, senza memoria per ciò che è stato e completamente disinteressato rispetto ad un futuro pieno, si situa nel consumo senza limiti di ciò che può essere acquistato e goduto, senza alcun tipo di libertà, nel presente. Il consumatore è la figura decisiva per comprendere questa prima parte dell’opera; al contempo, però, non va dimenticato tutto l’immane apparato tecnico-scientifico che costituisce l’altro potere che prende in carico la salute ed i corpi dei soggetti, che, quando si limitano a sopravvivere, come animali, si aggrappano senza vergogna solo e soltanto alla sopravvivenza, alla nuda vita, alla mera funzionalità delle membra.

    La seconda sezione concerne invece una dimensione più consapevole, più complessa e più articolata: l’esistenza.

    L’esistenza, infatti, si situa non più in una dimensione di puro godimento consumistico, ma mostra il proprio carattere nell’odierna società capitalistica tecno-finanziaria, con i suoi dogmi, le sue ideologie e le sue false ed illusorie libertà. L’uomo d’affari, l’imprenditore, l’uomo che si fa da sé è la figura di riferimento di questa seconda parte, perché egli incarna perfettamente i valori (sempre mercificati) del soggetto contemporaneo: efficacia, efficienza, prestazioni, funzionalità, produttività, competenza sono i dogmi di questo soggetto.                                                                  

    A differenza della sopravvivenza, quivi il soggetto è maggiormente consapevole ed ha anche la possibilità di farsi protagonista di esistenze più o meno lodevoli, più o meno meschine, più o meno ragguardevoli: nell’esistenza vi sono gradi differenti di virtù, per dir così, legati alle qualità ed alle scelte del soggetto.

    Infine, la terza sezione concerne la vita: non voglio scrivere nulla di questa sezione in questa introduzione, perché ne risulterebbe una troppo evidente mortificazione; perciò, invito semplicemente il lettore a leggere quanto scritto e a pensarlo, giudicarlo e criticarlo. Chiedo soltanto che leggendo questa terza sezione si tenga conto che essa custodisce il tentativo di resistere al mundus e preservare e forse salvare dimensioni come l’arte, l’amore e la libertà in tutte le loro forme più autentiche.

    Concludo questa breve introduzione con una piccola riflessione che emergerà anche durante la lettura e che è uno dei punti-chiave del mio pensiero e del mio pensare di questi anni, tanto veloci e che tanto spesso annichiliscono esperienze e tradizioni in nome del nuovo e della novità a tutti i costi.

    Credo che sia molto importante che io chiarisca al lettore in che termini si pone la mia riflessione rispetto a questo, perché all’interno del presente scritto vi saranno vari riferimenti ad abitudini passate, usi ormai ritenuti obsoleti, pensieri che vengono presentati come vecchi e quindi da buttare; desidero che il lettore sia avvertito e non entri nell’ottica secondo cui la novità è sempre migliore di ciò che l’ha preceduta.

    Ebbene, il nuovo sostituisce il vecchio: ma che ne è delle esperienze passate?

    Non hanno più alcun significato?

    Che cosa di perde?

    Che cosa viene meno quando, ad esempio, si invia una mail, anziché scrivere a mano e spedire una lettera?

    Quale esperienza vitale si perde?

    Questa perdita è irrilevante? Oppure dice qualcosa che vale la pena pensare e non lasciare andare via?

    Questa perdita è, a mio avviso, il luogo privilegiato della vita.

    Quando si derubrica un’esperienza in modo definitivo, al contempo, si sta più o meno scientemente, scegliendo di annichilire la vita che avrebbe potuto incontrarci in quell’esperienza.

    Ecco, per una vita che sia degna di essere vissuta, ritengo che sia necessario scommettere su questa perdita, abitare il fallimento, sostare nel tempo che viene definito inutile, non lasciare andare, in nome della novità, la vita, preferendole una pancia piena ed un portafogli gonfio.

    Allora, come Socrate, sarà bene incamminarsi per via e dirigersi al banchetto, restando però sempre pronti a cogliere la vita mentre si dà e ci tocca, a sostare per darle tutta la nostra possibile cura e a rischiare di perdere tutto per essere incontrati da quell’afflato di eternità che è, appunto, la vita.

    PARTE PRIMA:

    ESSERE NEL MONDO

    SOPRAVVIVENZA

    Nutrire il proprio corpo, affinché sia forte e vigoroso.

    Aver cura di quelle funzioni biologiche atte a mantenerci in salute.

    Prestare attenzione ai bisogni elementari che l’organismo richiede, perché l’individuo possa percorrere il proprio ciclo sopravvivenziale senza troppe difficoltà.

    Congiungersi con altri organismi, affinché la specie possa perseverare e preservarsi e perché vi sia la continuità biologica che la natura richiede.

    Dovendo dipartire da alcuni punti chiari e sicuri (o quantomeno, apparentemente tali) e da alcuni spunti di riflessione iniziali, in riferimento alla dimensione che ho definito, appunto, sopravvivenza, mi pare che le poche righe testé riportate indichino qualcosa di comunemente accettabile, per poter definire che cosa si debba intendere per sopravvivenza.

    Con ciò, pare, in prima istanza, che si debbano indicare le funzioni organiche essenziali alla sopravvivenza biologica individuale (comunemente intese: mangiare, bere, dormire) e a quella della specie (riproduzione).

    Questo è certamente vero e condivisibile, ma io ritengo che non sia sufficiente.

    La sopravvivenza è una dimensione più ampia di quanto si possa pensare: innanzitutto essa concerne ogni essere vivente, poiché tutto ciò che è si sforza di essere.

    Con ciò non intendo soltanto indicare esseri umani ed animali che, seppur tra le molteplici differenze mostrano una serie di comportamenti che hanno come obiettivo la sopravvivenza del singolo e della specie, ma anche il mondo vegetale, come sempre più le ricerche riescono a mostrarci.

    Io non mi soffermerò sul mondo animale, non essendo uno studioso di questo mondo affascinante, che mi è noto soltanto per la curiosità di chi vive su questo pianeta e si interessa vivacemente a quanto quivi accade.

    Ciò che mi preme è invece tematizzare una riflessione sugli uomini e sulla loro sopravvivenza, perché a mio avviso qui vi sono alcune questioni di notevole importanza da sottoporre al pensiero errante ed al vaglio della critica.

    Dunque, vi sono funzioni biologiche necessarie per la sopravvivenza, senza le quali il corpo perirebbe; infatti, la sopravvivenza attiene eminentemente il corpo, inteso esclusivamente come la somma più o meno equilibrata delle funzioni biologiche che lo compongono e che consentono all’organismo la crescita, lo sviluppo, la maturazione, etc…

    Questo tipo di riflessione sembrerebbe a prima lettura piuttosto accettabile, quantomeno per animali e piante: infatti, essi sopravvivono e conoscono istintivamente il modo mediante cui sopravvivere.

    Quando nella savana un piccolo di gnu vede la luce, dopo pochi minuti è già in grado di camminare, spinto istintivamente a mettersi in piedi per essere pronto sin da subito a seguire la mandria e a sfuggire dalle insidie dei predatori, immediatamente pronti ad attaccare la preda più debole e facile da abbattere: se il piccolo non imparasse a camminare in pochi minuti e poi a correre, la mandria lo lascerebbe indietro, solo ed indifeso, alla mercé dei predatori.

    Il mondo animale ci mostra costantemente questa istintività atavica che diventa il patrimonio fondamentale per ogni nuovo nato, affinché possa avere a disposizione quelle capacità atte alla sopravvivenza.

    Così, appena nato, un cucciolo di cane, seppur cieco, sa perfettamente dove si trova il seno materno ove trarre il nutrimento che lo farà sopravvivere nelle prime settimane di vita; allo stesso modo nel mondo animale troviamo esempi di cuccioli che immediatamente sanno che cosa fare, senza aver bisogno di impararlo.

    Questa componente istintuale tanto evidente nel mondo animale è però preclusa agli uomini.

    Gli esseri umani non sono esseri istintivi.

    Nonostante si senta spesso fare riferimento a questa categoria, tuttavia, l’istinto non è umano.

    Vi sono certamente uomini meno riflessivi e meditativi rispetto ad altri, che paiono meno inclini a pensare prima di agire o parlare, ma anche costoro, come vedremo, non debbono essere definiti istintivi.

    Questo discorso è maggiormente comprensibile nel nostro tempo, ove è evidente che la sopravvivenza umana abbia assunto delle caratteristiche ben lontane rispetto alla sopravvivenza, per così dire, animale.

    Si potrebbe forse pensare che anche per gli uomini valgano le istintive attitudini animali: in fondo, alimentarsi, riprodursi e dormire, sembrerebbero essere caratteristiche anche della sopravvivenza umana.

    Tuttavia, l’esperienza contraddice questo assunto in modo evidente: se per gli animali allo stato brado tale sopravvivenza è puramente istintiva, ciò non vale per gli esseri umani, i quali, infatti, producono culture, ideologie e discorsi che rendono impossibile una distinzione netta tra gli istinti primordiali e le conquiste della cultura e della civiltà.

    Certamente nutrirsi è fondamentale per sopravvivere, ma quando mai all’interno delle società umane ci si è accontentati di cibarsi? O non v’è invece sempre stata una spinta alla ricerca culinaria ed alla contemporanea crescita di una cultura culinaria nel corso dei secoli?

    E, inoltre, non vi sono state culture che hanno vietato certi cibi piuttosto che altri, considerandoli impuri?

    Ecco che anche una funzione così apparentemente istintiva e basilare per la sopravvivenza, una volta che entra nella sfera umana, si tramuta in qualcosa di più pensato, per dir così.

    Coprirsi per difendersi dal freddo e sopravvivere nelle zone più complesse del pianeta è stato un mero atto di sopravvivenza? Certamente sì, inizialmente, eppure, a poco a poco, ci si è sempre più sviluppati in modo da indossare abiti più efficaci ed efficienti.

    Si è passati dal vestirsi per sopravvivere al clima alla moda odierna, ossia ad una dimensione assolutamente frivola e nichilista, che nulla ha più a che fare con la mera sopravvivenza dell’organismo.

    Ancora: la riproduzione tra gli esseri umani è un accoppiamento istintivo a solo scopo riproduttivo simile a quello di cani, gatti, etc…?

    Su questo tema molto si è scritto e molti discorsi sono circolati, ma mi pare evidente che la sessualità tra gli uomini non sia esattamente come quella che si può studiare tra gli animali.

    La sessualità è fatta di discorsi, espressioni, morale, regole più o meno scritte e, soprattutto, i corpi, intesi come corpi sessuali, non sono semplici membra che si uniscono secondo un impulso incontrollato, determinato dalla stagione e dalla necessità della specie.

    La sessualità non è istintiva, ma assolutamente culturale{1}.

    Ogni civiltà ha sviluppato discorsi e pratiche sessuali che nulla avevano a che vedere con una presunta istintualità originaria e così anche la nostra epoca ha sviluppato discorsi precisi su questo dispositivo.

    Si potrebbe forse pensare che i neonati abbiano per qualche momento una qualche dimensione di sopravvivenza pura, ossia senza alcun tipo di influenza culturale, ma anche questo è a mio avviso erroneo, perché immediatamente i bambini vengono educati in un modo specifico e quindi assumono dei comportamenti già culturalmente determinati.

    Ebbene, questa prima analisi desidera mettere in luce un punto decisivo: qualora il lettore sino ad ora avesse pensato ad una dimensione di sopravvivenza pura tra gli uomini, ecco che io vorrei invece affermare con forza che la sopravvivenza, tra gli uomini, è già intrisa di cultura, più o meno buona, più o meno forzata, più o meno consapevole e che quindi non esiste tra gli uomini una sopravvivenza incondizionata.

    Perché accade questo?

    Perché quest’influenza è inevitabile?

    Io ritengo che qui vada chiarito un altro punto molto importante, ossia il fatto che gli uomini non sono singoli, ma appunto sono inseriti in un contesto sociale: per dirla con Aristotele, gli uomini sono animali sociali.

    Questo non significa solo che gli uomini costituiscono delle società più o meno complesse e ricche in materia e spirito, ma che un uomo lasciato a sé stesso non è più uomo.

    In senso stretto, si provi ad immaginare di abbandonare un neonato in una savana oppure in una foresta: che cosa pensate che possa succedere ad una creatura che non è in grado di fare nulla?

    Costui perirà.

    La dimensione sociale è necessaria innanzitutto per sopravvivere, prima ancora che per costruire strutture, organizzazioni, carriere, ruoli, relazioni, etc….

    Un neonato sopravvive se sta in una relazione con altri: in questa prima fase della riflessione basti questo, più avanti mi premurerò di specificare meglio l’entità di questa relazione particolare.

    Tuttavia, ritengo che possa essere sin d’ora facilmente compreso come per sopravvivere, gli esseri umani abbiano necessità di riunirsi tra loro: ciò può avvenire in mezzo ad una foresta, così come in paesi più popolosi o città rumorose ed affollate.

    Il presente capitolo mira ad un’analisi dell’uomo contemporaneo: egli è il protagonista della mia riflessione, perché è più importante per me fare riferimento al mondo in cui vivo, tenendo certamente presente le influenze passate, ma ponendo l’accento su quanto oggi vedo attorno a noi e che mi pare più vicino anche al lettore.

    Allora, stante questo mio intento, non intendo sviluppare in questo testo un’archeologia delle differenti forme di sopravvivenza che gli uomini hanno costituito nel corso dei millenni, a partire dall’avvento dell’homo sapiens (se non anche prima!), passando per la scoperta del fuoco, per le civiltà antiche, sino a quella greca e a quella romana, al medioevo ed infine all’età moderna per giungere a quella contemporanea; queste prime righe desiderano mettere in luce il carattere erroneo che comunemente noi diamo alla sopravvivenza degli esseri umani, intendendola come una sorta di comportamento istintivo, legato ad un falso stato di natura.

    Si pensi a questo: quando in televisione ci vengono proposte trasmissioni in cui degli esseri umani si tuffano nella natura senza null’altro che i loro corpi (in una situazione che è quella abituale per qualsiasi animale del pianeta), che cosa accade?

    Costoro sono portati alla sopravvivenza?

    Saremmo propensi a rispondere affermativamente, tuttavia, costoro sono generalmente adulti, magari addestrati in precedenza presso la civiltà degli uomini e sono seguiti da telecamere, medici, addetti ai lavori, etc…: vi sembra forse che questa si possa definire sopravvivenza?

    Ancora un ultimo esempio prima di addentrarmi meglio nelle tematiche che più mi preme affrontare: vi sono state delle esperienze terribili nel secolo scorso, che hanno condotto milioni di esseri umani all’annichilimento: lo sterminio degli Armeni, quello dei dissidenti politici nei regimi totalitari europei e non, quello del popolo ebraico, etc….

    Alcuni, coloro che ce l’hanno fatta, vengono indicati in vari modi, come eroi, testimoni, ma anche come sopravvissuti e questo termine è volto ad indicare due aspetti:

    - innanzitutto, il mantenimento di qualcosa, che è il proprio corpo, inteso come un insieme di funzioni che hanno tenuto in piedi l’organismo ed evitato la morte in senso biologico;

    - ma soprattutto, a mio avviso, con ciò andrebbe intesa la perdita di qualcosa di autenticamente vitale, che i carnefici hanno sottratto all’uomo, irrimediabilmente, e che mai potrà essere restituito.

    A costoro è stato tolto qualcosa che li rendeva uomini e sono stati ridotti ad animali dispersi in un mondo non più di uomini, ma di bestie.

    Ebbene, io ritengo che questo tipo di esperienza sia certamente quella che più si avvicina alla totale espropriazione dell’umano in favore di una considerazione esclusivamente animale degli uomini: la testimonianza di Primo Levi è quella a cui maggiormente sono legato e che più mi pare indicare questo mondo del Lager con tutte le sue sfaccettature.

    Non a caso si consideravano come pidocchi o scarafaggi gli Ebrei e come tali vennero uccisi; non a caso molti testimoni raccontano di corpi sopravvissuti, ma senza vita; l’esperienza dei campi di sterminio nazisti è certamente la più aberrante in questo senso e se il lettore ha avuto occasione di visionare le immagini che furono girate quando l’Armata Rossa liberò gli ultimi sopravvissuti, ecco che può effettivamente cogliere la dimensione sopravvivenziale a cui faccio riferimento; corpi ossuti ed erosi, pallore e spossatezza, vuoti gli occhi e spenti i volti: quei corpi sopravvissuti giungono come somma testimonianza della negazione della vita, della vittoria della malvagità e, per i pochi rimasti, della mera sopravvivenza.

    Lì, gli uomini dovevano essere ridotti a corpi senz’anima, pura somma di ossa e carne; lì si era portati ad essere animali desiderosi soltanto di mangiare, bere e dormire, per poter sopravvivere un giorno in più, anche calpestando il proprio vicino.

    Tuttavia, anche in questo caso, vi sono stati episodi di ribellione degli uomini contro quest’imposizione bestiale e le testimonianze successive ne sono un esempio di grande valore.

    Ritengo che nonostante le condizioni terribili che gli internati furono costretti a sopportare, nemmeno lì, nel punto più basso toccato dall’uomo, quello che più d’ogni altro si avvicina all’Inferno dantesco nell’immaginario collettivo, si possa parlare di una dimensione esclusivamente sopravvivenziale; infatti, come ben ci testimonia Primo Levi, si potrebbe parlare di sopravvivenza indicando la fame, la sete, il sonno, un istinto di autoconservazione e protezione rispetto al freddo, che il mondo animale ci mostra, ma la fame, il freddo, gli stenti sentiti nel Lager non possono essere indicati come bisogni comuni, ossia come la fame che si prova dopo un giorno di digiuno in condizioni di benessere o come il freddo invernale in una grande città, quando dopo poche ore all’aperto, si può ritornare ad assaporare il tempore di una casa accogliente; la fame, il freddo, la fatica del Lager sfuggono alla comprensione di coloro che non l’hanno provato, sono categorie che andrebbero riscritte e tarate su quelle condizioni specifiche e particolari.

    Forse, sarebbe il caso di non parlare di sopravvivenza, perché quanto si è vissuto in quei luoghi (e qui mi riferisco a tutti quei luoghi in cui l’uomo è stato umiliato e ridotto ad insetto, indegno di considerazione e pietà) è qualcosa che non rientra in quella dimensione dell’essere.

    Forse quel che è accaduto in tutti i luoghi di violenza organizzata, di schiavitù, di servitù, di annichilimento dell’umano non va ricondotto ad una dimensione sopravvivenziale, bensì ad una dimensione esistenziale molto particolare; tuttavia, su questo punto cercherò di proporre alcuni chiarimenti nella proseguo del presente lavoro.  

    Un punto molto interessante è quello inerente ai suicidi successivi alla guerra e, in generale, ad eventi di straordinaria crudeltà: gli uomini si suicidano, gli animali no.

    Solo chi pensa può suicidarsi ed infatti non si ebbero che rarissimi casi di suicidio nei campi di sterminio, perché, una volta ridotti ad animali, gli uomini non possono che comportarsi e pensare come animali e gli animali non si tolgono la vita, ma lottano (anche in modo barbaro) per sopravvivere e tenersi stretta quel poco di vita che resta loro: v’è un capitolo molto noto di Se questo è un uomo, intitolato Il canto di Ulisse, in cui Primo Levi tenta di comunicare ad un lavapiatti francese il Canto XXVI (appunto: il famoso Canto di Ulisse) della Divina Commedia dantesca.

    Il tempo non è molto ed il francese parlato da Primo Levi è piuttosto tentennante, eppure ciò che conta di questa testimonianza è il tentativo sotteso all’episodio: nonostante tutto, nonostante la situazione, il dolore, la fatica, la fame e la stanchezza c’è qualcosa di più, c’è qualcosa che va raccontato anche se è assolutamente inutile dal punto di vista pratico: in fondo, in che modo conoscere e comunicare dei versi poetici può mai riempire lo stomaco?

    Ad un cane, per quanto addestrato, non importerà mai nulla di ascoltare poesie: tra un gustoso biscotto od un sonetto che cosa mai troverà più appetibile?

    Tuttavia, qui si erge la vita, qualcosa di profondamente altro rispetto alla sopravvivenza e che illumina, anche se a fatica, quei pochi istanti di tempo in cui i due internati sono soli tra di loro.

    Tenterò più avanti di definire che cosa sia la vita, ma già qui è bene aver chiaro che vita e sopravvivenza sono due dimensioni completamente diverse.

    Ebbene, dopo questo brevissimo e spero non vano riferimento, che auspico abbia meglio chiarito quanto

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