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Rinchiusa: In balia della giustizia
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Rinchiusa: In balia della giustizia
E-book212 pagine3 ore

Rinchiusa: In balia della giustizia

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Info su questo ebook

È notte. Suonano alla porta. Agnes viene arrestata. Il motivo le verrà spiegato solo più avanti: è accusata di traffico di droga e rischia fino a dieci anni di carcere.
Con grande forza espressiva Agnes descrive la quotidianità nel sovraffollato carcere femminile "Dozza" di Bologna e le condizioni di vita che logorano animo e fisico delle detenute. È giusto che a causa dei loro sbagli debbano rinunciare anche al diritto alla salute? Al diritto a un processo equo, al diritto a essere trattate con umanità? Questo libro racconta il senso di impotenza e di smarrimento ma anche il percorso per ritrovare sé stessi, ritrovare la speranza e riconquistare la libertà.
LinguaItaliano
Data di uscita15 gen 2020
ISBN9788872837238
Rinchiusa: In balia della giustizia

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    Anteprima del libro

    Rinchiusa - Agnes Schwienbacher

    sola

    ANTEFATTO

    Giugno 2007. Ero malata.

    Lavoravo nella ristorazione come lavapiatti in cucina.

    Si fecero sentire degli insoliti dolori di pancia. Il mio medico curante diagnosticò un’infiammazione intestinale. Continuai a lavorare, nella speranza che guarisse da sola. Capita spesso di avere dei dolori da qualche parte, che poi scompaiono. Non volevo mancare al lavoro, meno che mai in piena stagione. I dolori, tuttavia, peggioravano di settimana in settimana e si andavano estendendo alla zona della schiena. Le pile di piatti che portavo si facevano sempre più piccole. Sedere all’organo, quando suonavo in chiesa, divenne sempre più insopportabile. Persi quindici chili. A quel punto mi recai al Pronto Soccorso dell’ospedale di Merano. Mi misero in lista per fare diversi esami di controllo, mi rilasciarono un certificato di malattia e mi rispedirono a casa con degli antidolorifici. Fu il mio addio definitivo all’acquaio. Quando l’effetto degli antidolorifici svaniva, potevo alzarmi dal divano solo a quattro zampe e a malapena camminare. Ero disperata. Mi sentivo come un verme, che può solo strisciare per terra. Devi fare qualcosa, non possiamo più vederti in questo stato!, dicevano i miei figli. Che devo fare, se i medici mi spediscono a casa?!

    Una settimana più tardi, in occasione di un controllo, m’imbattei in un conoscente, un chirurgo, che notò subito quanto fossi curva nel camminare Gli raccontai l’accaduto. Mi conosceva dai tempi delle superiori e sapeva che non sono una piagnucolona. Che si sia arrivati in fondo alla questione lo si deve a lui. Fu così infatti che, un po’ sollevata, in breve tempo finii sotto gli occhi catodici della moderna tecnologia, circondata da tubi e macchinari, un esame dopo l’altro. Alla sera, una équipe di medici riunita attorno a me emise la diagnosi: spondilodiscite con ascesso vertebrale. Lei ha un’infiammazione della cavità addominale, un disco intervertebrale completamente usurato, nonché una lesione ossea a una vertebra lombare. È erosa e perforata come una spugna. Se si rompe, lei resterà su una sedia a rotelle per il resto dei suoi giorni…, mi spiegò il medico con pazienza. Venni immediatamente ricoverata e mi venne prescritto riposo assoluto a letto. Potevo spostarmi un po’ solo sulla sedia a rotelle. Mi fidai ciecamente degli addetti ai lavori e li lasciai andare a briglia sciolta. Finalmente un aiuto! Seguì a ruota un trasferimento alla clinica dell’Università di Innsbruck. I medici venivano di continuo a pizzicare qua e là le mie gambe, domandando se sentissi qualcosa. Sentivo tutto. Non potevano credere che non avessi alcun deficit neurologico. Il midollo spinale lungo il tratto della quarta e quinta lombare era compresso e i percorsi neurali interrotti. Dovetti restare per un mese in ospedale, dove anche mia sorella Maria veniva curata a causa di un tumore. Mi veniva a trovare lei, perché poteva camminare. Eravamo entrambe fiduciose.

    Affinché potessi tornare a muovermi eretta mi fu predisposto un busto ortopedico su misura. Fui dimessa con una gran quantità di pillole e lasciata a riposo per malattia per altri tre mesi. Il 12 novembre 2007, durante un controllo presso la clinica dell’Università, si parlò di operare un disco intervertebrale. Ma andò tutto diversamente.

    IL MIO ARRESTO

    All’ingresso del carcere femminile Dozza di Bologna (fermo immagine tratto dal documentario Milleunanotte del regista Marco Santarelli, 2012)

    13 novembre 2007

    Alle quattro del mattino il campanello di casa mi scuote da un sonno profondo. Mi alzo di malavoglia e abbandono intorpidita il mio letto caldo. Chi sarà a quest’ora?, penso. Chi è?, domando attraverso il citofono. Siamo della Questura e dobbiamo consegnarle dei documenti. Mi suona strano. Mi infilo i vestiti, mi affretto giù per le scale e apro il portone d’ingresso. Stazionano lì davanti due uomini con un sogghigno in volto e una donna che mastica una gomma, tutti in abiti civili. Dobbiamo condurre una perquisizione!, fa uno di loro. Come sarebbe a dire? C’è qualcosa che non va, penso io. Prego, rispondo con gentilezza. Faccio loro strada nel mio appartamento dove, chiusa la porta dietro le spalle, mi dicono: Lei deve andare in prigione!. Oddio, un brivido mi percorre e rispondo con un nodo alla gola: Come?. Esteriormente rimango calma e mi sottometto senza opporre resistenza. Per favore, concedetemi un po’ di tempo, devo prima preparare le mie cose. Tengono d’occhio attentamente ogni movimento che faccio. Non me la svigno di sicuro. Devo avvisare i miei figli più piccoli che vivono ancora con me. Non posso mica sparire nel cuore della notte senza lasciare tracce. La cosa pare non avere alcuna importanza per questi signori. Cavolo, come devo fare, come posso mai dare loro una notizia così terribile a quest’ora? Non ho scelta. Non posso aspettare, né rimuginarci su. Busso alla porta di mia figlia, apro appena uno spiraglio e la sveglio con cautela… Il più giovane dei miei quattro figli dorme nell’altra camera. Glielo dirà lei, prima di andare a scuola. Devo incaricare mia figlia di sbrigare questo e quest’altro per conto mio. Ho molteplici impegni legati alla mia attività di organista, lavoretti minori e altre cose ancora da sbrigare. Naturalmente non mi viene in mente tutto al volo e già i signori mi fanno fretta: Dobbiamo andare!. La perquisizione non è più all’ordine del giorno. Deve essere stata una scusa. Agitata, cerco di mettere i miei pensieri in fila e considero cosa debba portare con me. Faccio coraggio a mia figlia. Andrà tutto bene, avvisa le tue sorelle e i miei, restate uniti, torno presto! Ci scambiamo un ultimo saluto abbracciandoci forte e trattenendo le lacrime. Con quattro stracci, il busto ortopedico a salvaguardia della mia schiena malata e una borsa con tutto il necessario, salgo su un’anonima auto grigia e marrone. Sul tetto del veicolo c’è un piccolo lampeggiante blu. L’interno è confortevole, non sembra neanche un’auto della polizia. Che questi vogliano rapirmi? I due uomini salgono davanti, la donna si accomoda sul sedile posteriore accanto a me. Dalla mia parte viene attivata la chiusura di sicurezza e l’auto si mette in moto. Un navigatore indica subito al conducente la strada da fare. Davvero costui non sa come uscire dalla valle?

    Perché mi siete venuti a prendere a quest’ora?, chiedo durante il percorso. Per non disturbare i vicini. E perché devo andare in prigione?, torno a chiedere. Dovrebbe pur saperlo!, fa la donna con voce altezzosa. No che non lo so!, replico. Non mi viene spiegato nulla, quasi non dicono una parola.

    Giunti alla Questura di Bolzano verso le cinque del mattino, mi viene consegnato un atto di accusa lungo 111 pagine, tutto in italiano, e non mi resta che aspettare e aspettare. Nel frattempo lo sfoglio un po’ e vi vedo elencate le mie telefonate e i messaggi di testo degli ultimi mesi, con tanto di ora e localizzazione. Come sarebbe a dire? Le mie faccende private non riguardano nessuno! Richiudo l’atto di accusa.

    Dal fondo della stanza sento poi dire: Rovereto occupato, Verona occupato … Bologna!¹

    Mi viene in mente che ho promesso a mio fratello di mungere le sue mucche questa mattina. Vorrei chiamarlo, tuttavia i signori hanno sequestrato la mia SIM. Chiedo loro con cortesia: Potrei telefonare a mio fratello? Dovrei sbrigare del lavoro in stalla, devo dirgli che non posso andare. O potreste avvisarlo voi?. Dopo, è la risposta. Aspetto, aspetto, domando, torno a domandare e mi rendo conto che la mia richiesta neanche la prendono in considerazione. Ottengo invariabilmente la stessa indifferente risposta: Dopo!. Posso immaginare che non sappiano niente di mucche. Vuoi forse che tra loro ci sia un contadino? Divento insistente, spiego loro che le mucche non si possono lasciare a sé stesse così a cuor leggero e che mio fratello starà fuori tutto il giorno. Insisto per fare una chiamata e alla fine mi danno ascolto. Sono le sette e sono in linea con mio fratello Gust. Mi viene da piangere, al punto che riesco a malapena a proferire parola: Ciao… oggi non posso venire, devo andare in carcere e non so quando tornerò…. Lui non dice granché, poche parole, calmo e fiducioso. Le sue parole m’infondono coraggio. Sono le ultime parole che mi arrivano da casa e le registro dentro di me come su un nastro magnetico. Mando giù le lacrime. Su con la vita!

    Domando poi se il mio arresto comparirà sui media. Non si preoccupi!, rispondono gli agenti. Per favore, mettetemi per iscritto che non succederà, ne ho il diritto!, dico. Non è necessario, non capiterà, mi viene assicurato, con un tono come se un arresto fosse una cosa normale, di tutti i giorni. Non gli credo e non ottengo alcunché di scritto.

    Inizia il lungo viaggio alla volta di Bologna. Le imponenti montagne scompaiono gradualmente e mi imprimo nella mente più che mai il bellissimo, ampio paesaggio. Era molto tempo che non stavo lontana da casa, sebbene viaggi volentieri. Sono un po’ più tranquilla perché mi convinco che resterò in carcere solo per poco tempo, non ho fatto nulla di male. Coglierò questa occasione per liberarmi dalla mia schiavitù segreta, la dipendenza dall’eroina.

    I miei occhi si fanno sempre più sensibili alla luce del giorno. Li socchiudo. Divento più debole e spossata, come ogni giorno in cui non mi procuro la roba. Gli agenti della Questura non dicono una parola per tutta la durata del viaggio. Nell’auto regna il silenzio, si sentono soltanto il motore e il sibilo ovattato delle auto che ci sorpassano. Solo il navigatore interrompe di continuo questo silenzio, come se si parlasse addosso: Andare dritto… andare dritto…. Una decina di volte così, sempre con lo stesso tono. Assorta nei miei pensieri, faccio monologhi con me stessa, mentre esamino la signora accanto a me che rumina la sua gomma da masticare senza interruzione. Deve essere un lavoro noioso, m’immagino. Mi chiedo cosa farei al suo posto. Mai e poi mai vorrei dover portare qualcuno in carcere.

    A mezzogiorno raggiungiamo gli altissimi e spessi cancelli di ferro, della Dozza, il carcere di Bologna. Attraversate queste porte, il viaggio continua in un labirinto di mura e strade, passiamo da un vicolo cieco all’altro. Nessuno è pratico del luogo e il navigatore si è ammutolito. A un certo momento trovano la matricola, l’ufficio accoglienza nell’edificio del carcere maschile. Segue una lunga procedura, perquisizioni e registrazioni, mi fotografano e mi rilevano le impronte digitali. Viene presa nota di altri dati.

    Ogni centesimo che mi rimane insieme ai miei ultimi cinquanta euro vengono messi sul mio conto carcerario. Il mio telefono cellulare viene depositato in ufficio oggetti di valore. Leggo da qualche parte Casa di Grazia e Giustizia. Sul retro di un parco sorprendentemente curato, con alberi e cespugli, c’è l’entrata un po’ nascosta del carcere femminile. Si apre una pesante porta di ferro blu scuro e gli scorbutici agenti mi consegnano alle guardie carcerarie.

    1 In italiano nell’originale. Il corsivo è del traduttore. D’ora in avanti è da intendersi così ogni qualvolta s’incontreranno termini o frasi poste contemporaneamente tra virgolette e in corsivo. [N. d. T.]

    DIECI GIORNI IN ISOLAMENTO

    Cortile del carcere femminile Dozza di Bologna (fermo immagine tratto da Milleunanotte)

    Attraverso vuoti corridoi con il pavimento in grigio cemento, levigato e sudicio, le guardie carcerarie mi conducono in una piccola stanza. Vi sono una grande finestra, sprangata con sbarre di ferro, un armadio di metallo con ante scorrevoli e un tavolino di legno. C’è odore di chiuso e di muffa. Mi portano via le ultime cose: la borsa di pelle, le chiavi di casa, il blocchetto per gli appunti, la spazzola per capelli, le sigarette e il portafogli vuoto. Perfino la giacca e i lacci delle scarpe, tutto viene registrato e depositato nel casellario (magazzino). Una guardia mi perquisisce. Spogliati!, mi ordina. Mi dà del tu, sebbene non mi conosca. Mi levo adagio i vestiti, rimuovo con cautela il busto ortopedico. Lei palpa ciascun capo, perfino il busto. Non me lo vuole più restituire, vuole depositare anche quello. Probabilmente crede che lo porti per divertimento! Naturalmente dei dolori che provo senza busto neanche si rende conto. Vede tuttavia che mi reggo in piedi a fatica e che devo appoggiarmi al tavolo. Le spiego che sono ammalata, che ho problemi a un disco intervertebrale, che devo essere operata e che il medico mi ha prescritto il busto. Lei ordina ancora: Levati la canottiera… il reggiseno, anche le mutande! Gambe divaricate! … Accovacciata! … Di nuovo in piedi! … Di nuovo giù! …, e così un paio di volte ancora. Eseguo i suoi comandi umilianti. Cosa vuole da me?!

    Mi è consentito rivestirmi, mi danno due sacchetti di plastica trasparente, contenenti due lenzuola, una federa, due piatti di metallo, un cucchiaio e una forchetta, due bicchieri di plastica, sapone, dentifricio e spazzolino da denti, qualche bustina di shampoo e due rotoli di carta igienica, oltre a una pesante coperta slavata. Mi sento sfinita e incredibilmente debole. Accompagnata dalla guardia salgo una scala, porto con difficoltà questa roba e il mio atto di accusa al primo piano, sezione A, cella 19. Ogni minimo movimento mi procura mal di schiena. Perché devo portare tutto da sola? Perché eseguo i suoi ordini? Il dottore me lo ha espressamente detto di non portare nulla di pesante…

    Alle tredici, una spessa porta blindata senza maniglia si serra rumorosamente dietro le mie spalle con uno scatto, come se dovessero rinchiudere un elefante. La cella è disgustosa, umida e fredda. Il pavimento è sudicio, tutto coperto di polvere, le pareti imbrattate di muco, gomma da masticare e dentifricio, su di esse nomi, date e frasi nelle lingue più diverse. La cella ha una grande finestra con sbarre di ferro e in più una fitta griglia che non lascia passare neanche un dito. Questa griglia rende la cella quasi buia. Per guardare fuori devo avvicinarmi. Ci sono due letti arrugginiti, ancorati al pavimento, un ammuffito materasso di gommapiuma e un cuscino fatiscente, oltre a un tavolino e uno sgabello, due armadietti avvitati al muro e un calorifero tiepido. Sopra la porta blindata si trova un piccolo televisore, protetto da una spessa lastra di vetro, con canali esclusivamente italiani. Non ho mai seguito i programmi italiani. Inoltre, al momento la tv non m’interessa proprio. Tutto in questa stanza ha un’aria vuota e fredda. Attraverso una porta di ferro ho accesso a un gabinetto con bidet e lavabo dall’acqua fredda che odora di cloro, l’acqua potabile. Priva di forze, mi lascio cadere sul letto, che con infinita fatica ricopro con il lenzuolo. La schiena mi fa male, tremo, ho freddo e tutto mi disgusta. Vorrei solo avvolgermi in un caldo piumone e addormentarmi. Qui te lo puoi sognare, il piumone. Devo accontentarmi della rigida coperta e la mia calda giacca invernale giace nel casellario.

    Oh mio Dio, dove sono capitata?

    Trascorro dieci giorni in questa cella di isolamento, giorno e notte – da sola. Se solo avessi un pianoforte! La musica mi ha sempre rimesso in sesto. Mi sento sola e abbandonata, depredata e vuota. Le lacrime mi scorrono sul viso. O Traurigkeit, o Herzeleid!² Non mi è concesso di parlare né di vedere nessuno – perché, non lo so. La mia stessa voce mi diventa estranea. Parlo con un ragno che ha costruito la sua ragnatela in un angolo del pavimento. Se fossi piccola come lui scapperei subito fuori di qui, attraverso le fitte maglie di questa bocca di lupo, verso la libertà. Fuori tutto è grigio, il cielo, le mura e una serra vuota e abbandonata. Una guardia cammina avanti e indietro giorno e notte, su un lungo muro, a passi regolari. I miei figli, cosa faranno? Mi mancano così tanto. Hanno bisogno di me e io ho bisogno di loro! A casa avrei delle cose da fare, suonare per la messa della domenica, esercitarmi all’organo, lavorare. Chi farà tutto questo al posto mio? Non posso mica piantare in asso tutto e tutti! Devo andare a casa!

    Di tanto in tanto le guardie mi controllano attraverso una piccola apertura nella porta, il blindo, come lo chiamano, e mi consegnano qualcosa da mangiare. Da bere c’è caffè caldo al mattino, se no per l’intera giornata nient’altro che la fredda acqua al cloro del rubinetto. Quasi non riesco a berla. Dolori di stomaco mi tormentano un giorno dopo l’altro. Lavo i piatti con l’acqua fredda e una piccola spugnetta che mi hanno dato. Il grasso del cibo resta

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