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La Commedia della Morte
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E-book197 pagine2 ore

La Commedia della Morte

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Info su questo ebook

Tonnicoda 1997. Un duplice omicidio scuote il minuscolo paese del reatino e la vita del piccolo Marco.
Roma 2017. A 20 anni esatti dagli efferati delitti, le strade della capitale diventano teatro di misteriosi uccisioni. 
Il Commissario Indro Liberati dovrà imbastire una corsa contro il tempo per fermare il folle assassino che imperversa per le strade di Roma. 
Unico indizio, delle maschere di Carnevale, simboli dell'antica Commedia dell'Arte, divenute ormai un tetro presagio di sventura.
Un thriller dall'animo horror, che lascerà il lettore profondamente turbato.
LinguaItaliano
Data di uscita24 nov 2019
ISBN9788835336204
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    Anteprima del libro

    La Commedia della Morte - Ambra Fraschetti

    Cri.

    1

    Tonnicoda 11/06/1996

    La clinica è in gran fermento.

    Succede ogni volta che si avvicina la messa in scena dello spettacolo annuale della Casa. I miei ospiti sono molto eccitati e coinvolti nei preparativi: ci sono costumi da cucire, scenografie da montare e copioni da imparare. Sono sempre più soddisfatto del progetto Mens Sana, procede secondo la scaletta che mi ero prefissato. La recita costituisce una tappa importante nel processo di guarigione dei pazienti. Tutti loro aspettano con ansia il momento in cui potranno uscire dalla propria esistenza e immergersi in un altro mondo, un'altra vita, un'altra storia.

    Il dottor Angelo Corbucci chiuse il diario e si diresse nel grande spazio adibito a sala da pranzo. Come per il resto della clinica psichiatrica, tutto era allestito in modo da sembrare una grande e accogliente casa di campagna. I due lunghi tavoli in pesante legno massello erano apparecchiati per il pasto e gli ospiti iniziavano a prendere posto accompagnati dal vigile sguardo degli infermieri. Nessuno di loro era mai stato pericoloso verso gli altri, qualcuno piuttosto lo era stato verso se stesso. La maggior parte dei pazienti presentava lievi ritardi psichici, cognitivi e fisici; solo una minima percentuale era schizofrenica, bipolare o maniaco-depressiva. Sorrise benevolo a uno degli ospiti più vecchi della struttura, un uomo di piccola statura, calvo e mezzo sdentato. Non aveva nessuno al mondo se non una sorella, un ricco magistrato milanese che si guardava bene dal venirlo a trovare e che preferiva pagare per dimenticarlo.

    La sua attenzione venne catturata dall’unico paziente a non essere ancora stato valutato e studiato. L’ultimo arrivato, Cristiano Pizziconi, esile e apparentemente tranquillo, mandato in quella piccola oasi di pace dopo aver quasi strangolato e ridotto in fin di vita l’anziana madre in uno scatto d’ira. Corbucci era stato molto combattuto riguardo l’arrivo di questo paziente, questo era il primo violento. La sua però era stata una scelta quasi obbligata. Se voleva che il progetto Mens Sana avesse un minimo di speranza di essere adottato anche in altre parti d’Italia, e quindi continuare a ricevere le sovvenzioni, avrebbe dovuto dare un segnale forte. E quale miglior esempio se non un paziente del genere? Doveva solo capire quali erano le patologie che lo affliggevano, eventuali traumi infantili e il fattore scatenate del raptus. Le sue elucubrazioni furono interrotte da una voce infantile.

    «Dottore, voglio fare Brighella, non voglio fare Colombina, non mi si addice!»

    La signora Preziosi gli parlava con tono adirato, mentre con una mano tirava il camice immacolato.

    «Suvvia, le assegnazioni dei ruoli sono già state fatte e poi, lasci che le confidi un segreto,» disse il dottore con fare cospiratorio «lei ha imparato la parte di Colombina in modo superbo. Durante le prove sono rimasto impressionato. È stata una delle più brave!»

    L’espressione torva sul volto scavato della donna mutò all’istante.

    «Dottore, l’ho sempre detto che Colombina è la parte più bella e difficile di tutto lo spettacolo.»

    La guardò benevolo e le prese la mano scortandola fino al suo posto a tavola.

    «Ora non pensi alla recita, mancano ancora sette giorni. Si goda il pranzo dato che oggi con la cuoca sono di turno Paolo e Federico, sarà molto interessante vedere cosa hanno fatto di buono quei tre. Ci vediamo più tardi nel mio ufficio per la sua seduta.»

    La lasciò in compagnia degli altri pazienti con ritrovata serenità. Gloria Preziosi in passato doveva essere stata una di quelle ragazze belle come bambole di porcellana. Era minuta e aggraziata, si vedeva che la giovinezza era stata generosa, al contrario dell’età adulta dove la mente le aveva logorato anche il corpo. Da quando a trentacinque anni aveva avuto un forte esaurimento, era stata sballottolata da un ospedale psichiatrico all’altro senza nessun progresso. Al suo arrivo a Tonnicoda, aveva quarantacinque anni e nessuna speranza, il suo stato mentale, a volte semicatatonico a volte maniaco depressivo, sembrava irreversibile. La sua famiglia d’origine si riduceva a una figlia malata di tumore che veniva a farle visita una volta al mese se le condizioni di salute lo permettevano. Non ci sarebbe voluto molto e la Preziosi si sarebbe ritrovata sola al mondo. La Casa del Sole però avrebbe continuato ad accoglierla, anche se non era più in grado di pagare il ticket simbolico destinato alle persone poco abbienti. Inoltre, la struttura aveva avuto un effetto sbalorditivo su di lei. Era una di quelle pazienti tenuta in gran considerazione dal dottor Corbucci, un ulteriore esempio di come il suo approccio riuscisse a far diminuire gli stati catatonici drasticamente. Quello in particolare era stato un miglioramento che aveva sorpreso tutti. Corbucci credeva fermamente nel suo metodo , che aveva quattro principi basilari: un luogo accogliente in cui vivere, un programma di sedute costante e frequente, una graduale riduzione di psicofarmaci e, soprattutto, tanta umanità da parte degli operatori sanitari.

    Dopo aver salutato i suoi pazienti, lasciò la sala da pranzo dirigendosi all’uscita.

    «Te la svigni sempre con la scusa che sei il capo e che hai una famiglia e a me tocca pranzare qui.» Non ebbe nemmeno bisogno di girarsi, aveva riconosciuto quella voce stridula e sgradevole. Il suo ostile braccio destro, Guido Serravalle, lo fissava da sotto gli occhiali con un sorriso beffardo stampato in faccia.

    «Dai, Guido, non ti lamentare, il vittimismo non ti si addice» lo liquidò, pensando che invece il vittimismo era l’unica cosa di cui era capace da un po’ di tempo a quella parte. Vittimismo e crudeltà.

    Attraversò la stradina sterrata di fronte all’ingresso principale e aprì il piccolo cancello verde nascosto dalla siepe. La ghiaia scricchiolava sotto i suoi passi, in lontananza sentiva l’allegro vociare della sua famiglia intenta ad apparecchiare. Non appena fece capolino sulla porta della cucina suo figlio lanciò un urlo di gioia e si fiondò tra le braccia. «Papà! Dopo mangiato facciamo due tiri a pallone? Ti prego!»

    «Marco, dai il tempo a tuo padre di entrare dentro casa» lo redarguì sua madre.

    «Ok, dopo pranzo faremo due tiri in porta, prima però fammi dare un bacio a questa splendida signora.»

    I coniugi Corbucci si salutarono affettuosamente mentre il figlio di otto anni saltellava loro intorno.

    Vivevano dall’altro lato della struttura, un antico convento in disuso, sito nel centro di Tonnicoda, il piccolo paese che ospitava la Casa del Sole. Marco andava nella scuola locale, dove la classe più numerosa era formata da sei alunni. Era un paese grazioso e minuscolo, dove tutti si conoscevano e dove molti erano imparentati. La clinica era stata un toccasana per quella comunità, aveva evitato il deflusso della gioventù alla volta delle grandi città. Tutta l’economia di Tonnicoda girava intorno alla struttura e agli introiti derivanti dal continuo viavai di parenti che si recavano a far visita ai loro cari. Il paese era stato scelto da Corbucci proprio per la bassa densità abitativa e l’assenza di inquinamento acustico. La centralità della posizione era un altro fattore che aveva contribuito a determinare la decisione finale mista alla gradevole sensazione di ospitalità che i locali gli avevano suscitato quando aveva svolto il sopralluogo. Il benessere e il totale recupero dei pazienti erano la sua missione.

    «Come sta andando l’allestimento dello spettacolo, Angelo?» domandò Susanna mentre serviva una generosa porzione di pasta.

    «Bene, sono molto soddisfatto di come procede. Il tema della Commedia dell’Arte è in linea con la terapia e sta aiutando i pazienti ad affrontare le loro patologie.» Portò alla bocca una forchettata di pasta fumante. «Mmm, complimenti. Questi spaghetti sono dannatamente buoni. Non trovi anche tu, Marco, che la mamma sia fantastica davanti ai fornelli?»

    «Papà, la mamma è sempre fantastica!»

    «Adulatori. E tu non imprecare davanti al bambino.»

    Finirono di mangiare e mentre Susanna riassettava, Angelo e Marco andarono a giocare nel piccolo giardino adiacente la casa.

    «Papà, vorrei partecipare allo spettacolo. Posso vestirmi anche io?»

    Angelo stoppò il pallone e si avvicinò al figlio abbassandosi alla sua altezza.

    «So che ti piacerebbe molto ma non puoi prendere parte alla recita.»

    «Perché? Non credo che i signori nella Casa non mi vogliano, sarò bravo, te lo prometto» si lagnò il bimbo.

    «Sono sicuro che saresti bravissimo ma, come ti ho già spiegato, la recita che facciamo tutti gli anni non è solo un momento di festa, fa parte della cura che somministro a queste persone.»

    «Ma io non capisco. A me non sembra che queste persone abbiano qualcosa di strano.» Tirò su con il naso. «Certo, alcune sono un po’ lente, altre parlano in modo strano ma… tutto sommato sono simpatici! Anche quel signore, l’ultimo arrivato, quello secco come uno stecchino, lui è stato gentile, mi ha ridato il pallone e mi ha detto che sono bravissimo a calciare.»

    Il dottore s’irrigidì, il volto scuro e pensieroso, aveva già capito a chi si stava riferendo.

    «Dove hai incontrato quel signore?»

    Il bambino si morse il labbro inferiore e cominciò a parlare in modo concitato.

    «Papà, ti prego, non arrabbiarti… Il pallone mi era finito nel giardino della clinica e io sono entrato scavalcando la rete. Quel signore aveva la mia palla in mano e me l’ha ridata, tutto qui. Scusa.»

    Corbucci si calmò. D’altronde avrebbe dovuto preventivare che un bimbo di quell’età prima o poi avrebbe disobbedito al divieto impostogli di non scavalcare la recinzione.

    «Marco, ti ho già spiegato perché non voglio che entri nel giardino della clinica. Promettimi che non lo farai mai più.»

    «Ma, papà, se il pallone finisce di là…»

    «Te lo farò riavere. Marco, prometti.»

    «D’accordo.» Annuì vigorosamente.

    «Ora, per favore, raccontami di quel signore. Che impressione ti ha fatto?»

    «Non ci ho parlato molto. Mi ha ridato il pallone e mi ha detto che per aver fatto arrivare il pallone fin là dovevo essere veramente forte, un calciatore vero. Poi mi ha chiesto dove fosse la mamma e se f ossi tuo figlio. Tutto qui.»

    «Era la prima volta che lo vedevi?»

    Il bambino fece cenno di sì.

    «Se dovessi rivederlo nei paraggi promettimi che mi avviserai subito. D’accordo?»

    Marco annuì e insieme si avviarono verso casa.

    Tonnicoda 20/06/1996

    Sono ancora sorpreso per quello che ha fatto mio figlio. Dannazione! Devo assicurarmi che non valichi mai più il cancello. Mi domando anche come Cristiano sia arrivato fin lì senza essere visto dagli infermieri. Nessuno dei pazienti ha accesso alla parte della clinica vicino a casa nostra. E soprattutto, cosa stava facendo?

    Ieri, appena ho terminato la conversazione con Marco, mi sono chiuso nel mio studio e ho riguardato la sua cartella clinica con maggior attenzione. Il motivo per cui si trova nella Casa del Sole è perché non lo si ritiene pericoloso per la società. I colleghi che hanno effettuato la perizia psichiatrica del tribunale hanno riferito che si è trattato di un raptus in seguito a un forte stress. Aveva appena ricevuto una lettera dove l’azienda gli comunicava che lo avrebbero messo in cassa integrazione. A questo va aggiunta la presenza di una madre con personalità dominante che lo opprimeva quotidianamente. Un quadro clinico frequente nelle famiglie monogenitoriali, dove la madre resta vedova in giovane età.

    I colleghi scrivono che per questa serie di fattori, una banale discussione ha fatto scattare in lui una follia che ha quasi ucciso la madre a mani nude. I carabinieri lo hanno rintracciato qualche ora più tardi da un fioraio. Si è giustificato affermando di aver avuto una discussione accesa con la mamma e di voler rimediare con un bel mazzo di fiori. Oggi la signora sta bene, anche se gli ha quasi spezzato la trachea.

    La domanda che mi pongo da quando è arrivato è: si è trattato di un raptus oppure nasconde dell’altro? Dalle sedute fino a ora non è emerso granché, per questo nell’incontro di oggi voglio stuzzicarlo e provocare una reazione. Ragionavo anche sul punto in cui ha incontrato Marco. Una zona isolata, lontana dai posti dove sono soliti stazionare gli altri pazienti. Deve essere un solitario se si è spinto fino lì. Forse cercava un po’ di privacy. Se analizzo bene la situazione, mi rendo conto che prima o poi sarebbe successo. Siamo troppo vicini alla clinica e non è così difficile arrivare da noi. Uscire dalle mura è praticamente impossibile, arrivare a casa nostra invece… Devo dire agli infermieri di essere più vigili.

    Tonnicoda 20/06/1996

    L’incontro con Pizziconi mi lascia perplesso. Apparentemente non sembra un violento ma un uomo mite e schivo. Dopo averlo messo a suo agio ho notato l’interesse che nutre per la psicologia e la sua curiosità verso lo spettacolo della Commedia dell’Arte che stiamo allestendo. Man mano che la conversazione proseguiva, il nesso tra le maschere e le patologie psichiatriche sembrava scuoterlo dalla sua solita pacatezza, mi ha subissato di domande : P erché a nessuno di noi è stata assegnata la maschera di Arlecchino? . Gli ho spiegato che quella l’avrei indossata io. Nella sua parlata calma ha continuato : P erché non a un altro paziente? . G li ho spiegato che ogni ospite ricopriva un ruolo ben preciso all'interno dello spettacolo in base alle sue peculiarità caratteriali. Non credo che il Pierrot rispecchi la mia personalità. Perché mi ha assegnato proprio lui, io sono più un Arlecchino o al massimo un Capitano. Ho inteso il suo desiderio di cambiare maschera e il suo sottile tentativo di convincermi a fargli quella concessione. E da questo ho compreso che il suo atteggiamento è solo una messinscena. Non è né schivo né pacato. Ovviamente non ho permesso una cosa del genere, le parti sono state scelte con dovizia e tutti hanno imparato il loro copione. Persino io che sono un pessimo attore!

    Non è stato contento. Mi è parso di averlo visto stringere leggermente i pugni, non in maniera plateale, ho colto la cosa solo perché il mio sguardo si è posato sulle sue nocche e mi sono sembrate più bianche del solito. Ma è stato un attimo, quindi non posso esserne certo. L’unica cosa di cui sono sicuro è che vorrebbe passare più tempo con me. Noto che il soggetto si ritiene colto, spesso lo ha sottolineato con falsa modestia. È interessato a molteplici settori scientifici e si mette sempre al mio livello, cercando d’instaurare un rapporto amicale. Sono sempre più convinto di aver azzeccato la scelta della sua maschera, lui e Pierrot sono molto simili. Un po’ malinconici, con un velo di tristezza sempre pronto a emergere. A maggior ragione penso che questa terapia gli farà bene.

    Rileggendo ciò che ho appena scritto comincio a pensare che sia affetto da una patologia narcisistica, ma è presto per dirlo. Ho bisogno di studiarlo ancora.

    Mancavano solo due giorni allo spettacolo e nel paese c’era un bel da ffare . Il falegname era ormai un ospite fisso al desco del dottore e Luigi, il droghiere, nonché unico macellaio nel raggio di quaranta chilometri, non faceva che andare avanti e indietro con il suo Ape tra le viuzze di Tonnicoda per portare il necessario a preparare la grande cena post spettacolo con tutti i parenti dei pazienti. Anche le signore non

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