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Figure bresciane nella cultura e nella letteratura tra Otto e Novecento
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E-book282 pagine4 ore

Figure bresciane nella cultura e nella letteratura tra Otto e Novecento

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I rapporti che intercorrono tra cultura italiana e cultura locale si sono formati e hanno avuto una loro evoluzione nel tempo. Dal punto di vista letterario tali rapporti possono essere ricondotti alla contrapposizione tra letteratura nazionale e letteratura localizzata sul territorio, con tutte le implicazioni, linguistiche, oltre che culturali in senso lato, che tale contrapposizione comporta. Via via alternandosi, nel corso della storia, da situazioni di sudditanza o di imitazione a situazioni di orgogliosa rivendicazione di identità linguistica e letteraria, la cultura bresciana si trova oggi a confrontarsi con l’attualissima e generale contrapposizione tra localizzazione e globalizzazione.
L’identità culturale si costituisce sulla base di un’appartenenza che traspare nelle opere di autori che in un qualche modo la caratterizzano. E questa appartenenza culturale non è altro che un patrimonio storico (letterario e non) che viene mantenuto vivo e riattualizzato continuamente.
L’identità letteraria trova le proprie radici nella storia della letteratura, non in astratto, ma concretamente, nello studio, nella lettura e nella riproposta dei vari autori e delle loro opere.
LinguaItaliano
Data di uscita28 gen 2020
ISBN9788899415594
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    Figure bresciane nella cultura e nella letteratura tra Otto e Novecento - Carla Boroni

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2020 Oltre S.r.l.

    www.oltre.it

    ISBN 9788899415594

    TITOLO ORIGINALE DELL’OPERA:

    Figure bresciane nella cultura e nella letteratura tra Otto e Novecento

    di Carla Boroni

    Marchio editoriale Gammarò

    info@gammaro.eu

    Collana * Maestri e altre storie *

    SOMMARIO

    Autore

    Introduzione - Letteratura e cultura a Brescia tra Otto e Novecento di Ermanno Paccagnini

    FIGURE BRESCIANE NELLA CULTURA E NELLA LETTERATURA TRA OTTO E NOVECENTO

    La letteratura italiana secondo Gian Battista Corniani e Camillo Ugoni

    Camillo Ugoni e le Riviste francesi

    Contributo alla lettura dell’Epistolario di Giuseppe Nicolini

    Il romanzo storico di ambiente bresciano

    BIBLIOGRAFIA

    CARLA BORONI

    Laureata in Pedagogia all’Università Cattolica di Brescia e in Lettere all’Università La Sapienza di Roma, Carla Boroni è professore associato alla cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea (Scienze della Formazione) presso l’Università Cattolica di Brescia. Ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e diversi libri tra i quali: Dall’Innocenza alla Memoria: Giuseppe Ungaretti, Corbo & Fiore, Venezia 1992; per La Compagnia della Stampa i volumi Tra Sette e Ottocento. Momenti di critica e letteratura bresciana e Giuseppe Ungaretti. Amore e Morte, un percorso lirico (1999). Per l’editore De Ferrari di Genova ha curato la raccolta Le parole legate al dito (141 racconti dal Giornale di Brescia di Enrico Morovich), in due volumi pubblicati rispettivamente nel 2009 (anni 1949-1970) e 2010 (anni 1971-1978). Sul rapporto tra sport e letteratura ha scritto Lo sport nella letteratura del Novecento. Il mondo dello sport raccontato dagli scrittori, Gussago (Bs), Vannini 2005 e, per l’editore Ghenomena, Gli scrittori italiani e lo sport, 2012. Nel 2015 ha curato la nuova edizione aggiornata in volume unico di Enrico Morovich, I racconti per il Giornale di Brescia per Massetti Rodella Editori. Ancora per Vannini è stata ideatrice e direttrice della Collana Didattica e Letteratura. Studiosa di fiabe e favole, italiane ed europee, ha prodotto numerosi volumi fra cui Favoleggiando (2006), Fiabe & favole golose (2009), I mestieri delle favole (2010) sempre per i tipi Massetti Rodella Editori. Per SEFER, ha pubblicato nel 2016 Paralipomeni e, per la collana I Testi, Appunti per il mio Novecento. Figure, percorsi e temi della letteratura italiana e Scuola e letteratura del 2017. È del 2018 Donne di cuori, donne di picche. Storie d’amore (e non) nella letteratura italiana fra Ottocento e Novecento.

    LETTERATURA E CULTURA A BRESCIA

    TRA OTTO E NOVECENTO

    di Ermanno Paccagnini

    Prima di affrontare la carrellata storica che il titolo propone, mi par corretto avanzare talune indispensabili premesse. La prima delle quali può riprendere le medesime perplessità affacciatesi a posteriori, dopo aver accettato il cortese invito a rivisitare il mondo culturale bresciano tra Otto e Novecento. Perché è vero che a tutta prima la proposta mi s’era presentata allettante e persin facile, ripensando ai non pochi autori e momenti della letteratura bresciana che m’era avvenuto d’affrontare e anche approfondire direttamente o di passaggio, da bresciano d’adozione. Autori di secoli anche precedenti a quelli in questione, come nel caso delle opere dei fratelli cappuccini Mattia e Paolo Bellintani da Salò. Ma soprattutto autori ottocenteschi e novecenteschi, che richiamo riassuntivamente anche per stilare una prima mappa o griglia del percorso che m’accingo a fare: e penso per il XIX secolo a Giulio Uberti, Paolo Guerrini, Federico Odorici o Luigi Fe d’Ostiani, Guerzoni, Abba, Zanardelli che, come si vede, non solo provengono dai campi più svariati della cultura bresciana (letteraria, politica, storica), ma che, nei riguardi di Brescia, si propongono anche con diverse realtà anagrafiche. Quanto al XX secolo, a parte ovviamente Mario Apollonio, che ben mi guardo dal considerare, le presenze sparse portano i nomi di Tonna e Bresciani, Alessandro Spina e Vico Faggi, e tra i più recenti quelli di Busi, Doninelli o Permunian: ma se in questo caso l’elenco pare evidenziare la sola linea letteraria, l’impiego della lente d’ingrandimento sul Novecento bresciano verrà a comportare una ricca e quanto mai varia serie di riflessioni.

    A partire da quella, che interessa l’intera ricerca, di contenuto metodologico. Ossia che quel titolo, letteratura e cultura, mi porterà a riflettere, come accennato, non sulla sola letteratura, ma pure su una serie di manifestazioni anche in campi che alla letteratura (non però alla cultura) parrebbero estranei: e, però, cercando in essi, almeno ove possibile, agganci anche a loro rivisitazioni in ambito letterario. La seconda premessa metodologica ha sempre per oggetto il titolo: quel a Brescia che intenderò non in senso stretto, in quanto cerchia cittadina, ma come ‘Bresciano’. Infine, e non certo la meno importante, è il ricordato risvolto anagrafico degli autori considerati: perché ove assumessi unicamente realtà anagrafiche brescianamente D.O.C., la ricerca non porterebbe molto lontano; né sarebbe giusto dimenticare quanto a Brescia e nel Bresciano hanno significato presenze che potremmo definire d’importazione, momentanea o definitiva che sia. Ciò che mi detterà anche una suddivisione tra chi è bresciano per nascita, salvo poi emigrare, e di chi bresciano lo diviene per adozione obbligata (ragioni politiche) o convinta; e di chi bresciano lo è di passaggio: fisico o ideale e solo sporadico, trattenendo di Brescia e del Bresciano un ricordo comunque tanto forte da depositarlo in una pagina o in uno scritto. Con problemi che vanno anche oltre, in tale ambito di fuga o arricchimento che dir si voglia, e che riguardano i possibili incroci tra culture.

    Se prendo a considerare l’elemento letterario a ridosso di quella preposizione semplice tra (tra Otto e Novecento) e quindi inizio a riflettere, che so, in termini di 1850-1971 (assumo l’ultima data dalla morte di Mario Apollonio) o di 1850-oggi, mi ritrovo davvero con tantissimi nomi, ma con una sostanza piuttosto povera quanto a valenza estetica. E dico povera soprattutto se penso a cosa è stata e cosa ha significato la letteratura a Brescia e nel Bresciano – e a come da qui si è riflessa in Italia – nei decenni precedenti. Senza riandare al Settecento, che vede proprio a Brescia la pubblicazione del primo dei due volumi del Caffe dei fratelli Verri (Brescia è anche il luogo dell’edizione dei Sepolcri del Foscolo, che lì vi giunge e vive nel 1807), è sufficiente sbirciare nel primo ventennio dell’Ottocento per imbattersi in una ricca schiera di nomi: da un editore come Nicolò Bettoni (1770-1842) alla fondazione di un’istituzione come l’Ateneo (1801); a letterati come Cesare Arici (1782-1836), i fratelli Camillo (1784-1855) e Filippo (1794-1877) Ugoni, Angelo Anelli (1761-1820), Antonio Bianchi (1772-1828), Gianbattista Corniani (1759-1813), Giovita Scalvini (1791-1843), Giuseppe Nicolini (1789-1855) o anche, e non solo per riflesso manzoniano, Gian Battista Pagani (1784-1864). E basta poi riprendere i versi che lo stesso Scalvini scrive poco dopo il suo rientro dall’esilio, in seguito al decreto imperiale di amnistia del settembre 1839, per avere il polso reale di come la città sia mutata da quei primi decenni:

    No, non ritrovo

    più quel medesimo vaneggiar del cuore

    né i lochi stessi; quel che un dì mi piacque

    or guardo indifferente: la mia casa,

    e i colli miei.

    […] Tutto mutò. Perì da tutti i volti

    la beltà: lasso e del materno core

    perì l’affetto. Uno straniero io vengo

    nel tetto mio¹.

    Se poi ci si sposta, come detto, dal 1839 a metà del secolo, tali condizioni sono ancora ulteriormente e profondamente mutate. È questo aspetto che mi suggerisce di utilizzare quale discrimine e punto di partenza il 1850: anche perché, dopo la gloriosa stagione delle Dieci Giornate, il susseguirsi di restrizioni restauratrici e soprattutto le ricadute reazionarie non costituiscono di certo la condizione spirituale più idonea per uno scrittore. Questi, in poesia, privilegia quindi una letteratura di tipo intimista, sulla scorta dell’imperante lezione pratiana di Memorie e lagrime e altre sue ravvicinate raccolte, mentre in narrativa e in teatro si procede con il Leitmotiv del romanzo o del dramma storico sulla scorta della stagione di Lorenzo Ercoliani (1806-1866)²: come possono ben esemplificare l’avventura letteraria di Carlo Cocchetti (1817-1888) con le tragedie storico-romantiche Manfredi (1847) e Imelda Lambertazzi (1856), che si affiancano ad altre sue ben più benemerite iniziative, quali la fondazione del settimanale scientifico-letterario L’Alba (20 marzo 1858)³ e il saggio Del movimento intellettuale della Provincia di Brescia (1867; accresciuto per la terza edizione del 1880); o le fatiche di Francesco Bettoni (1835-1898), vero sopravvissuto nei meandri del genere coi romanzi Tebaldo Brusato edito a puntate su Brixia e Brescia nel secolo passato, che affondano le proprie radici soprattutto nei suoi numerosi studi storici e di divulgazione, cui si affiancano anche delle Note di viaggio in Francia e Spagna. Che è poi quella degli studi storici – per aprire e chiudere subito una parentesi-, un’attività assai praticata e con notevoli risultati, finalizzata in particolare a indagare la storia della propria terra: e che può essere riassunta in un ideale percorso a staffetta tra Otto e Novecento che partendo da Federico Odorici (1807-1884) e Luigi Fé d’Ostiani (1829-1907) giunge a Paolo Guerrini (1880-1960) e a don Antonio Fappani⁵.

    Del resto, a ben vedere, gli anni immediatamente successivi alla metà del secolo paiono piuttosto una stagione di sopravvissuti per chi ha conosciuto il periodo aureo della letteratura bresciana. Basti al proposito il seguente veloce regesto: Pagani muore nel 1864; Luigi Lechi (1786-1867) vive il tiramolla dei contrasti con le autorità austriache per la presidenza dell’Ateneo, sicché il suo vero atto culturale prima della morte è la donazione alla Biblioteca Queriniana dei suoi taluni davvero preziosissimi incunaboli; Filippo Ugoni morirà nel 1877 dopo aver consegnato alle stampe nel 1860 l’edizione degli scritti del fratello Camillo, introdotti da una biografia di questi; Pietro Emilio Tiboni (1799-1876) cesserà di vivere solo nel 1876, più d’un ventennio dopo il suo tradottissimo Misticismo biblico (1853).

    Un caso a parte, e anzi una felice eccezione, è invece costituito da Costanzo Ferrari (1815-1868), per oltre un secolo un vero desaparecido della cultura bresciana, prima delle rivalutazioni del 1991 e 1998 a cura della Fondazione Civiltà Bresciana di don Antonio Fappani e di Flavio Guarneri, che lo hanno riesumato con un convegno e con un’edizione anastatica del pregevole poemetto del 1844 Un omaggio alla patria ovvero Il Sebino. E parlo di felice eccezione proprio alla luce di quanto egli viene scrivendo negli ultimi anni di vita, soprattutto dall’esilio parigino. Se è vero infatti che, narrativamente, si colloca nel consueto filone del romanzo storico di matrice manzoniana (Tiburga Olofredi, scene storiche del secolo XIII, 1846-1847; Valore e sventura, episodio storico della gloriosa difesa di Vercelli contro le armi di Spagna nel 1617, 1851; Lorenzo Gigli, episodio storico della Lega di Cambrai, 1858, interrotto), è altrettanto vero che con Maria da Brescia, ovvero l’amore e la patria di fatto si sposta sul romanzo contemporaneo (se si vuole: storico-contemporaneo), dato che questo Episodio della rivoluzione lombarda negli anni 1848-49, così il sottotitolo, è pubblicato proprio nel 1849. Ma Ferrari e culturalmente importante in particolare per il rivestito ruolo di tramite e informatore culturale tra Francia e Italia: da un lato dedicandosi a una cospicua attività di traduttore in francese di opere italiane, culminate nella versione del Principe commissionatagli dalla Bibliothèque Nationale, e nel tuttora apprezzato Gran Dictionnaire français-italien et italien-français; dall’altro, e soprattutto, con le recensioni che viene stendendo per il Messaggere di Parigi prima e per L’alba poi, nelle quali esprime giudizi soprattutto negativi sul genere in voga di Dumas padre, Féval e di molti altri appartenenti al genere appendicistico e al feuilleton, sul romanzo nero e su quello intimistico-erotico alla George Sand: cui contrappone per esempio – e giustamente – il valore letterario e l’originalità di Madame Bovary, della cui assoluzione si compiace (non fa cenno invece di Les fleurs du mal e delle relative disavventure giudiziarie).

    Si diceva invece del ripiegamento su se stessi di gran parte dei poeti: un clima intimistico che mostrano di essere disposti ad abbandonare, in particolare dopo l’Unità e l’affacciarsi della musa di Carducci, per recepire quest’ultima nuova lezione. Né son certo presenze particolarmente significative quelle di autori come Giovanni Antonio Folcieri (1839-1914) con le sue cantate patriottiche; di Giuseppe da Como (1842-1886), ingegnere, versato nelle discipline matematiche, professore di scienze esatte per lunghi anni nell’Istituto Tecnico di Brescia e in altre scuole, che traduce l’amore della scienza in poesia inseguendo l’ideale di una poesia didascalica in cui il fantasma del bello fosse l’irradiazione naturale della verità scientifica; l’armonia dei veri che, commovendo il poeta, si risolve in una visione estetica di bellezza, di grandezza, di ascensione infinita⁶; e neppure di Demetrio Ondei (1856-1923), più apprezzabile sul piano testimoniale delle prose, anche se esse si portano dentro lo stile gonfio e retorico proprio d’un risorgimentalismo ancora non sedato. Chi invece non ripiega su se stesso ma opta per una rivolta che ha quale immediata conseguenza la fuga e l’esilio è Giulio Uberti (1806-1876): mazziniano, antimilitarista, suicida per amore, attratto dalla democrazia federale repubblicana di Washington, portatore di un’esigenza di intransigente moralismo, che dopo una partenza poetica all’insegna di un’ironia di marca pariniana coi poemetti L’inverno (1841) e La primavera (1842), opera secondo moduli di severa classicità non scevra da sperimentalismi metrici (Poesie edite e inedite del 1871), recuperando negli ultimi anni anche problematiche postunitarie (Polimetro. Avvenimenti italiani dal 1859 al 1874 (né dimenticherei due pregevolissimi sonetti dialettali di tono melanconico-crepuscolare). È, la sua, una poesia patriottica particolarmente apprezzata in ambito democratico (da Cameroni) che lo vede spesso accostato in triade con Carducci e Cavallotti; la poesia di chi canta non solo i sofferti momenti della storia italiana (e tra questi anche una lirica dedicata a Tito Speri, occasione di un’identificazione con l’eroe nell’addio a una patria tra i colli al castello che di tante sacrate ossa t’adorni; / addio, Brescia guerriera, Ilio novello dai dieci giorni!: un addio alla stessa Italia prima di intraprendere la via dell’esilio verso Costantinopoli, e anche di avventure balzane, insieme all’inseparabile cagnetta Moschetta); ma anche celebra ideali mondiali (Washington) e sostiene una lotta poetica contro gli eserciti stanziali⁷.

    Ma questi sono gli anni in cui e possibile optare per una via intermedia tra il disimpegno e l’aperta ribellione al giogo austriaco: la via della silenziosa lotta attraverso il depistaggio culturale, quale è quello che Carlo Tenca conduce attraverso il suo giornale II Crepuscolo: qui fa le sue prove d’apprendistato politico Giuseppe Zanardelli, che proprio in quegli anni si lega d’amicizia anche con letterati dell’ambiente scapigliato, e in particolare del milanese Pungolo (tra questi, Leone Fortis e il di lui cognato Comin, poi direttore del Pungolo di Napoli). Ed e proprio sul Crepuscolo che il futuro uomo politico, che tanto condizionerà politicamente e culturalmente la vita bresciana per quasi mezzo secolo, vien pubblicando una serie di lettere Sulla Esposizione Bresciana dell’agosto 1857 (poi in volume nello stesso anno presso Valentini, Milano): un’iniziativa promossa unitamente dall’Ateneo, dalla Camera di Commercio e dalla Congregazione comunale per sottolineare e valorizzare le risorse non solo economiche, ma di capacità e creatività imprenditoriale della città e della provincia, anche al di là della dimensione agricola in cui la dominazione austriaca voleva invece comprimerla⁸.

    Ed e anche la linea di un clima culturale che preferisce esprimersi soprattutto sul versante pratico, di realizzazioni culturali di diverso segno, evidenziandosi per un forte incremento di istituzioni, iniziative associative, pubblicistiche, pedagogico-educative. Iniziando dal settore delle Esposizioni, per esempio: in cui viene individuata una delle occasioni più idonee a incidere culturalmente, attraverso mostre di vario tipo, a far capo dalla Preistorico-Archeologica del 1875 (ed è eredità tuttora vivacissima in Brescia), sostenute non di rado dai tanti istituti di credito che si vanno costituendo, a partire dalla Banca San Paolo voluta nel 1888 da Giuseppe Tovini, cui si devono anche la Banca Camuna, il Piccolo Credito Bergamasco e il Banco Ambrosiano.

    Mi pare che già da questi accenni si faccia evidente la difficoltà di percorrere in modo lineare e cronologico – col rischio di cadere in un indice di nomi e cose – una realtà culturale che, sostanzialmente priva di picchi, si dà comunque come attiva. Per certi aspetti mi vien da dire che ci si trova di fronte a una realtà poliedrica e multiforme che può ben rinvenire il proprio volto – ove la si voglia somatizzare – in un autore come Gabriele Rosa, nella stessa raminga curiosità culturale di un Mario Apollonio, o in un’istituzione come l’Ateneo di Scienze Lettere ed Arti, che proprio dopo la raggiunta Unità (il nuovo regolamento e approvato il 4 dicembre 1859) riprende appieno il proprio ruolo centrale nella vita culturale cittadina, come gli riconoscono anche personaggi autorevoli come Angelo De Gubernatis o il Theodor Mommsen di cui l’Ateneo pubblica nel 1874 le Inscriptiones urbis Brixiae et Agri Brixiani latinae e il quale a sua volta riconosce l’Ateneo almeno fra gli stranieri, modello: un’operatività fatta di iniziative, letture e soprattutto degli annuali Commentarii e riassunta dal Rosa nell’espressione: Ben merita l’affetto, le cure e la cooperazione di ogni più alto ingegno, di ogni animo gentile questo istituto che in tempi servili e miseri fu ricetto di libertà, che da quasi un secolo e tutela di quanto più giova e più si pregia, a cui si legano tante memorie onorate del nostro paese⁹.

    Gabriele Rosa (1812-1897) è davvero personaggio di spicco della vita culturale bresciana per quasi tre quarti di secolo, avendo cominciato a ‘frequentare’ giovanissimo lo Spielberg insieme a Pellico e Confalonieri – con cui si lega di stretta amicizia – , lasciandone memoria nelle due diverse redazioni della propria autobiografia: memoria articolata e analitica nella prima, stesa tra il 1840 e il 1863, che si arresta all’armistizio di Salasco; memoria più stringata per l’incalzare degli avvenimenti, ma comunque maschia e semplice in quella redatta sino al 1890¹⁰. Un personaggio speculare alla città per molti aspetti: che, da autodidatta e da lettore onnivoro, si trasforma in poligrafo eclettico, che s’occupa di economia e politica (di matrice cattaneana, e pertanto attivo sul tema delle autonomie, del regionalismo e del federalismo; vicino poi a Zanardelli nella lotta contro la Destra storica, ma senza cessare di frequentare anche repubblicani e socialisti della Plebe – cui collabora sotto lo pseudonimo di Rato – e ai gruppi di Agostino Bertani, Arcangelo Ghisleri e Felice Cavallotti); che scrive di statistica e archeologia, di folklore e silvicoltura, di bachicoltura e di miniere di ferro (sono suoi taluni articoli su tale argomento ospitati dal Politecnico). Insomma, è una bibliografia, la sua tra il 1848 e il 1895, che Ghisleri fa ammontare a 237 titoli, tra i quali spiccano lavori come la Storia naturale della civiltà, la Guida al lago d’1seo, ma ove si rinvengono pure le postume e trascurabili Poesie dialettali a fianco di più attenti lavori di dialettologia. Ne dimenticherei, nel presente contesto, la sua pur marginale attività di critico letterario, che presenta aspetti curiosi e degni di menzione: perché per esempio – sollecitato da un romanzo storico su Brescia – decide di seguire dappresso l’attività di romanziere di Luigi Capranica, di cui recensisce via via La congiura di Brescia (30 novembre 1862 sul Museo di Famiglia di Emilio Treves), Fra Paolo Sarpi (10 gennaio 1864: sempre sul Museo di Famiglia) e Donna Olimpia Pamfili. Storia del secolo XVII (15 novembre 1869, sulla democratica Gazzetta di Milano); scegliendo persino di occuparsi di poesia in occasione della pubblicazione della Ghirlanda di canti. Per il centenario di Dante del suo amico Bernardino Zendrini (1839-1879), bergamasco di nascita, professore di Letteratura germanica all’Università di Padova e di Letteratura italiana all’Università di Palermo, ma bresciano di vacanze, anche perché da valli camune era disceso il padre. Una recensione, quella del Rosa sul Museo di Famiglia del 7 maggio 1865, che gli provoca una severissima reprimenda da parte di Gaetano Lione Patuzzi¹¹. Il quale giustamente gli rimprovera, fra l’altro, una sostanziale incompetenza nel giudicare, dato che in quella recensione, mentre osannava Zendrini, il Rosa si concedeva a pesanti ironie sui versi di Arrigo Boito e ancor più sulle Penombre di Praga, che Patuzzi aveva buon gioco a dimostrargli assai più geniale e innovativo di Zendrini: ma il rimprovero accennava pure a un’assenza di sensibilità umana da parte del Rosa, dato che, tra l’altro, Zendrini non solo era amico dei due poeti, ma con Praga e Boito era stato sodale nell’avventura scapigliata del Figaro (7 gennaio-31 marzo 1864).

    Ma già che ho ricordato i nomi dei due poeti scapigliati, è la stessa associazione onomastica a suggerirmi un percorso del tutto particolare nel rivisitare questo periodo. E un’associazione che mi ricorda come nel Bresciano, e particolarmente ad Adro, Praga e Boito avessero occasione di ritrovarsi spesso, d’ estate, allorché il salotto della contessa Ermellina Maselli Dandolo si trasferiva in villa. E ove, anzi, proprio Praga ritrova alcuni dei suoi ultimi momenti di pace, almeno esteriore, se non proprio interiore, che lasciano tracce in alcune delle sue ultime e più intense poesie. E il conseguente percorso che mi suggerisce tale associazione di nomi è una riflessione su due altri aspetti del fenomeno letterario in quel di Brescia e del Bresciano. Ossia, il suo costituirsi, oltre che come letterarietà di importazione, più o meno stanziale, anche come letterarietà di semplice passaggio, stante la presenza di alcuni salotti letterari.

    Per partire quindi proprio da questi ultimi, ma senza allontanarmi troppo dal richiamo

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