Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L'arte rinascimentale nel contesto
L'arte rinascimentale nel contesto
L'arte rinascimentale nel contesto
E-book765 pagine8 ore

L'arte rinascimentale nel contesto

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Fin dalla trattatistica del tempo, l’arte italiana del Quattrocento è stata vista come una «rinascita» di valori, estetici, morali, culturali, persi o sopiti durante la lunga stagione dell’Evo «Medio»; e quindi come prodromica all’esito ancora più alto, anzi definitivo, della «maniera moderna».
Il Rinascimento, specie quello toscano, sarà la palestra privilegiata della nascente connoisseurship, e spesso anche soggetto privilegiato delle prime campagne fotografiche. L’autocoscienza è in ogni caso uno dei tratti distintivi della cultura, soprattutto italiana, tra Quattro e Cinquecento, e sempre più frequenti sono le celebrazioni di artisti da parte dei letterati. Il presente volume, attraverso lo schermo di
una pluralità di voci e di competenze, propone uno sguardo vivace e dinamico che si rivolge a studiosi, studenti delle nostre università e appassionati non rassegnati o arresi all’industria delle mostre di massa e della storia dell’arte intesa come intrattenimento.

I contributi presenti nel volume illustrano: la fortuna del Rinascimento da Vasari ai neoclassici (Ambrosini Massari), da Goethe a Berenson (De Carolis), e nella fotografia (Cassanelli), i trattati tecnici (Laskaris),
il tramonto della miniatura (Mulas) e la prepotente diffusione delle stampe, veicolo di divulgazione della maniera dei grandi artisti (Aldovini), la doppia valenza della terracotta, economico materiale di
riproduzione seriale e reinvenzione di una tecnica classica (Donato), l’arte vista dai letterati (Ruffino), la nascita di nuove iconografie sacre (Argenziano) e il comparire di nuovi media grafici (Gabrieli),
l’esponenziale diffusione del modello a pianta centrale (Davies) e i complessi rapporti con l’architettura classica, visti dall’osservatorio lombardo (Repishti), nonché il radicale rinnovamento dell’architettura militare (Viganò), il superamento di una conquista-simbolo
come la prospettiva (Villata) e l’evoluzione della forma-pala d’altare (Cavalca), e infine aperture sulle rotte della pittura tra Fiandre e Mediterraneo (Natale), sui rapporti tra Italia e Francia (Fagnart) e una robusta sintesi del «Rinascimento» tedesco (Zuffi ).
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita11 mag 2021
ISBN9788816802032
L'arte rinascimentale nel contesto

Correlato a L'arte rinascimentale nel contesto

Ebook correlati

Arte per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su L'arte rinascimentale nel contesto

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L'arte rinascimentale nel contesto - Edoardo Villata

    INTRODUZIONE

    Edoardo Villata

    La presente silloge di saggi si pone sulla scia di una precedente e fortunata opera collettiva proposta dallo stesso editore: L’arte medievale nel contesto curata nel 2004 da Paolo Piva.

    Al tempo stesso questo volume si inserisce in una tipologia saggistica non inusitata, specie in area anglosassone (penso a esempio a Reframing the Renaissance, a cura di Claire J. Farago, 1998). Tuttavia in questa occasione si è voluto proporre qualcosa di piuttosto diverso. In un certo senso si è fatta una scelta più limitata quanto a interdisciplinarità e ad ampiezza, anche geografica, dello sguardo (che rimane essenzialmente incentrato sull’Italia e da lì si allarga poi con alcune campionature sull’Europa); ma si è voluto offrire uno spettro quanto possibile ampio, entro i limiti anche materiali di una pubblicazione come quella che si sta presentando, anche e soprattutto dal punto di vista metodologico.

    Il «Rinascimento» è, a ben vedere, l’unica epoca della storia della cultura occidentale postclassica ad aver avuto una idea di sé in termini, per così dire, assertivi: il Medio Evo non aveva alcuna autocoscienza come «età di mezzo», né un artista della seconda metà del Seicento avrebbe mai immaginato di essere un esponente del «Barocco». Viceversa un umanista, e spesso anche un artista italiano «rinascimentale» aveva coscienza, persin più netta di quanto retrospettivamente paia a noi, di appartenere a una età per più versi nuova. Serve quindi anzitutto esplorare come il periodo grosso modo compreso tra il secondo quarto del XV secolo e la prima metà del XVI ha pensato e definito sé stesso. Lo possiamo fare, quasi antonomasticamente, indagando negli scritti di Ghiberti, Alberti, e poi Leonardo e soprattutto Vasari, la cui opera è diventata inevitabilmente canonica. Tutti gli autori citati sono toscani, e questo spiega molto dell’idea tuttora presente nella storiografia non italiana e nella cultura popolare del «primato di Firenze»; ma anche l’idea di «Primo Rinascimento» e «pieno Rinascimento» o «High Renaissance» deve molto alla geniale partizione cronologica vasariana. Ma se ci si pensa, persino la divisione della materia in molti manuali, da quelli nobilissimi (tale il Medioevo di Pietro Toesca), fino ai più banali, non solo inizia spesso dalla Toscana la propria trattazione, ma suddivide la materia in architettura, scultura e pittura, riproducendo così l’ordinamento dell’introduzione tecnica all’edizione del 1568 delle Vite.

    Naturalmente l’epoca rinascimentale è, tanto per le arti figurative quanto per la letteratura, policentrica e polifonica: coloro che affrontano la questione della lingua, come Castiglione e Bembo, sono – mantovano uno, veneziano l’altro, e su posizioni opposte sul piano linguistico – gli stessi che poi frequentano artisti e scrivono di arte. Del resto mai si era scritto di arte e di artisti come nel XVI secolo, e ben oltre la trattatistica professionale. Se nel Trecento le menzioni di Giotto, Cimabue, Oderisi o Simone Martini da parte di Dante, Petrarca e Boccaccio erano eccezioni in qualche misura legate alla eccezionalità degli scrittori, esse si infittiscono nel secolo successivo per diventare a loro volta un topos nel Cinquecento: si sono letteralmente costruite carriere di storici dell’arte sulla ricerca di citazioni di artisti nelle opere letterarie del Rinascimento.

    Se si dovrà resistere alla tentazione di leggere le preferenze per questo o quell’artista alla luce delle scelte linguistiche degli scrittori (un esempio oltremodo seducente potrebbe essere rappresentato dall’endiadi Teofilo Folengo/Gerolamo Romanino, o a un livello più modesto e provinciale tra il macheronico astigiano Gian Giorgio Alione e le scelte formali filocremonesi del pittore, astigiano anche lui, Gandolfino da Roreto), va altresì notato che la stessa trattatistica diventa, allo scadere del Cinquecento, affare non più riservato solo all’interno delle botteghe. Tale il caso del trattato di Domenico Pino, un manifesto di allineamento alla nuova politica delle immagini controriformata (esemplarmente rappresentata dal cardinale Paleotti a Bologna), e per certi versi anche del milanese Giovan Paolo Lomazzo, che inizia come pittore, ma che scrive i suoi testi specificamente artistici (Trattato dell’arte della pittura, 1584; Idea del Tempio della Pittura, 1590) quando ormai, a causa anche della cecità che lo aveva colpito, si era dedicato in pianta stabile all’attività letteraria, sia in volgare sia in dialetto, diventando anzi nabàd (abate) dell’Accademia della Valle di Blenio, i cui aderenti poetavano in lingua «facchinesca».

    Queste sono le trame, ben più ampie e ricche di intrecci di quanto la mia povera sintesi possa restituire, che il lettore incontrerà nei saggi di Annamaria Ambrosini Massari e Alessandra Ruffino; mentre Caterina Zaira Laskars affronta il tema della trattatistica specificamente tecnica che per molto tempo rappresenta la voce «letteraria» degli artisti.

    Per arrivare a intravedere l’autocoscienza (una parola il cui senso intendo in senso specificamente hegeliano, come autocomprensione di un Geist di radicale immanenza) di quest’epoca bisogna prima, in un impegnativo ma necessario lavoro a ritroso, ripercorrere le vie attraverso le quali il concetto di «rinascimento» si è consegnato alla nostra cultura. Indubbiamente Vasari, il cui apporto culturale non è possibile sopravvalutare, rappresenta il perno intorno a cui tutto ruota: da un lato, lo si è visto, è il grande sistematore del concetto stesso di «rinascenza», ma dall’altro è l’interlocutore con cui tutti gli intellettuali europei dei secoli successivi hanno fatto i conti, sia assumendolo come indiscusso punto di riferimento, sia aggredendolo polemicamente. Indubbiamente è ancora lui – letto con le lenti, potentissime anche se molto spesse, di Winckelmann – a guidare, almeno inizialmente, la curiosità di Goethe, che però, immerso di persona nel milieu italiano, saprà non aprire nuove vie alla ricerca antiquaria e storicoartistica, ma sicuramente lasciar spazio a una sensibilità più aperta (anche se sostanzialmente sorda ancora all’arte medievale); anche Stendhal, storico dell’arte dilettante, rimane sostanzialmente un «vasariano». Siamo però ormai negli stessi anni di una ricerca destinata a cambiare in profondità la percezione dell’arte italiana e della metodologia storica, che da successione di vite e cataloghi di artisti diventa storia di scuole regionali quando non cittadine– o almeno tale modello si affianca a quello tradizionale. La Storia pittorica della Italia di Luigi Lanzi, che esce per la prima volta nel 1793 e in edizione definitiva nel 1808, rappresenta l’allineamento della storia dell’arte nei confronti delle ricerche storiche e letterarie dell’età dei lumi, antonomasticamente rappresentate da Ludovico Antonio Muratori. Non è poco indicativo che il sottotitolo dell’opera parli di trattazione dal Risorgimento delle arti belle ai giorni nostri, intendendolo, qui ancora vasarianamente, come periodo a partire dalla fine del XIII secolo. La variante lessicale «Risorgimento», benché utilizzata anche, per la scultura, da Leopoldo Cicognara, naturalmente non avrà vita lunga, venendo completamente assorbita dalla sfera politica (alla quale l’aveva del resto già legata Vittorio Alfieri parlando del «nostro imminente risorgimento»).

    Credo che l’onda lunga vasariana agisca comunque, persin dentro e ovviamente oltre Lanzi, nel mantenere il Rinascimento, e particolarmente quello toscano, come palestra privilegiata della nascente connoisseurship, tra fine Ottocento e inizio Novecento (nonostante la magnifica anomalia rappresentata da Giovanni Battista Cavalcaselle). A dire la verità, quest’ultimo fenomeno (che sostanzialmente, semplificando al massimo, possiamo dire che segue la linea Ruhmor-Morelli-Berenson, con appunto Cavalcaselle, e Wilhelm von Bode sul versante sculturale, a fare da alternative) nella sua fase pionieristica privilegia ancor più i primitivi, cioè gli artisti anteriori alla canonica triade della «maniera moderna» costituita da Leonardo, Michelangelo e Raffaello. In questa scelta, agli antipodi dell’estetica vasariana, sta una variante di gusto a livello estetico, storiografico e filosofico emersa a cavaliere della metà del XIX secolo, nella temperie del Romanticismo al tramonto. Sia il movimento artistico e confessionale dei Nazareni tedeschi e dei Preraffaelliti inglesi, sia la classica indagine storiografica di Burckhardt (1860, appena dopo quella, meno fortunata, del francese Jules Michelet), non meno della sensibilità vittoriana, tanto in estetica (Pater) quanto in letteratura (Forster) hanno contribuito a questo stato di cose. Ne siamo ancora toccati noi: basti pensare al ruolo esagerato che la cultura di massa tuttora tributa a maestri come Botticelli, a favore di altri non meno o addirittura più grandi ma non altrettanto popolari. La connoisseurship, poi, si eleva a scienza grazie anche alla nuova (e noi sappiamo, relativa) oggettività consentita dalle riprese fotografiche rispetto alle riproduzioni mediate disponibili fino alla metà del XIX secolo.

    Di questa complessa stratificazione danno conto, con la dovuta complessità di significati, i saggi di Francesco De Carolis e di Roberto Cassanelli (ma anche di Ambrosini Massari, dato che le interconnessioni tematiche, fortunatamente, agiscono strettamente nelle pagine di questo libro).

    I «Modelli» rappresentano una delle possibili chiavi attraverso cui leggere il Rinascimento. Modelli derivati dall’antico, non solo nelle arti figurative ma anche in architettura, dove si impone gradualmente, con una vera e propria esplosione nel XVI secolo, la forma della chiesa a pianta centrale. Come dimostra Paul Davies, si tratta in realtà di un felice equivoco: la pianta centrale non era solitamente usata dagli architetti romani per i templi, ma per gli impianti termali. La forza evocativa del pantheon era però così forte da trasmettersi sulla lettura di tutti gli altri edifici a pianta centrale di epoca imperiale nota agli antiquari e architetti rinascimentali.

    Poi ci sono i modelli in circolazione, che mai come in questo periodo si moltiplicano: come la stampa permette una più rapida diffusione delle idee e un accesso a una cultura medio-alta da parte di categorie che in precedenza ne sarebbero state sostanzialmente escluse (la principale vittima di questa straordinaria invenzione fu la miniatura, il cui splendido, composito e socialmente stratificato tramonto è qui tratteggiato da Pier Luigi Mulas), così le incisioni si impongono come veicolo delle invenzioni dei grandi maestri, da Mantegna a Dürer a Raffaello: le strategie messe in atto da questi maestri, per salvaguardare la proprietà delle loro idee formali nel momento stesso in cui si preoccupano della loro diffusione capillare rappresenta il punto di partenza del moderno concetto di copyright, come spiega Laura Aldovini. Va peraltro precisato che tale sforzo si concentra sul commercio delle stampe, cercando di evitare la proliferazione dei falsi più o meno conclamati, non della disponibilità delle invenzioni per le imprese più diverse (dai cicli di affreschi alle arti suntuarie). Non meno pervasivi sono i modelli veicolati dalle decorazioni in terracotta, che nel corso del XV secolo virano, specie in area padana, da motivi ornamentali tardogotici a temi di inappuntabile tenuta antiquaria; del resto all’ottima resa a fronte di un costo contenuto per gli ornati d’architettura fa riscontro la scoperta delle possibilità propriamente sculturali (impreziosite da un plusvalore ideologico che vede la scultura fittile come una delle tante «rinascite» di una tecnica antica). Si tratta di una vera epopea che dagli iniziali capolavori di Donatello e dalla fortunatissima invenzione robbiana della terracotta invetriata arriva fino a Gaudenzio Ferrari e da lì alla grande stagione tardomanierista e poi barocca dei Sacri Monti: la racconta in una sintesi densissima Giovanni Donato. Ultimamente, in modo del tutto incongruo, si è voluto persino intestare al celebre plasticatore emiliano Guido Mazzoni (quando nel caso, comunque errato, sarebbe più logico pensare ad Agostino de Fondulis) la scoperta da parte di Leonardo della poetica dei «moti mentali»: peccato che un’opera di estrema concentrazione drammatica come l’Adorazione dei Magi preceda il trasferimento del Vinci a Firenze, inficiando sul nascere tale pretenziosa intepretazione.

    Anche il contesto religioso veicola nuovi contenuti iconografici, come spiega Raffaele Argenziano. Nuovi santi si affacciano alla ribalta, ma soprattutto esplode il prestigio e il protagonismo delle osservanze (particolarmente quella francescana, ma non si dimentichi che apparteneva all’Osservanza domenicana il convento milanese di Santa Maria delle Grazie per il quale Leonardo dipinse il Cenacolo) e vengono promossi nuovi temi teologici che richiedono elaborazioni iconografiche non sempre semplici, come è il caso dell’Immacolata Concezione, il cui culto (non ancora però elevato al rango di dogma) fu autorizzato da papa Sisto IV nel 1477 ma la cui iconografia si stabilizza solo a fine Cinquecento, più o meno in parallelo all’affermarsi della devozione al Rosario (sostenuta dai domenicani, avversari della tesi immacolista promossa invece dai francescani).

    Soprattutto il periodo tra fine del XV secolo e primi due decenni del XVI rappresenta un momento di grandi sperimentazioni: soluzioni nuove convivono, talvolta anche all’interno dei corpora dei medesimi artisti. Si intende che tali «innovazioni» sono sia di tipo tecnico (a esempio nel disegno si assiste al graduale abbandono della punta metallica a favore di media che si adeguano a una maggiore velocità di pensiero, o che permettono una più pittorica e morbida resa chiaroscurale e dinamica: un aspetto indagato con ammirevole perizia da Bernardo Oderzo Gabrieli).

    Allo stesso modo evolve la pala d’altare, che affianca al tradizionale polittico (ancora utilizzato, stanti le richieste della committenza, da protagonisti della «maniera moderna» quali Tiziano, Pordenone, Romanino, Cesare da Sesto o Gaudenzio Ferrari) la pala unificata, che a sua volta può presentarsi centinata – la regola per Venezia – o «quadra», come si usa a Firenze sino almeno dagli anni sessanta del Quattrocento e come si diffonderà, sul finire del secolo, anche a Roma e a Bologna: un tema storico che nel passato ha intrigato intellettuali come Burckhardt e Chastel e che viene ora esposto con rinnovato rigore da Cecilia Cavalca.

    Persino una delle «invenzioni» più comunemente legate al Rinascimento quale la prospettiva, in questo periodo conosce le più virtuosistiche applicazioni (si pensi ai tour de force di Bramantino) ma anche la sua negazione da parte di Michelangelo e il suo superamento, a favore della più coinvolgente rappresentazione di uno spazio continuo che avvolge completamente il riguardante: le prime avvisaglie si riconoscono precocemente in Leonardo, ma la piena esplosione di questo fenomeno, precedente ineliminabile della grande decorazione barocca, è un fatto del 1520 circa, nato dall’impressione suscitata dal combinato disposto delle opere romane di Raffaello – Stanze ma ancor più cappella Chigi – e della Sistina michelangiolesca. Ne leggiamo gli esiti, quasi in contemporanea, tra Parma, Treviso e Varallo, a opera di Correggio, Pordenone e Gaudenzio: di lì a poco sarà la volta della mantovana Sala dei Giganti, progettata a Palazzo Te da Giulio Romano.

    Anche l’architettura, anzi particolarmente l’architettura, è soggetta a evoluzioni radicali. Lo studio dei monumenti romani tende a occupare sempre più spazio, soprattutto (ma non solo) nell’architettura sacra: Francesco Repishti ne offre qui una campionatura, sia pur limitata alla Lombardia, suo specifico campo di indagine. Non poteva mancare una riflessione sull’architettura militare (se ne fa carico, ottimamente, Marino Viganò), settore che massimamente è esposto a nuovi problemi e cerca nuove soluzioni: le guerre dei nascenti stati nazionali e la diffusione delle armi da fuoco mutano radicalmente le problematiche belliche, e anche le strutture difensive devono proporre più adeguate risposte.

    Si chiude con una campionatura sui rapporti tra Italia ed Europa: Vittorio Natale esplora le «rotte mediterranee» della pittura, evidenziando gli stretti e continui rapporti che legano la pittura peninsulare, da Napoli al Piemonte, con le Fiandre, la Provenza, la Spagna, mentre Laure Fagnart esemplifica alcuni tra i molti casi di scambi italo-francesi: antonomasticamente l’epicentro è la «scuola di Fontainebleau» radunata da Francesco I, protettore via via di Leonardo, Rosso Fiorentino, Primaticcio, Cellini.

    Avrei desiderato (sarà per un’altra volta) allargare il discorso all’Europa centrale e orientale, all’Ungheria di Mattia Corvino e di Ippolito d’Este e alla Russia degli architetti italiani; ma intanto possiamo contare sulla robusta sintesi dei fatti principali del Rinascimento tedesco approntata da Stefano Zuffi: il prossimo, complesso capitolo, sarà quello dei rapporti tra Italia e Germania, una sorta di nuova «Arte italiana e arte tedesca» che riserverà più di una sorpresa.

    Fin dal primo momento in cui, ormai tre anni fa, ho cominciato, dietro amichevole sollecitazione dell’editore, a pensare a questo progetto, ho avuto chiaro che i principali destinatari delle pagine che seguono dovranno essere gli studenti di storia dell’arte delle nostre università. L’esperienza maturata in oltre un decennio di insegnamento universitario mi ha convinto che, purtroppo, concetti e nozioni che uno studente della mia generazione possedeva già al momento di iniziare il proprio corso di studi, oggi non possono essere dati per scontati. In breve tempo si è assistito a una sbalorditiva perdita di profondità storica nella percezione comune, ampiamente avallata da politiche che, indifferentemente dal preteso colore politico (sempre più sbiadito, fino a confondere tutto in un desolante grigiore), vedono nel passato esclusivamente un bancomat quando non un fastidioso ostacolo, peraltro regolarmente mancando anche i pur mortificanti obiettivi economici prefissati; e da una divulgazione che da educazione (da educere, condurre fuori, oltre), si è ormai consapevolmente trasformata in intrattenimento (intra-tenere, tenere dentro, lasciare dove si è). Quando tutto è ormai un indistinguibile presente in cui ogni cosa equivale a ogni altra (proprio «die nacht in der alle kühe schwarz sind» della Fenomenologia dello Spirito), diventa urgente il recupero, per le nuove generazioni, di concetti di prospettiva storica: esattamente ciò che i saggi qui raccolti si propongono.

    L’altra urgenza, in apparenza più specialistica, è di ordine metodologico. Mi pare indubbio, infatti, che la storia dell’arte viva oggi un momento di crisi forse senza precedenti da quando esiste come disciplina autonoma e dal riconosciuto status scientifico. Da un lato ci si arrende senza troppa resistenza a mode allogene (quante mostre apparentemente monografiche che invece di dare una idea dello svolgimento del percorso di un artista si organizzano in «temi»: il ritratto, la pala sacra, i soggetti mitologici – una volta di più, la rinuncia alla storicità! – in quanto tale approccio è ritenuto più comprensibile a un pubblico medio e non troppo acculturato…); dall’altra si assiste a una vera e propria offensiva neopositivistica in cui ogni considerazione, in primis quelle stilistiche, è sottomessa ai dati esterni, documentari, araldici o altro che siano. In altre parole il documento scritto risulta sempre vincente sul documento figurativo, ciò che per uno storico dell’arte formato al toeschiano «Prima conoscitori, poi storici» dovrebbe, anzi deve, suonare come una aberrazione.

    In conclusione devo ringraziare con calore più che professionale gli autori dei saggi, che si sono prestati amichevolmente e anche con grande pazienza a un lavoro impervio ma, direi, perfettamente riuscito; e a Roberto Cassanelli, che per primo ha avuto l’idea di questa raccolta e ne ha seguito gli sviluppi con confortante vicinanza.

    PER LA «FORTUNA» DEL RINASCIMENTO «DAL VASARI AI NEOCLASSICI»

    Anna Maria Ambrosini Massari

    Mi pare intollerabile pensare che il Rinascimento italiano, o io stesso (ma soprattutto il Rinascimento italiano), non siamo nient’altro che una casuale agglomerazione di inclinazioni frammentate

    Michael Baxandall¹

    «Fortuna» del Rinascimento: questo titolo vuole prima di tutto essere un omaggio all’insuperato libro di Giovanni Previtali, La Fortuna dei Primitivi dal Vasari ai Neoclassici², un vero modello di metodo e di risultati quando si vogliano affrontare problemi posti da categorie ingombranti senza pregiudizi o vuoti schematismi.

    Un omaggio ma anche una provocazione. Perché lo studio di Previtali nasceva proprio dall’urgenza di analizzare i modi e i tempi di una nuova comprensione dei Primitivi, brillantemente connessa al lavoro erudito e agli studi storici, soprattutto italiani del Settecento e poi fluita nel collezionismo e negli studi italiani e stranieri dell’Ottocento, che andava a riscattare del tutto una «Sfortuna», che era cominciata e si era radicata proprio in conseguenza della «Fortuna» del Rinascimento, soprattutto nelle modalità istituzionalizzate dalle Vite di Giorgio Vasari.

    La nostra piattaforma di osservazione dovrà d’altra parte risalire ben più indietro di Vasari, che si pone come summa di una lunga serie di idee e di opere che hanno, nel corso di circa due secoli, delineato una linea interpretativa che, nonostante assestamenti e varianti, poggia su un assunto fondamentalmente invariato, che ne garantisce durevole fortuna e apprezzamento pressoché universali: l’idea della «Rinascita».

    Un nucleo tematico che accomuna posizioni anche molto distanti, che comprendono l’Umanesimo, la fase eroica del primo Quattrocento fiorentino, le più disparate soluzioni figurative e le messe a punto teoriche nel corso del secolo, fino al momento coagulante delle Stanze Vaticane di Raffaello e della sua celebre Lettera a Leone X, scritta con Baldassarre Castiglione: cruciali per il senso e il futuro della «Fortuna» del Rinascimento che troverà per oltre due secoli, proprio qui, le sorgenti del Classicismo. Il culmine del percorso è, ovviamente, nella sintesi suprema ed estrema delle Vite di Giorgio Vasari, a metà Cinquecento (1550) ma soprattutto con l’autorità riconosciuta per oltre due secoli alla seconda edizione del testo, quella del 1568, che ci conduce fin dentro il mondo della Controriforma e conferma senza più esitazioni o alternanze il primato fiorentino e toscano nella ideazione³, messa a punto e diffusione della «Maniera moderna’⁴, il nuovo stile della «Rinascita».

    Un percorso graduale ma fin da subito consapevole e orgoglioso di porre in atto la rinascita dell’individuo, il risveglio della sua dimensione creativa e intellettuale, le cui radici si riconoscevano nell’antica Roma, pertanto innescando una inevitabile frizione con la cultura teologica medievale.

    L’umanità si risveglia – questo termine e questa metafora è molto presente nei Commentari di Lorenzo Ghiberti⁵ – riapre gli occhi che il Medioevo aveva chiuso: lettere e arti si risvegliano, alla luce della nuova comprensione del mondo classico, dei suoi testi, che aprono a spazi più immanenti.

    Nell’antico si ritrovano le radici perdute di una relazione attiva col mondo circostante: l’arte imita, «mimesis»⁶ la natura ma dominandola, conoscendola attraverso le leggi naturali.

    L’arte si fa scienza e l’artista scienziato assurge alle vette sociali e intellettuali che solo le arti liberali garantivano⁷.

    Leon Battista Alberti e Leonardo sintetizzano gli aspetti essenziali e contrastanti dei temi fondanti del Rinascimento, anche per lo stretto rapporto tra l’artista e il teorico. Alberti (fig. 1) declina l’arte come scienza della visione, fondata sulle leggi dell’ottica e della prospettiva, dove il punto di vista dell’artista rivela la verità. Si profila una nuova idea di bellezza che è armonia delle parti col tutto⁸ di cui la simmetria del corpo umano diventa simbolo ponendo l’uomo, misura di tutte le cose, al centro del creato: il soggetto più degno di essere rappresentato in «istorie»⁹. Così si completa il quadro dell’elevazione dell’arte dalla sfera meccanica a quella liberale: il racconto delle storie equipara la pittura alla poesia¹⁰. Anche per Leonardo, indubbiamente più intimamente scienziato e sperimentatore di quanto non lo fosse Alberti, che incarna pienamente il profilo dell’umanista¹¹, l’arte è scienza ma in un senso ben più vitale di ricerca e scoperta continua piuttosto che secondo schemi rigidi quali quelli fissati dall’Alberti. Si potrebbe dire che tanto l’arte diventa scienza quanto la scienza si fa arte, grazie alla possente, totale, onnivora creatività di Leonardo, il cui Trattato della pittura¹², allo stato frammentario di note e abbozzi, riflette questa condizione di creatività in atto, che ci offre ancor oggi la più chiara espressione dell’ideale di universalità del Rinascimento, di cui l’artista diventa centro simbolico e irradiatore.

    Sta qui, infatti, nella centralità assoluta dell’uomo, il punto di più intima connessione delle poetiche rinascimentali e la scaturigine della loro inesauribile «Fortuna»: tra il quadro come finestra sul mondo di Alberti e l’uomo vitruviano di Leonardo (fig. 2).

    Quest’ultimo, come accennato, ne rappresenta la punta più personale e controversa. Basti pensare alla sua indifferenza nei confronti dell’antico¹³, alla considerazione della pittura come forma altissima di conoscenza, ritenuta addirittura superiore alla poesia¹⁴, per la forza d’impatto dell’immagine rispetto allo scritto, una posizione la cui modernità è sorprendente, se si pensa che per ritrovare simili intendimenti, che saranno alla base di una vera e propria rivoluzione, dovremo aspettare oltre la metà del Settecento e gli scritti di un tedesco, Gotthold Ephraim Lessing col suo Laocoonte¹⁵.

    E se il mito di Leonardo che prende solo la natura per «maestra» è, appunto, un mito¹⁶ – lo sguardo di Leonardo è multidirezionale e onnivoro, guarda l’antico, i suoi contemporanei e persino l’arte medievale. Vero è che Leonardo pretendeva di non avere condizionamenti e di controllare qualunque filtro, modello o maestro nel rapporto con la natura, che doveva poter dare ampio sfogo all’originalità¹⁷. In ogni caso, sia in forma di «Rinascita» che di originalità, l’obiettivo resta lo stesso: rinasce o nasce un’epoca nuova, un uomo nuovo, una nuova società.

    Ma il Rinascimento è pur sempre un movimento che si appropria di valori del passato, selezionandoli, interpretandoli e attualizzandoli secondo le proprie esigenze. Si pensi alla centralità del tema del nuovo ruolo degli artisti, sottratti alla posizione artigianale del periodo medievale che, in realtà, era molto più vicina a quella del mondo antico di quanto non lo sarà la progressiva teorizzazione dell’artista scienziato propria del Rinascimento¹⁸.

    Quella del Rinascimento è una reinvenzione dell’antico che ne condizionerà per sempre la rappresentazione, almeno dal punto di vista artistico, divulgando un’idea di bellezza, di creatività, di umanità che resta esemplare ma che risulta profondamente connotata dall’interpretazione rinascimentale¹⁹, garantendone la Fortuna secolare e una singolare capacità di attrazione e di ispirazione²⁰.

    Da quel momento e per sempre, si è dovuto fare i conti con questi nodi cruciali, più o meno in ogni epoca successiva, come potrebbero sintetizzare i ritratti dei grandi artisti del Rinascimento nelle facciate e negli atri dei Musei internazionali edificati o sistemati tra Sette e Ottocento²¹. Fin dentro le Avanguardie del Novecento si dovrà fare i conti con quel modello ingombrante ma ineludibile, la Gioconda coi baffi o, più tardi, in serie, come la Venere di Botticelli di Andy Warhol²² Un modello esaltante e drammatico, ancora oggi sublime, basti qui evocare l’opera di un artista come Bill Viola.

    Nelle più serrate verifiche storico-critiche indirizzate a una revisione, delimitazione e contestualizzazione del Rinascimento si è ben messo a fuoco quanto sia difficile, in questo caso in particolare, sintetizzare in un nome un’epoca: «Anche limitandoci ai tre grandi centri di Firenze, Roma e Venezia, Leonardo da Vinci, Raffaello, Michelangelo, Giorgione e Tiziano avrebbero tutti il diritto di esser riconosciuti come numi tutelari e dovremmo porgli di fronte tanti predecessori e seguaci…»²³.

    Nonostante le ondate iconoclaste e anticlassiche delle Avanguardie del primo Novecento e quelle antiidealistiche degli anni Sessanta e Settanta, il Rinascimento ha saputo mantenere pressoché intatto il suo carisma, la sua immagine possente, come divulgata specialmente nel corso dell’Ottocento. La civiltà del Rinascimento (1860) di Jacob Burchkardt ne è la principale guida e motore, che viene d’altra parte cinque anni dopo l’uscita dell’opera di Jules Michelet (1855). Ma, fuori da ogni parzialità, visto che si tratta di un francese, Germaine Bazin si chiedeva, non molto tempo fa: «Chi mai legge ancor oggi La Renaissance di Michelet?»²⁴, sottolineando come, al contrario, il capolavoro di Burchkardt rimanga un testo di riferimento.

    Tra Otto e Novecento diversi e fondanti contributi si potrebbero citare per una caratterizzazione sotto i più diversi aspetti del Rinascimento: dal punto di vista della Kulturgeschichte di Jacob Burchkardt appunto, dell’analisi stilistica, proprio a partire dal Rinascimento, si pensi alla rivoluzione in questo campo, di Heinrich Wölflinn e poi della connoisseurship, da Cavalcaselle, a Morelli, a Berenson, di una interpretazione più vastamente antropologica, condensata nel capolavoro di Aby Warburg, dell’interpretazione finemente iconologica di Erwin Panosky e Ernst Gombrich, della storia sociale di Michael Baxandall, mentre una particolare attenzione per la connessione del Rinascimento con i fenomeni culturali della modernità si trova negli studi americani²⁵. Andrà messo in evidenza, per il nostro discorso, quanto in ogni studio che si sia posto il problema, il Rinascimento sia stato un argomento di straordinaria complessità nella relazione terminologica con il contesto spazio-temporale. Proprio il celebre e bellissimo libro di Panofsky, Rinascimento e rinascenze nell’arte occidentale²⁶ condensa questi problemi in una panoramica molto vasta, sia dal punto di vista di tempi che di luoghi. Un movimento interpretato come una lunga e molteplice elaborazione di temi, a partire dalla ripresa dei modelli del mondo antico, che si articola passando attraverso le cosiddette «Rinascenze»: longobarda, carolingia, ottoniana e così via. Ma, nonostante tutta l’ineludibile complessità di articolazione storica e la diffidenza verso i «deperiodizzatori»²⁷, alla fine il Rinascimento manteneva quella «burchkardtiana» unicità, che inizialmente era stato il punto di partenza polemico di Panofsky²⁸. Dal punto di vista, infatti, della consapevolezza di operare e vivere una vera, profonda trasformazione culturale, il Rinascimento si garantisce un indiscusso primato rispetto alle fasi analoghe precedenti, il cui impatto storico è indubbiamente meno coerente e programmatico.

    L’altro nodo nella periodizzazione risiede proprio nella «Fortuna» del Rinascimento tra Sei e Ottocento. Nel senso che quel periodo che tradizionalmente, anche a partire dal canone vasariano, viene considerato parte integrante del formarsi, definirsi ed evolversi del movimento, vale a dire circa dalla metà del Trecento alla metà del Cinquecento, ha successivamente assistito all’alternarsi delle valutazioni sul ruolo delle diverse epoche nel complesso ciclo storico-culturale.

    Se tra Sei e Settecento ha prevalso la visuale classicista, che ha allontanato il Quattrocento e gli artisti precedenti a Raffaello al limite di quel mondo medievale che con tanto orgoglio i contemporanei si erano prefissati di superare, nel corso dell’Ottocento questa parte integrante, anche dal punto di vista della consapevolezza teorica, del Rinascimento, è stata progressivamente riabilitata e anzi ampiamente risarcita²⁹.

    Il tema della «periodizzazione»³⁰ e quello della «coscienza storica»³¹, pertanto, assumono un peso di centrale importanza e devono essere premessi a ogni ulteriore considerazione, quando si tratti non solo di Rinascimento ma in generale di storia dell’arte italiana. Uno dei problemi alla base dell’impostazione stessa dell’argomento riguarda alcune considerazioni di fondo, limiti e confini su cui ragionare per movimenti di così larga e durevole influenza, che pure si sono caratterizzati in un contesto, quale è quello italiano, dove la dimensione nazionale e unitaria è recente e comunque frammentaria e intermittente e dove, dunque, risulta di centrale importanza la valutazione dei luoghi e delle situazioni, oltre che dei modi e dei tempi.

    Il fatto di quanto, nell’affrontare la «Fortuna» di un movimento che, simbolicamente, rappresenta tutta l’Italia e, nonostante la complessità della periodizzazione, risulta piuttosto ben localizzato tra Quattro e Cinquecento, si debba tenere conto di una storia estremamente divisa, dove «la coscienza storica dell’arte italiana» affiora in maniera ambigua, attraverso realtà regionali anche molto diverse e in conflitto tra loro, fa sì che il sistema di rapporti e influenze reciproche, la relazione «centro-periferia»³², diventi un metro insostituibile di giudizio per cogliere da quale versante osservare i fatti.

    La prospettiva di analisi è ancora, necessariamente, da angolature moderne e contemporanee, d’altronde indispensabili per una corretta impostazione del tema. In una serie di interventi sulla teoria del Rinascimento, si poneva d’altra parte la questione di dover precisare ambiti diversi di riflessione: se si voglia parlare, in effetti, di «teoria del Rinascimento» o di «teoria nel Rinascimento»³³.

    Per il nostro argomento è in gran parte sul secondo punto che vogliamo ragionare, anche se, ovviamente, le progressioni della «Fortuna» sei e settecentesca completeranno il quadro.

    Quello che si vorrebbe proporre è un punto di vista che dia un profilo dell’idea del movimento come sentita, vissuta e interpretata dai contemporanei, tenendo conto che si tratta di una delle poche situazioni culturali che ha avuto, fin da subito, una piena coscienza di sé.

    A differenza di quanto normalmente accade con i termini usati per definire movimenti e stili storici, che vengono coniati ex post e quasi sempre con un’accezione negativa, Rinascimento, sia nella sua specifica definizione ottocentesca³⁴, che nella sua fattività storica, non ha mai avuto una valutazione peggiorativa³⁵ e affonda la sua valutazione liberatoria e innovativa nei giudizi di coloro che accompagnarono origine ed evoluzione del suo sviluppo. Straordinariamente persistente, questa dimensione vitale non è andata mai perduta, è rimasta sempre connaturata alla percezione del «movimento», anche nel suo profilarsi come «istituzione»³⁶.

    E va subito messo ben in evidenza come il movimento sia caratterizzato da una sorta di contraddizione interna: da un lato l’aspetto normativo, albertiano e poi vasariano, che mira a fissare il canone rinascimentale, dall’altro quell’aspetto rivoluzionario, innovativo, sperimentatore, proprio soprattutto della fase aurorale di primo Quattrocento e comunque sempre implicito nella progressiva autocoscienza storica³⁷. Si tratta, dunque, di un movimento che richiede fin da subito una visuale estremamente articolata sugli accadimenti: senza togliere peso e valore alla profonda e consapevole mutazione culturale, essa non può in alcun modo essere univocamente interpretata.

    Dell’aspetto rivoluzionario sono indubbiamente emblematici i tre artisti che costituiscono tradizionalmente una triade pressoché inscindibile: Brunelleschi, Donatello, Masaccio, che scorre dagli scritti degli umanisti e storiografi fino ai manuali di storia dell’arte. La forza dirompente dell’opera dei tre grandi protagonisti del primo Rinascimento fiorentino va in ogni caso compresa nel contesto della cultura tardogotica parallela e talora oppositiva, come più tardi, sullo scorcio del secolo, accanto alla diffusione del cosiddetto «classicismo prematuro’³⁸ di Francesco Francia e Perugino e poi del classicismo raffaellesco: «formula stilistica a corso veramente nazionale»³⁹, vedremo intensificarsi, anche per reazione, una serie capillare di tensioni antirinascimentali, che si possono definire anticlassiche, fermo restando che si tratta non certo di un rifiuto dell’antico ma di una sua interpretazione e utilizzo fuori canone⁴⁰.

    Sarà infine il Manierismo⁴¹ a rappresentare una ulteriore fase di reazioni articolate all’altissima coerenza e alla perfezione formale di Raffaello e alla maniera «sublime» di Michelangelo. Se poi consideriamo che, tra gli elementi individuati come caratterizzanti del nuovo linguaggio rinascimentale, l’unico che dia veramente il segno di una assoluta novità, coerente anche dal punto di vista teorico e pertanto «discriminante»⁴², è la prospettiva, inventata da Brunelleschi e sistematizzata da Alberti, che ha «il momento dell’equilibrio» in Piero della Francesca (fig. 3), basterebbe seguirne le potenzialità di applicazione, così varie e contrastanti per portare altri argomenti al discorso.

    Il tema delle interferenze e delle sopravvivenze culturali va anch’esso compreso alla luce della diffusione della «Rinascita» nel variegato ambiente italiano, connotato da differenze regionali e distanze culturali anche molto profonde, sulle quali l’impatto delle novità rinascimentali, in particolare l’austera dimensione prospettica, provocheranno una serie multiforme di resistenze e di varianti. La mancata adesione alle novità formali non significa, necessariamente, estraneità al grande movimento di «Rinascita», anzi. Nel secondo Commentario, Ghiberti, che scrive nel 1447, offre una panoramica artistica tardogotica, in cui la sua stessa arte è compresa, alla quale conduce una linea che passa attraverso la pittura senese, la scultura dei Pisani, la pittura del romano, come tale descritto, Pietro Cavallini e finanche la scultura di un maestro scultore di Colonia, Gusmin. Donatello, Masaccio, Luca della Robbia non sono neppure nominati e Brunelleschi compare per sottolineare che Ghiberti lo aveva sconfitto nel celebre concorso del 1401 per i rilievi della seconda Porta del Battistero, che aveva visto opposte le rispettive formelle col Abramo e Isacco, oggi conservate al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, e che restano la base per quello che potremmo definire il perfetto confronto tra due stili, tardogotico e rinascimentale. D’altra parte, pur dalla sua dimensione culturale più tardogotica, se c’è qualcuno che con passione estrema partecipa della «Rinascita», del recupero del mondo classico, scagliandosi contro la barbarie cristiana che ha distrutto tanta bellezza, questi è proprio Ghiberti⁴³ e su posizione analoghe ritroviamo molti protagonisti degli ambienti umanisti.

    Messo bene in chiaro questo aspetto metodologicamente ineludibile per una lettura equilibrata della storia dell’arte e dell’idea stessa del Rinascimento italiano, se attraversiamo la letteratura umanistica e artistica, vediamo che la consapevolezza e l’adesione fin orgogliosa all’idea della rinascita e, a poco a poco, anche alla sua piena espressione figurativa, se pur con un centro di irradiazione concentrato a Firenze, si delinea in modi molto precisi.

    «Rinascita» è il termine da cui direttamente proviene la definizione moderna francese, «Renaissance»⁴⁴: si trova usato da Vasari per la prima volta con questo significato nel Proemio delle Vite, in due diversi punti, dove troviamo ribadito il concetto della «restaurazione e per dir meglio rinascita», e ancora «il progresso della sua rinascita»⁴⁵, e poi quando deve spiegare la divisione dell’opera in tre età o quando deve mettere in evidenzia lo scatto di mutamento proprio di quella fase e dei suoi protagonisti⁴⁶. Si istituzionalizza qui quella valutazione evolutiva dello sviluppo artistico, peraltro intrinseca agli albori di una nascita della storia dell’arte, fin dagli accenni danteschi, come vedremo e che rimane la chiave di lettura del sistema storico delle arti nel canone classicista per oltre due secoli, compresi Winckelmann e, in Italia, Luigi Lanzi.

    Vasari d’altra parte si sentiva l’ultimo anello di una catena che aveva avuto inizio con la renovatio di Francesco Petrarca e che si perpetuerà fino al Neoclassicismo come percezione, appunto, della «Rinascita» come inizio della modernità e come metro delle categorie, storiche e critiche. Non per niente una variante del termine Rinascita, «Risorgimento» ma con lo stesso identico valore, connota i titoli di due opere fondamentali sulla storia della pittura e della scultura italiana, scritte sullo scorcio del Settecento e ai primi dell’Ottocento, in un intreccio singolare di moventi illuministi e neoclassici, rispettivamente da Luigi Lanzi e Leopoldo Cicognara⁴⁷. Quella «Rinascita» era stata anche l’atto di battesimo della storia dell’arte, in quanto si poneva come un evento che scandiva una periodizzazione⁴⁸, un prima e un dopo, il vecchio e il moderno, che veniva infine messa a punto nella sua precisa serie storica progressiva, evolutiva, come nel progredire delle stagioni, da Giotto, a Masaccio, a Michelangelo, nella monumentale opera di Vasari e che si legge, raffinata, nel Proemio delle Vite⁴⁹:

    Ben è vero che quantunque la grandezza delle arti nasca in alcuno da la diligenzia, in un altro da lo studio, in questo da la imitazione, in quello da la cognizione delle scienzie che tutte porgono aiuto a queste, e chi in da le predette cose tutte insieme o da la parte maggiore di quelle, io nientedimanco per avere nelle vite de’ particulari [artisti] ragionato a bastanza de’ modi de l’arte, de le maniere e de le cagioni del bene e meglio e ottimo operare di quelli, ragionerò di questa cosa generalmente, e più presto de la qualità de’ tempi che de le persone, distinte e divise da me, per non ricercarla troppo minutamente, in tre parti, o vogliamole chiamare età, da la rinascita di queste arti sino al secolo che noi viviamo, per quella manifestissima differenza che in ciascuna di loro si conosce⁵⁰.

    Si tratta della messa a punto di un tema di ormai lunga sedimentazione, che era più o meno implicito in una lunga serie di scritti precedenti, che si snodano dal primo Trecento: nei testi di poeti e scrittori, di Umanisti, di artisti, che testimoniano di una sempre più chiara consapevolezza, che risale per primo a Francesco Petrarca⁵¹, di assistere a un’epoca nuova che battezza un’arte nuova, nutrita dall’antico e dalla riappropriazione delle sue modalità espressive naturalistiche⁵².

    Ritrovare queste radici significava riconoscere, nel presente, i segnali di una resurrezione e di una umana grandezza possibile, che inevitabilmente si poneva come il diverso rispetto agli schemi medievali, individuando un percorso che diventava implicitamente una evoluzione, un progresso.

    Una situazione, vista dall’oggi, galvanizzante ma in un certo senso, paradossale, se si considera che la rivoluzione consiste nella resurrezione del passato, mentre la vera novità della civiltà occidentale, che era proprio il gotico, viene respinto. Alla novità si preferisce una resurrezione⁵³. Ma è altresì indubbio che questa era la strada per ritrovare ciò di cui si sentiva il bisogno: «il recupero totale della realtà terrena»⁵⁴.

    Ed è comunque proprio qui la forza e la «Fortuna» del Rinascimento: il Futuro del classico, ovvero il classico come garanzia di futuro⁵⁵.

    Le radici del fenomeno sono letterarie e risalgono alla prima metà del Trecento: una notevole consapevolezza del recupero dell’antico che rinnova si profila in Dante, Petrarca, Boccaccio e lo sguardo va in tutte le direzioni, anche artistiche: «sono questi poeti…che, fieri di definirsi «moderni», hanno associato i pittori al loro sforzo di avanguardisti»⁵⁶. Una consapevolezza nitida di queste possenti origini, per una tradizione tutta fiorentinocentrica, che si consolida nel tempo e viene definitivamente istituzionalizzata da Vasari, si specchia in un suo celebre dipinto, i Sei poeti toscani, 1544, Minneapolis, Institute of Art (fig. 4): qui Vasari crea uno spazio unitario, non una rassegna di uomini illustri isolati in cornici individuali, ma un vivace gruppo animato da sguardi e gesti eloquenti, un vero e proprio conversation piece, ritmato dalla suddivisione in tre coppie di contemporanei legati tra loro da un rapporto sodale: Dante e Cavalcanti, Petrarca e Boccaccio, Ficino e Landino⁵⁷.

    In questa cerchia selezionata è Giotto ad essere individuato come «luce» e origine della «fiorentina gloria» (fig. 6)⁵⁸. Essere moderni, nuovi come Giotto, che appare in questi termini nella celebre novella del Boccaccio su Giotto e messer Forese. Si profila il tema della «rinascita» e, attorno al ruolo determinante di Giotto, anche quella periodizzazione che si consoliderà fino a Vasari, con la contrapposizione del Medioevo di tenebre alla Rinascita illuminata dall’antico⁵⁹. In tal senso si esprime, nonostante l’apprezzamento «sentimentale» per l’eleganza tardogotica di Simone Martini, suo buon amico⁶⁰, anche Francesco Petrarca, che riserva a Giotto diversi e puntuali attestati di altissima stima⁶¹. Ma il primo a comprendere e lanciare Giotto come innovatore fu Dante. Il concetto dantesco del «dolce stil novo» viene applicato all’arte figurativa e si invera grazie a Giotto, il cui stile plastico si profila come nuovo e moderno, in opposizione a quello grecobizantino, privo di qualunque accenno naturalistico. Il passo del Purgatorio⁶² dove Giotto è investito dalla fama mentre Cimabue viene dimenticato è già un primo accenno di nascita di una storia artistica e Dante dimostra una profonda sensibilità di critico artistico nel tradurre formalmente un’idea di rappresentazione che viene dal naturalismo antico e va nella direzione del nuovo plasticismo di Giotto. L’uso del chiaroscuro per rendere le pieghe delle vesti, per esempio, in un brano dove sembra effettivamente di vedere una figura panneggiata di Giotto: «Però salta la penna e non lo scrivo/che l’immagine nostra a cotai pieghe/ non che «l parlare è troppo color vivo»⁶³. All’immagine è sottesa la percezione di una fase cruciale di cambiamento rispetto al passato, che resterà centrale nella trattatistica fino e oltre Vasari, con l’idea implicita di un rinnovamento che è appunto rinascita perché migliora rispetto al passato recente⁶⁴, la nostra percezione del mondo circostante.

    Dallo stile bizantino al plasticismo di Giotto e poi di Masaccio (fig. 7): si tratta di una svolta che, privata di un giudizio di merito e fatte salve oggi, tutte le premesse metodologiche sopra elencate sul tema della varietà di linguaggi, delle persistenze e permanenze, è indubbiamente la grande, dirompente novità moderna nella cultura figurativa occidentale. Inevitabile la memoria di pagine memorabili dedicate all’argomento, con una speciale attenzione per gli esiti realisti del sistema plastico inaugurato da Giotto, di Roberto Longhi⁶⁵, a cominciare da Giotto spazioso, che da solo spiega meglio e più dei molti fiumi di inchiostro spesi in seguito.

    Una modalità espressiva che verrà incarnata in snodi cruciali, che diventeranno anche in gran parte i termini dello stringente percorso vasariano: Giotto-Masaccio-Michelangelo e che mantengono una sottile linea rossa di profonda affinità, diluita in un contesto estremamente differenziato ma che non può non essere colta, soprattutto a rebours. Scriveva, per esempio, John Ruskin al padre: «Oggi mi sono recato subito a vedere Masaccio. Dovrebbe esserci una certa affinità tra noi, dal momento che, come sai, gli avevano affibbiato il nomignolo di Masaccio perché era distratto e trasandato nel vestire. Non sono rimasto deluso. Stupisce vedere creato di getto da un artista più giovane di me (Masaccio morì all’età di ventisei anni) ciò che Michelangelo veniva qui a studiare con l’animo riverente dell’allievo…»⁶⁶. Poco più sotto, con una sintomatica affinità, dirà che, dopo Masaccio, aveva trascorso metà della mattinata davanti a Giotto a Santo Spirito.

    Nel precisarsi di temi e indirizzi della «Rinascita», e della sua connessa «Fortuna», peculiari sono il ruolo e la posizione degli scritti di Umanisti. Il sistema della definizione di alcuni aspetti fondanti del Rinascimento e della connessa nascita di una aurorale disposizione storica nei confronti del contesto artistico, passa attraverso alcune figure di primaria importanza dell’ambiente umanistico. Sono uniti dall’aspirazione verso la rinascita che non necessariamente significa adesione ai nuovi indirizzi in campo figurativo, anzi, il loro gusto è, nella maggior parte dei casi, decisamente tardogotico⁶⁷, indirizzato verso la pittura di Gentile da Fabriano e di Pisanello, verso quel sistema formale e di valori che è stato brillantemente definito «un altro Rinascimento»: «irriducibilmente estraneo all’organizzazione prospettica dello spazio, rivolto tutto alla penetrazione lenticolare della realtà visiva nei suoi aspetti immediatamente percepibili, di incidenti luminosi e consistenze fisiche…La grandezza, in fondo, di una rivoluzione mancata»⁶⁸.

    D’altra parte, sarà solo con Leon Battista Alberti che si potrà cogliere una precisa compenetrazione tra sguardo storico e teoria artistica. Una strada sulla quale il successivo punto di condensazione e svolta sarà Giorgio Vasari. Ciò detto, in molti scritti di Umanisti troviamo uno spessore critico sorprendente, come in Manuele Crisolora, che è vinto dalla bellezza delle immagini naturali perché riflettono la grandezza della mente che le ha prodotte⁶⁹. Bartolomeo Facio, che ci dà «l’ultimo frutto, il più perfetto, della prima stagione della critica d’arte umanistica»⁷⁰, dimostra una singolare maturità, specialmente per quanto riguarda una descrizione delle opere mai simbolica o astratta ma diretta, con un atteggiamento critico che diventa per la prima volta metodo coerente in Vasari, di cui peraltro rappresenta un contraltare culturale, in quanto i suoi modelli non sono fiorentini, non sono nel senso della nuova corrente plastica, non sono esclusivamente italiani⁷¹. Ancor più raffinata e compiuta la critica artistica del nemico acerrimo di Facio, Lorenzo Valla⁷². La sua analisi dei colori ha uno straordinario controllo terminologico e il sistema disegno-colore e la loro organizzazione sono posti in un quadro d’insieme, che precorre la compositio di Leon Battista Alberti. Ed è infine proprio lui, Alberti, ad incarnare la giuntura perfetta tra umanesimo e arte⁷³, con tutte le contraddizioni e le inquietudini della modernità⁷⁴ e a partire dal definitivo riscatto della posizione subalterna degli artisti: da artigiani a scienziati, dunque pienamente inseriti nelle arti liberali. Il ruolo di Alberti si slancia come un ponte verso quello di Raffaello, due momenti pregnanti della «Fortuna» del Rinascimento, dove la tensione teorica e programmatica hanno fortissime affinità: il passato come modello di perfezione che si esprime nelle sue forme architettoniche e tende alla perfezione del cerchio, punto focale della visione prospettica, la equiparazione dell’arte alla poesia e la connessa emancipazione dell’artista da artigiano a scienziato, garantito dalla padronanza della prospettiva, che richiedeva la conoscenza della matematica, arte liberale. Temi nodali per la fortuna durevole del Rinascimento, in quanto grazie a Raffaello saranno fatti propri dalla poetica classicista che dominerà pressoché indisturbata fin tutto il Settecento e oltre. Se Alberti definisce un vero e proprio sistema operativo dell’artista per «dipingere favole», aprendo su quell’unico genere artistico considerato dal classicismo degno, e cioè la pittura di storia, la sua teoria diventerà vera prassi solo molto più avanti⁷⁵ ma è con Raffaello che i modelli si congiungeranno in maniera attualizzante con le immagini.

    Se dal punto di vista della piena compenetrazione tra contenuti e immagini, il processo sarà lento e, come sopra indicato, comunque contraddittorio e intermittente, dal punto di vista di una piena consapevolezza della divaricazione tra il nuovo e il vecchio e l’individuazione di serie storiche e storico-artistiche esemplificative del fenomeno,

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1