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Le nostre favole
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Le nostre favole
E-book433 pagine5 ore

Le nostre favole

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Info su questo ebook

La favola moderna, così piena di inquietudini e contraddizioni, è un ottimo viatico per parlare di formazione e letteratura. Attraverso la favola, vengono alla luce i cambiamenti in atto che riguardano da vicino la persona, il valore della vita, la convivenza civile e le sue istituzioni.
Con questo libro l’autrice si propone di far rivivere la favola e la fiaba del passato attraverso alcuni autori del Novecento, quali poeti e romanzieri, uomini di teatro e filologi, che hanno scritto favole sia per adulti che per bambini.
La favola ha smesso la sua funzione moralistica per prediligere l’invito a riflettere. Non esiste più la favola con una morale indiscussa. Eppure è ancora attuale la lezione che punisce il male e fa trionfare il bene, per non cancellare la dignità propria e altrui. La lettura di queste pagine potrà confermare la convinzione che le scelte educative e formative si presentano oggi come un’emergenza inderogabile.
Con la favola del Novecento nel libro vengono proposte unità di apprendimento costruite appositamente per insegnanti dell’Infanzia e della Primaria, nell’intento di fornire un utile strumento per poter influire sulla crescita dei più giovani e sul modo di educarli all’interno dei rapporti tra le generazioni.
LinguaItaliano
Data di uscita11 apr 2023
ISBN9791280649454
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    Anteprima del libro

    Le nostre favole - Carla Boroni

    COVER_le-nostre-favole.jpg

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2023 Gammarò edizioni

    Oltre S.r.l., via Torino 1 – 16039 Sestri Levante (Ge)

    www.librioltre.it

    ISBN 979-12-80649-45-4

    isbn_9791280649454.jpg

    Titolo originale dell’opera:

    LE NOSTRE FAVOLE

    di Carla Boroni

    Collana * Maestri e altre storie *

    ISBN formato cartaceo: 978-88-99415-90-7

    PREFAZIONE

    di Francesco De Nicola

    C’era una volta…; così cominciavano spesso le fiabe, tanto che Luigi Capuana intitolò così una sua raccolta che uscì nel 1882, poco dopo la pubblicazione della prima puntata delle Avventure di Pinocchio che, come sappiamo, comincia anch’esso con C’era una volta…. La ragione del frequente ricorso a questa formula è evidente perché fa subito intendere, con parole semplici e chiare al lettore (e prima ancora all’ascoltatore), che egli sta per essere portato in un mondo lontano dal presente, un mondo di fantasia dunque; e poiché il presente è spesso ostile e cattivo quello raccontato nella fiaba che sta per cominciare sarà un mondo irreale, meraviglioso, incantato, popolato da fate, maghi e principi azzurri: un mondo appunto fiabesco, aggettivo ancora nell’uso oggi, ma soprattutto per rappresentare qualcosa di inconsueto e di incredibilmente bello: un paesaggio fiabesco, un palazzo fiabesco anche se in realtà nelle fiabe c’erano anche bambini maltrattati, con perfide matrigne e streghe, che però con l’intelligenza riuscivano a superare le avversità! Così è stato per secoli nelle fiabe come pure nelle più brevi e più scopertamente didascaliche favole; ma nel Novecento e fino ad oggi si scrivono ancora fiabe e favole?

    A questa intrigante domanda risponde con questo corposo e originale volume Carla Boroni, che su questi argomenti può vantare una rara competenza; un volume difficile da definire, perché è insieme uno studio approfondito attraverso i secoli sulla storia della fiaba e della favola, due generi letterari dalle caratteristiche differenti la cui distinzione, però, viene qui volutamente attenuata per non complicare un discorso già di per sé complesso; ma questo libro è anche una sorprendente antologia di circa quaranta testi che rientrano nei due generi citati e scritti da autori del Novecento che normalmente non si penserebbero inclini a quei tipi di racconto; e infine il libro, al quale mi pare molto riduttivo applicare la definizione di manuale, è anche un utilissimo strumento didattico perché ogni brano antologizzato (arricchito da utili note biografiche sugli autori) viene proposto come unità di apprendimento per i giovanissimi studenti delle scuole primarie, con una successiva sezione di approfondimenti nei quali i testi proposti sono utilizzati per fornire insegnamenti che ricadono nell’ambito della ancora troppo trascurata Educazione Civica.

    Ho prima definito sorprendente la scelta degli autori presentati nella parte antologica (dove troviamo anche alcuni bellissimi testi in versi come La favoletta alla mia bambina e La gatta di Saba e Il pappagallo di Palazzeschi) perché, accanto ad alcuni imprescindibili – Trilussa, Gianni Rodari e Roberto Piumini su tutti –, ne troviamo altri solitamente estranei al mondo delle favole e delle fiabe, come è il caso ad esempio di Alberto Moravia, Goffredo Parise e Leonardo Sciascia, che sono generalmente considerati scrittori ancorati al presente, poco inclini al c’era una volta e al mondo fiabesco, ma piuttosto a quella rappresentazione del reale che, del resto, sin dalle origini è stata gran parte della nostra narrativa contemporanea – non per nulla avviata dal Verga a fine Ottocento nell’ambito del Verismo e corroborata verso la metà del secolo successivo dal Neorealismo, categorie ben lontane appunto da tutto ciò che è distacco dal presente per favorire la fuga in mondi fantastici –.

    Eppure proprio questo importante e assai impegnativo lavoro di Carla Boroni ci dimostra che, pur avendo mutato forme e linguaggi (se l’essenzialità e la brevità non ne rimangono peculiarità costante, lo resta però la chiarezza immediata dell’esposizione), ma soprattutto depurato dalla sua inizialmente preponderante caratteristica pedagogica, il genere esiste ed è praticato ancora, ammodernato ad esempio nell’eliminare la contrapposizione buono/cattivo, laddove il cattivo è ora rappresentato genericamente dalla società corrotta e ingiusta, in piena crisi di valori e per questo contraddittoria e spesso indecifrabile dietro le ambiguità e la prevalenza dell’immagine sulla sostanza. E resta anche la leggerezza di fondo dei generi perché di fatto, pur senza cadere nell’invettiva, favola e fiaba hanno sempre svolto la funzione di denuncia (non è una denuncia l’episodio nel quale Pinocchio viene incarcerato per essere stato derubato?), tanto che le loro origini risalgono alla tradizione orale di racconti di squilibri della vita sociale nella quale spesso l’orco rappresenta la violenza dei (pre)potenti; ed ecco allora che fiaba e favola ritornano, sia pure in veste aggiornata, a raccontare il male che, in forme ora più subdole e diversificate, non è certo assente nel nostro tempo. E bene ha fatto allora Carla Boroni ad affrontare tutti questi argomenti con la competenza della studiosa e con la passione della docente di futuri insegnanti, che offre ai suoi allievi nuove occasioni per favorire la crescita civile delle giovani generazioni attraverso quello strumento insostituibile che è la lettura.

    ESERGO

    La verità, signori, viene sempre a galla,

    come l’olio,

    e la menzogna è un fuoco che non riesce

    a rimanere occulto.

    (Le tre corone. Lo cunto de li cunti)

    INTRODUZIONE

    Le favole del Novecento presentano molti dubbi sul codice di valori da proporre.

    Si è drasticamente esaurita la spinta educativa dei due secoli precedenti, che tanti nomi illustri e tante storie ci avevano regalato, con i loro happy end quasi scontati e con la loro solida morale da perseguire. Il Novecento, con annesso questo ventennio del nostro secolo, si presenta contraddittorio, in equilibrio tra una volontà distruttiva e un costante desiderio di rinascita.

    Nel Novecento si vede rifiorire la favola, ma molto trasformata rispetto al passato.

    Alcuni autori hanno riservato ad essa uno spazio specifico, non certo di secondaria importanza, all’interno della loro produzione. Si sono categoricamente definiti autori di favole e si sono dedicati alla favola esopica per lo più con intenti di rinnovamento e di riammodernamento del genere, sentendo la necessità di uniformarsi alle esigenze e agli orientamenti culturali delle generazioni alle quali si rivolgono, che esigono libertà di approccio.

    Questo mutamento è dovuto anche all’influenza che il Decadentismo esercitò sugli intellettuali, i quali, esasperando il soggettivismo romantico in estremo individualismo, rese gli individui solitari creatori dei loro valori nel mondo. Questo per semplificare al massimo un’interpretazione che richiede, in realtà, un’analisi molto più approfondita.

    Le due stars del Decadentismo italiano, Gabriele D’Annunzio e Giovanni Pascoli, vivono ed interpretano in maniera diversa quest’epoca di imperialismo militare nel mondo, di Belle Epoque in Europa, di conflitti sociali, di Simbolismi in poesia. Il primo scrive delle proprie parabole pubblicate per la prima volta su giornali e riviste ancora alla fine degli anni Novanta dell’Ottocento (il genere della controparabola ha avuto un discreto seguito nel corso del secolo, Vincenzo Cardarelli ed Ennio Flaiano ne sono due esempi formidabili). Anche il secondo scrive parabole ed inventa favole ispirandosi soprattutto ai classici greci e latini.

    La favola contemporanea stigmatizza la realtà, istigando l’individuo a pensare forse in maniera diversa.

    Se in passato, da Esopo a Fedro, le favole offrivano consigli di prudenza necessari per la vita quotidiana, per salvarsi dalla violenza, dalla frode, da una società assai crudele, la favola del Novecento ha perso il carattere moralistico e dedica il suo spazio a narrazioni nelle quali i protagonisti non impartiscono delle lezioni esemplari, ma raccontano semplicemente quel che accade. Spetta poi al lettore trarre le conseguenze. Anche se non tutte, ovviamente.

    Le favole del Novecento ci forniscono una rappresentazione della società che si rispecchia nel disagio dell’uomo e dell’intellettuale.

    Fin dai tempi antichi, la struttura delle favole consisteva nel contrasto–dialogo tra due personaggi primari, risolto nella prevalenza dell’uno sull’altro. Il protagonista di tante favole del Novecento, invece, spesso non ha un antagonista se non la società in cui vive, e se stesso in tutto il suo disorientamento.

    L’obiettivo principale delle favole, del secolo scorso e di questo primo ventennio del nuovo Millennio, è quello di raccontare e, forse, scuotere l’uomo nella sua problematicità, esortarlo a cercare risposte destinate a trasformarsi in altre interrogazioni, che, a loro volta, possono indurne altre.

    La favola moderna è molto più articolata, non è un testo semplice per bambini, anzi essa richiede la comprensione di diversi livelli di significato, si presenta in una nuova veste, si adatta alla realtà espressiva, emozionale e comunicativa del mondo contemporaneo e vuole raccontare la vita dell’uomo smarrito nella sua complessità.

    Ogni figura, ogni motivo, ogni paradigma narrativo pare infatti serbare in sé una sorta di forza d’inerzia che trattiene parte del suo senso primitivo, talora più, talora meno disfunzionale al suo reimpiego.

    Il nostro tempo non ha perduto il gusto della favola, ma vi ha inserito una più acuta carica critica e simbolica, con relative allusioni politiche e ricorsi alla satira.

    In questo lavoro intendo affrontare la comunicazione della favola contemporanea anche oltre il semplice racconto.

    Dal testo ci si deve anche saper difendere, non lasciarsi ingannare dalla sua potenza. Quando si parla con qualcuno, si sta attenti a ciò che egli dice e come lo dice, ma anche a quello che tace e come lo tace. Non diversamente il testo della fiaba va interrogato da domande che probabilmente non sono le sue, ma che esso tuttavia induce. Solo così ci si può rendere conto degli eventuali scarti fra il disegno costruttivo e i materiali impiegati nella costruzione, materiali spesso di riporto, mutuati da altre costruzioni e diversamente combinati.

    L’ho ripristinata nel suo originario ruolo anche didascalico, riconoscendole una marcia in più: la favola fa riflettere in modo diverso e, per questo, ha il titolo per educare (anche) al vivere civile e alla legalità.

    L’Educazione Civica si realizza conoscendo ed assumendo coscienza di regole precise ed irrinunciabili.

    La favola contemporanea, adeguatamente interpretata, aiuta ad acquisire coscienza civica e, proprio per la sua morale aperta, ci suggerisce che l’individuo – il quale tanto privilegia nella sua libertà da non imporgli dettami – per essere veramente rispettato nella sua dignità di cittadino, deve essere educato, possibilmente senza eccezioni, lassismi e falsi buonismi, a riconoscere il percorso incontrovertibile per crescere in civiltà. Una civiltà che dovrebbe essere bella e buona per tutti.

    Quanto maggiore è l’abilità manipolatoria di chi scrive, come tanti autori del ‘900 hanno copiosamente e spesso con inusitata raffinatezza dimostrato, tanto più difficile diventa il lavoro dell’interprete, del critico. Più difficile e più interessante, più ricco e più illuminante. A volte è più facile cogliere la fisionomia del paradosso e dell’insensatezza, che riuscire a scoprire e a mettere in evidenza il rapporto conflittuale e complementare con la ragione, con il sistema di valori etici e civili da accettare come fondamentale norma di convivenza.

    Sono tanti fili, quelli della favola moderna, che sembrano confondersi e disperdersi, ma che in alcuni momenti della vita individuale e sociale, tornano a riallacciarsi, a riannodarsi con sorprendente armonia.

    PARTE PRIMA

    Chi cerca quello che non deve

    trova quello che non vuole

    (Lo stolto di Diego Lanza)

    LA FAVOLA NELLA STORIA

    Dall’Antichità al Medioevo

    La favola fu, in principio, espressione della poesia popolare. Nessun genere di letteratura è antico e universale quanto la favola.

    Il problema per chi ne ricerca le origini è lo stesso che anima il dibattito filologico intorno all’epica, cioè l’inventio nelle sue implicazioni storiche, geografiche, ma anche della definizione del genere, come frutto di creazione collettiva e personale. Le correnti critiche e filologiche hanno dato a tal proposito diverse, quanto ingombranti risposte, visto che non esiste altro genere letterario che ritorni con uguale vivacità presso le diverse tradizioni culturali e che riaffiori, interpretato e reinterpretato, secondo i diversi luoghi e persone.

    La favola non è il Dramma tragico. La favola ha i piedi per terra, nasce con l’uomo, quando questo animale vive in dimestichezza con le altre specie,¹ anche se prospera, più o meno, ma con costanza, in ogni periodo storico.

    Che cosa son gli animali, se non le diverse immagini delle nostre virtù e dei nostri vizi, che Dio fa errare davanti al nostro sguardo, i fantasmi visibili delle anime nostre?.²

    La favola è dunque eterna, parla a tutte le età, ai bambini, agli adulti e ancor di più ai vecchi. È la pianta che ogni terreno esprime.

    Esopo rappresenta la matrice di tutta la favolistica occidentale, ma per arrivarci bisogna rivolgere l’attenzione all’Oriente e precisamente all’antico Egitto, che conobbe una grande fioritura di favole.

    Tuttavia è inutile rintracciare un itinerario preciso, cercare quando la favola si è affermata in Occidente. Nasce in Asia, come l’uomo, ma da là vien quasi tutto.

    Le favole che compaiono nel mondo greco e nel mondo romano hanno come protagonisti gatti, cani, coccodrilli, piccoli serpenti e scarabei, si possono quindi difficilmente separare dalla tradizione egizia, dove questi animali rientrano nell’ambito del sacro e dell’inevitabilmente religioso. Ma anche nella Bibbia, per esempio nel libro dei Giudici, troviamo il racconto degli alberi eleggono re il rovo, il quale ha in serbo per tutti il fuoco, che piomberà a divorarli. Satira evidente contro l’assolutismo monarchico, di cui l’antichità trasmette molti esempi. Come i documenti della tradizione assiro–babilonese. La letteratura sanscrita rappresenta ampia testimonianza del genere favolistico. Ci sono raccolte che diventano il punto d’arrivo della complessa favolista indiana come l’Jataka e il Panchatantra. Soprattutto quest’ultimo, è un composito caleidoscopio dove appaiono animali eletti a simbolo dei diversi atteggiamenti umani. Animali vili o coraggiosi, sciocchi o saggi, fonti di consiglio in merito al vivere quotidiano. A collegare le varie favole sono inserite alcune strofe sentenziose, sapientemente involute e pregnanti. Tramandato prima oralmente, venne poi raccolto da studiosi e rielaborato dalla vena individuale di narratori, che vi aggiunsero elementi d’invenzione personale. È naturale che le esigenze della fantasia s’innestino con la realtà dell’ambiente in cui la favola si è sviluppata.

    Chi vuol conoscere come nasce ed evolve la favola basta legga l’Introduzione del Panchatantra.

    La favola è sorella della parabola cucina per stomachi deboli, pietanze ammannite a menti ribelli a piatti ordinari.³

    Prima che Esopo ne canonizzasse il genere, non mancano, nella tradizione letteraria greca, alcune testimonianze che ci illustrano la vitalità del genere favolistico. Già in Omero ne troviamo echi nell’Odissea, là dove Menelao, predice la strage dei Proci e li paragona alla cerva che, imprudentemente, si reca a porre i suoi cerbiatti appena nati nella selva dove c’è il leone e ne decreta, in tal modo, la morte. E poi la Batracomiomachia, la battaglia di topi e rane che la tradizione attribuisce ad Omero, poi ripresa mirabilmente da Leopardi.

    Non si sono ritrovati spunti della nostra favola in quella d’Oriente. La prima in cui ci si imbatte nelle letterature d’Europa è quella del Rossignolo e del nibbio, nelle Opere e i Giorni di Esiodo, di cui, sempre per Leopardi nulla è più delizioso in letteratura. Questa è, a memoria degli antichi, la prima favola.

    Ma è in Esiodo che la favola appare inserita, per la prima volta, come commento nel corso della narrazione morale. In questo autore troviamo anche la struttura narrativa più caratteristica della favola di Esopo, cioè il contrasto tra due personaggi animali, o provenienti dal mondo vegetale.

    Oltre ad Esiodo ci sono Archiloco, Solomone, Somonide di Amorgo: solo cenni legati a personaggi, ma sintomi che la favola non è usata raramente nella riflessione morale greca. Nel pensiero antico, poi, la morale si confonde con la politica: da Aristotele a Stesicoro. Da ricordare questo frammento, in cui Aristotele nello stesso passo in cui cita la favola di Stesicoro contro il tiranno, ne cita un’altra molto attuale, contro i politicanti avidi, che è meglio sopportare per evitare guai anche peggiori: una volpe, attraversando il fiume, è spinta dalla forte corrente in un anfratto dirupato, da cui non può tirarsi fuori; le zecche la coprono e le succhiano il sangue; capita là un riccio e, impietosito, si offre di liberarla dalle zecche Ti prego di no risponde la volpe. Queste qui sono già rimpinzate e succhiano poco; se togli queste, verranno altre ancora più affamate.

    La leggenda ha voluto Esopo nativo di Frigia o Trace, contemporaneo di Solone e degli altri sei Saggi. Lo si dipinse piccino, curvo, sciancato, con una catena ai piedi, perché era schiavo. Si volle anche che andasse schiavo in Atene, e che ottenuta la libertà, giungesse peregrinando a Creso, il ricco re di Lidia; poi mandato da questo a Delfi, fosse precipitato giù da una rupe dai cittadini di là, per scherni all’oracolo.

    La fortuna di Esopo appare ben documentata tra il V e il IV secolo. E si aggiunga anche Senofonte. Durante l’Ellenismo le favole esopiche furono assai popolari e Callimaco, il raffinato teorizzatore della poetica alessandrina, si cimentò a ridurre alcune favole di Esopo in trimetri giambici scanzonati.

    Parallelamente, in ambito latino, non mancano testimonianze concernenti la diffusione della favola. Così troviamo Ennio e la favola esotica sui figli dell’Allodola e del campo di grano, o Orazio ove compare elaborata la vicenda della sciocca Rana che si gonfia fino a scoppiare, o dell’incontro dei due topi, quello di città e quello di campagna, del buon senso e del buon vivere. Anche Catullo non sfugge al richiamo della favola.

    In età augustea oltre al già citato Orazio, si sa che Domizio Marso, ammiratore di Tibullo e Virgilio, compose un libro di Fabellae, ma non ci è giunto nulla.

    La prima raccolta di favole in poesia si trova nella letteratura latina con Fedro. Autore di Favole, oltre a ricreare in latino quelle di Esopo, attraversò esperienze amare, che quasi ne facevano un nuovo Esopo.

    Le favole della latinità sono, praticamente, tutte greche, ma chi le sistemò e ridisegnò con originalità fu appunto Fedro.

    Fedro intende scrivere narrazioni piacevoli, divertenti con un mezzo comico, ma con un fine etico, consigliando prudenza per la vita quotidiana.

    L’urgenza etica limita l’interesse del poeta per la narrazione attenta, minuta, illuminata dalla grazia e per la fine capacità descrittiva, quindi si associa bene con la poetica della brevitas.

    La fedeltà alla brevitas, mai rinnegata dal poeta, non è però tale da non permettere, dopo il primo libro, qualche narrazione più distesa, dettagliata e vivace.

    La favola si configura, fin dall’inizio, come un preciso codice letterario snobbato a lungo dai colti, che entra a far parte della letteratura latina attraverso la diatriba, un genere letterario della filosofia divulgativa che si basa sulla discussione di luoghi comuni etici. Un genere che a volte assume una connotazione particolarmente violenta e aggressiva facendo ricorso, non di rado, all’ironia e alla demistificazione.

    Nella retorica latina la favola trovò posto tra i testi di esercizio alla composizione, ma la sua dignità letteraria era comunque ridotta al minimo.

    Nel corso del Medioevo la diffusione della favola esopiana è testimoniata dalla presenza di numerosi volgarizzamenti. Le due grandi aree interessate, il Veneto e la Toscana, diedero un’impronta diversa ai rifacimenti. I caratteri originali della favola esopiana vennero stemperati anche da materiali provenienti dall’Egitto⁶ e dall’oriente lontano, in particolare dall’India. I testi esopiani in età medioevale hanno un posto centrale nella coscienza del pubblico, e lentamente si diffondono sempre più nell’esperienza letteraria delle diverse epoche. La cultura medievale era essenzialmente didattica avendo come fine dichiarato quello di insegnare e stabilire rapporti tra bene e male, distinguere i vizi dalle virtù, stabilire gli atteggiamenti imitabili da quelli condannabili.

    Mentre in Oriente il genere continuò, anche se privo di frammenti originali, presso gli scrittori bizantini (tra i più noti Eustratios nel X secolo), in Occidente dalla Francia si diffuse in Europa un tipo di poesia didattica avente come protagonisti gli animali, la frutta e la verdura, vale a dire i protagonisti che più da vicino richiamano la favola antica.

    Grande fama ebbe nel ‘300, una silloge prosastica di favole in latino, compilata forse nel IX secolo, su manoscritti andati successivamente perduti e integrati con molte aggiunte, nota con il nome di Romulus.

    Chiaro Davanzati⁷ (1230–1303) nel suo Canzoniere amoroso fa ricorso ad una grande quantità di similitudini con i comportamenti delle bestie, mescolando animali vicini e lontani, reali ed irreali per far intendere i sussulti ed i tormenti d’amore. Gli animali sono utilizzati per spiegare la plasticità corporea, soffrono come gli umani, di cui sono immagine eloquente.

    L’innovazione trova riscontro nei sonetti di Jacopo da Lentini, culminando nel Canzoniere di Petrarca, nell’identificazione simbolica tra Laura e la fenice, l’uccello unico al mondo, simile al cigno, che risorge dalle proprie ceneri ogni volta che muore.

    Nel Medioevo il tema dell’amore cortese si innesta sul religioso. I bestiari medievali sono spesso breviari religiosi sotto forma di descrizioni naturali. Gli animali incarnavano figure vive, rispecchiavano azioni di persone e categorie sociali, riflettevano nel loro il mondo degli umani, rappresentabile ed amministrabile.

    Secondo gli stessi canoni agiva anche Bernardino da Siena (1380–1444) che nelle sue prediche, inserisce con dovizia favole e novelle, perché il proprio auditorio popolare possa accedere con maggiore facilità alle verità di una teologia in cui la religione è anche l’indispensabile fondamento del governo civile. Gli animali dei suoi apologhi sono umani travestiti da bestie (una per tutte La favola del lupo, che non attacca i propri simili, ma solo i più deboli: è palese ed evidente la concretezza di una visione sociale).

    Nel Medioevo, in particolare, riprende il genere introdotto da Esopo e rielaborato liberamente da Fedro. Attinge a piene mani alle parafrasi e ai rifacimenti di quel Romulus a cui la tradizione aveva affidato i componimenti con i caratteri dell’apologo, manomettendo molto liberamente il materiale favolistico e inserendovi con disinvoltura elementi orientali e favolose vicende contemporanee, specialmente nella Francia settentrionale, fin verso il 1300.

    Il Medioevo presenta anche un tipo originale di favola animalesca basata su due protagonisti classici: la volpe ed il lupo. Centri di diffusione di questo tipo di favola sono stati la Lorena, il territorio basso–francone e basso–sassone. Produzione molto nota di questa epopea è il Roman de Renart attribuito a vari autori francesi.

    Dal Rinascimento all’Illuminismo

    Nell’Umanesimo e nel Rinascimento le favole vengono utilizzate per svariati scopi, dall’esercizio stilistico e retorico (come La prima veste dei discorsi degli animali di Agnolo Firenzuola), allo scritto moraleggiante o come strumento di polemica sociale.

    Verso la fine del ‘400 agli Esopi volgari medievali si affiancano le prime edizioni a stampa dell’Esopo greco e le sue versioni latine ed italiane.

    La rilettura di Platone e dei suoi miti allegorici alimenta le favole umanistiche sia con raccolte autonome ed originali, sia con la frequente inserzione di favole all’interno di opere di altro genere. I filologi e i filosofi di questo periodo, tra i quali Lorenzo Valla, Marsilio Ficino, Leon Battista Alberti, Bartolomeo della Scala, Angelo Poliziano si cimentano in edizioni, traduzioni e rivisitazioni del genere.

    Anche Leonardo da Vinci, altro grande amante di Esopo, mostra interesse per il linguaggio degli animali e della natura, unendo le fonti letterarie con l’osservazione diretta, non senza il sostegno di una eccezionale immaginazione visionaria.

    Sono ancora da ricordare Specchio d’Esopo di Pandolfo Collenuccio e La moral filosofia di Anton Francesco Doni.

    Questi modelli narrativi, di raccolte di favole, godettero di ampia fama, tanto da costituire una distintiva e diffusa tipologia della novellistica rinascimentale, dai toni mordaci e sarcastici.

    Nel Seicento la morale diventa moralismo, ci si protegge con la prudenza e la retorica e le favole ripercorrono rassicuranti luoghi comuni con qualche eccezione per Salvator Rosa e per Galileo Galilei.

    Apologhi e favole riflettono su temi morali spesso sotto forma di coppie antitetiche (si veda per esempio la favola del piacere e del dolore di Giovan Battista Gelli, narrata sia nella Circe che nelle Lezioni petrarchesche e proposta da Leopardi nella sua Crestomazia della prosa, in quanto ha come modello la favola socratica riportata per altro da Platone nel Fedone).

    Dopo Esopo, il trionfatore del genere favolistico è Jean de La Fontaine (1621 – 1695). Le sue storie uscirono in tre tempi: nel 1668 i primi sei libri, nel 1678 dal settimo all’undicesimo e nel 1693 gli ultimi due libri. Grazie a lui il Settecento diviene il secolo delle favole. Il genere si diffonde velocemente quasi in ogni letteratura e in quella italiana il verso torna a dominare sulla prosa.

    La Fontaine sa insinuare ingenuità né discorsi degli uomini del pari che in quelli degli animali; e allorché entra a parlare il poeta, n’ha d’ordinario l’aria più cara. I prologhetti, le chiuse, le picciole riflessioni con cui balza fuori d’improvviso, sembrano poter esser fatte ed espresse da un fanciullo; e non v’è che un filosofo e un sommo poeta che possa farle ed esprimerle a quel modo […]. I più accorti poi analizzeranno con un gran diletto quel vezzo, quel tuono, quel colorito che regnano laddove si fan parlare gli animaletti più mansueti e gentili, e dove si esprimono i loro appassiona menti più delicate; e vedranno per quanti gradi e per quali artifizi si devii felicemente da Esopo e si cresca sopra Fedro.

    In Italia si diffonde in particolare la poesia didascalica, nella quale viene inserita anche la favola in versi, poesia meno elevata, ma che ebbe maggior fortuna di tutte le altre e venne trasformata, a volte, in vera e propria satira.

    Durante l’Arcadia la favola ha un’importante funzione istruttiva, insegna con rapidità e piacere e rappresenta nella poesia quello che è il saggio breve nella trattatistica. Per la cultura italiana è anche un modo di essere in contatto vitale con le più avanzate culture europee.

    Il nuovo strumento editoriale del giornale, si presta molto bene all’inserimento di testi brevi quali le favole.

    La produzione poetica era dominata dalla melodiosa grazia dell’Arcadia: i suoi moduli stilistici e ritmici, riconoscibili soprattutto in certe soluzioni retoriche e nella facile cantabilità, passarono, in massa, anche nella produzione favolistica. Su tutta la poesia del secolo impera la canzonetta: versi corti dal ritmo pronunciato, strofe con non più di sei versi, andamento ritmico vivace grazie all’uso di versi sdruccioli e tronchi. A rafforzare però l’effetto ritmico delle rime concorre la brevità del verso. Esempi di questa forma metrica sono Il Gufo e Il limone e la rosa⁹ di Aurelio De’ Giorgi Bertola.

    Gli autori settecenteschi di favole sono davvero tanti, impossibile nominarli tutti. Fra gli altri Luigi Fiacchi, detto il Clasio, con le sue favole dai fini di ammaestramento pedagogico, Paolo Rolli, che usa un classicismo minuto ed elegante, Tommaso Crudeli, Carlo Cantoni, Carlo Innocenzo Frugoni, forse il più noto e prolifico dei rimatori arcaici.

    Al neoclassicismo arcadico è da assegnare l’opera di Gherardo De Rossi che esordì come poeta con una raccolta di Favole nel 1788, accresciuta in successive edizioni, nelle quali si mostra piuttosto originale quanto alla scelta degli argomenti, che solo in piccola parte derivano dalla favolistica classica o moderna. Si tratta in genere di favolette che vivono per un tocco di grazia descrittiva in scorci di paesaggi e figure, o per battute argute, più che per le velleità moralistiche di cui si alimenta il moderatismo derossiano.

    Al vertice dell’Arcadia dialettale si colloca Giovanni Meli con le sue Favule murali che concepì ed elaborò con passione e sono il capolavoro della favolistica settecentesca, in quanto è assente ogni velleità di riformismo radicale, ogni forzatura intesa a rendere esplicita la morale, perché questa è calata interamente entro gli esempi di vita di un mondo animalesco osservato e descritto con cura. Le sue favole sono inconfondibili per il loro realismo lirico filtrato da un linguaggio senza asprezze.

    I favolisti del Settecento¹⁰ e anche più tardi dell’Ottocento furono quindi per lo più poeti, da Parini (che inserisce favole incantevoli ne Il giorno) al Meli appunto, da Giusti, a Nievo, ovviamente non mancano eccezioni come Gasparo Gozzi, che alternava prosa e poesia, e Niccolò Tommaseo. La favola, quasi sempre in versi, se diventa prosa è soprattutto in ambito critico.

    Il

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