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Le tre voci de “La Voce”Papini – Prezzolini – Soffici
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E-book567 pagine4 ore

Le tre voci de “La Voce”Papini – Prezzolini – Soffici

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"La Voce" fu un importante giornale politico e culturale dell'Italia del primo Novecento, un giornale che condusse rilevanti battaglie anche filosofiche e polemiche per lo svecchiamento culturale ed intellettuale del paese e che vide la collaborazione di molte personalità del mondo intellettuale e letterario dell'epoca come, tra i tanti, gli scrittori Aldo Palazzeschi, Guido Gozzano, Umberto Saba, Carlo Stuparich, Scipio Slataper, i critici letterari Renato Serra e Giuseppe De Robertis, il poeta e regista Nino Oxilia.
Quest'opera riporta i profili biografici (quindi si spazia lungo tutto l'arco delle loro vite e non solo degli aspetti legati al giornale citato) dei tre personaggi basilari di questa importante esperienza editoriale, Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini e Ardengo Soffici. Tre uomini che attraversarono la storia d'Italia dall'età liberale a quella repubblicana, passando dalla Grande Guerra di cui furono sostenitori e dal regime a cui Papini e Soffici aderirono attivamente, conducendo anche qui battaglie intellettuali, artistiche e culturali in favore del regime e delle sue politiche.
LinguaItaliano
Data di uscita1 mar 2021
ISBN9791220271080
Le tre voci de “La Voce”Papini – Prezzolini – Soffici

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    Le tre voci de “La Voce”Papini – Prezzolini – Soffici - Mirko Riazzoli

    Le tre voci de La Voce

    Papini – Prezzolini – Soffici

    Introduzione

    La Voce fu un importante giornale politico e culturale dell'Italia del primo Novecento, un giornale che condusse rilevanti battaglie anche filosofiche e polemiche per lo svecchiamento culturale ed intellettuale del paese e che vide la collaborazione di molte personalità del mondo intellettuale e letterario dell'epoca come, tra i tanti, gli scrittori Aldo Palazzeschi, Guido Gozzano, Umberto Saba, Carlo Stuparich, Scipio Slataper, i critici letterari Renato Serra e Giuseppe De Robertis, il poeta e regista Nino Oxilia.

    Quest'opera riporta i profili biografici (quindi si spazia lungo tutto l'arco delle loro vite e non solo degli aspetti legati al giornale citato) dei tre personaggi basilari di questa importante esperienza editoriale, Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini e Ardengo Soffici. Tre uomini che attraversarono la storia d'Italia dall'età liberale a quella repubblicana, passando dalla Grande Guerra di cui furono sostenitori e dal regime a cui Papini e Soffici aderirono attivamente, conducendo anche qui battaglie intellettuali, artistiche e culturali in favore del regime e delle sue politiche.

    Tre uomini che furono legati ai nomi più importanti della storia dei loro anni, soprattutto italiani ma anche molti importanti stranieri come Picasso, Apollinaire ecc., e che intervennero con i loro scritti in molteplici campi del sapere con un onnivoro eclettismo e che rappresentarono, anche se a livelli diversi, come scrive lo storico Mangoni, nell'Italia giolittiana «una figura nuova che solo per comodità si può ancora definire di letterato, ma che non ha più nulla a che fare con i letterati anche degli ultimissimi anni dell'Ottocento. Non poeta, non creatore, non filosofo, ma ognuna di queste cose, in un suo modo approssimativo. Una figura nei confronti della quale non era più necessario alcun appello perché si dedicasse alla politica, che anzi in essa interveniva ogni volta che lo riteneva necessario , passando senza remore dalle terze alle prime pagine dei giornali.»[1].

    Giovanni Papini

    Il poeta, scrittore e saggista Giovanni Papini nacque a Firenze (era il primo di tre figli), in Via Pietrapiana, il 9 gennaio 1881 in una famiglia benestante, il padre era Luigi Papini (1842-1902), un repubblicano ateo, massone ed ex garibaldino svolgeva l'attività di artigiano e negoziante di mobili, la madre era Erminia Cardini (1856-1935). Le posizioni del padre influenzarono le sue posizioni politiche giovanili come si deduce dal suo scritto Il regicidio, apparso nel 1948 in Passato remoto 1885-1914 (una seconda opera autobiografica), ove espresse una iniziale gioia per l'attentato contro il re Umberto I nel 1900.

    Era figlio di genitori non sposati e per questo venne iscritto nei registri comunali con il cognome Tabarri e trascorse i primi mesi presso l'Istituto degli Innocenti; il 10 agosto 1882 venne però riconosciuto dalla madre, che gli diede il suo cognome e lo fece segretamente battezzare; il 14 maggio 1888, giorno delle nozze dei genitori ricevette infine il cognome Papini. Rispettivamente nel 1887 e nel 1889 nacquero i fratelli Mario e Sofia.

    Frequentò alcuni istituti privati di Firenze (Baldassini, Scatena, La Speranza) e poi dal 1890 la scuola elementare pubblica Dante Alighieri di Via dei Magazzini, qui conobbe Ettore Allodoli, poi la scuola tecnica S. Carlo e infine la scuola normale maschile Gino Capponi di Via S. Gallo, da dove uscì all'età di diciotto anni, avendo dimostrato un certo interesse solo per la matematica, con il diploma di maestro (conseguito nel 1899) per divenire quindi uditore presso l'Istituto di Studi superiori di Firenze, anche se per il suo sviluppo intellettuale ebbe un peso preponderante l'attività di autodidatta iniziata con la lettura della biblioteca paterna (la vastità della sua cultura venne riconosciuta e lasciò stupito anche il filosofo Williamn James, 1842-1910, che lo incontrò a Londra nel 1905).

    Su questo periodo di formazione tornò nel suo romanzo autobiografico Un uomo finito, nel quale scrisse: «fin da ragazzo mi son sentito tremendamente solo e diverso – né so il perché. Forse perché i miei eran poveri o perché non ero nato come gli altri? Non so: ricordo soltanto che una zia giovane mi dette il soprannome di vecchio a sei o sett'anni e che tutti i parenti l'accettarono. E difatti me ne stavo il più del tempo serio e accigliato: discorrevo pochissimo, anche cogli altri ragazzi; i complimenti mi davan noia; i gesti mi facevan dispetto; e al chiasso sfrenato dei compagni dell'età più bella preferivo la solitudine dei cantucci più riparati della nostra casa piccina, povera e buia. Ero, insomma, quel che le signore col cappello chiamano un bambino scontroso e le donne in capelli un rospo».

    In questi anni iniziò la sua attività giornalistica e di scrittore, nel 1896 pubblicò il racconto Il leone e il bimbo nel giornalino L'amico dello scolaro, tra quest'anno e il successivo, assieme al letterato Ettore Allodoli (1882-1960), redasse i manoscritti La Rivista, Sapientia, Il Giglio e si avvicinò al fascio giovanile repubblicano Goffredo Mameli – probabilmente sotto l'influenza paterna – che però abbandonò presto per interessarsi delle teorie anarchiche di Stirner[2].

    Nel 1899 conobbe il drammaturgo Ercole Luigi Morselli (1882-1921), Alfredo Mori e in novembre il giornalista e scrittore Giuseppe Prezzolini (1882-1982). Con loro firmò il Proclama degli Uomini Liberi apparso il 12 aprile 1900 e sottoscritto questo mese a Firenze, un manifesto con toni anarchicheggianti nel quale si legge che «ciascun membro può procurarsi, sia solo che in compagnia, tutti quei piaceri sensuali che la donna dà, purché ciò non abbia per condizione o conseguenza il matrimonio nel qual caso il membro sarà ignominiosamente scacciato dal gruppo»[3] ma viene anche previsto l'impegno intellettuale ed artistico dei suoi membri. Questa esperienza poi si concluse nell'ottobre del 1901 per la deriva letteraria di Mori e Morselli.

    Tra il 1900 e il 1902 frequentò come uditore i corsi delle sezioni di filosofia, di filologia e di medicina e chirurgia presso l'Istituto di Studi Superiori Pratici e di Perfezionamento di Firenze, poi divenuto nel 1924 la locale università, e insegnò lingua italiana all'Istituto inglese di Firenze, dopo aver completato l'anno di tirocinio. Alla fine del 1901 lasciò l'appartamento in via Ghibellina e si trasferisce a Borgo Albizi.

    Questi suoi studi umanistici e scientifici lo portarono in contatto con Ettore Regàlia (1842-1914) e i circoli positivisti raccolti intorno a Paolo Mantegazza. Nel 1902 divenne socio della Società italiana d'antropologia, etnologia e psicologia comparata, società nella cui sede il 1° giugno tenne una conferenza su Leonardo da Vinci antropologo, divenne collaboratore dell'Archivio per l'antropologia e la etnologia, in cui pubblicò il saggio La teoria psicologica della previsione, e pubblicò un articolo sulla Revue scientifique (sia lui che Prezzolini furono anche assidui collaboratori della Rivista di psicologia fondata da Giulio Cesare Ferrari).

    Nel 1902 venne nominato bibliotecario del Museo di antropologia di Firenze, grazie all'interessamento dell'antropologo Ettore Regalia (1842-1911), attività alla quale affiancò quella di docente presso l'Istituto Inglese e l'Università popolare cittadina. Questo stesso anno, in ottobre, il padre morì a Torino dove si era recato per lavoro.

    Il 4 gennaio del 1903 a Firenze venne pubblicato il primo numero di una nuova rivista di filosofia, la prima rivista fiorentina del nuovo secolo, da lui fondata assieme a Prezzolini e diretta da Papini stesso, chiamata Il Leonardo (il giornale venne pubblicato fino all'agosto 1907 e vennero pubblicati in tutto 25 fascicoli), su questo stesso numero venne presentato il suo programma.

    Questa rivista, che condusse nella sua prima serie (1904-5) una campagna anti-positivista[4] e antisocialista (non si occupò però, come osserva lo storico Gentile, di «politica quotidiana e spicciola, ma di teoria politica»[5]), si ispirò progressivamente alla filosofia pragmatica nella seconda serie, 1904-5, (inizialmente era maggiormente aperta all'idealismo e fu quindi appoggiata anche da Croce, poi vi si staccò in seguito all'impostazione anti-idealista che col tempo questa assunse che la portò a criticare anche l'interpretazione dell'idealismo data da Giovanni Gentile), Papini riuscì anche a farvi collaborare il maggiore filosofo italiano di questa corrente, Giovanni Vailati (1863-1909). Questo suo interesse e campo di studio porto alla pubblicazione del testo Sul pragmatismo (Saggi e ricerche) 1903-1911 apparso nel 1913, nel quale raccoglieva i suoi articoli sull'argomento e nei quali presentava la sua visione volontaristica e magica.

    Nel primo numero de Il Leonardo venne pubblicata la presentazione del giornale ove si poteva leggere:

    Un gruppo di giovini, desiderosi di liberazione, vogliosi di universalità, anelanti ad una superior vita intellettuale si sono raccolti in Firenze sotto il simbolico nome augurale di Leonardo per intensificare la propria esistenza, elevare il proprio pensiero, esaltare la propria arte.

    Nella VITA son pagani e individualisti - amanti della bellezza, dell'intelligenza, adoratori della profonda natura e della vita piena, nemici di ogni forma di pecorismo nazareno e di servitù plebea.

    Nel PENSIERO son personalisti e idealisti, cioè superiori ad ogni sistema e ad ogni limite, convinti che ogni filosofia non è che un personal modo di vita - negatori di ogni altra esistenza di fuor dal pensiero.

    Nell'ARTE amano la trasfigurazione ideale della vita e ne combattono le forme inferiori, aspirano alla bellezza come suggestiva figurazione e rivelazione di una vita profonda e serena.

    Fra l'espressioni delle loro forze, de' loro entusiasmi e dei loro sdegni sarà un periodico intitolato LEONARDO che pubblicheranno in fascicoli di 8 pagine ornati d'incisioni lignee ed impressi con ogni cura.

    Sempre su questo primo numero venne pubblicato il Programma sintetico – L'ideale imperialista, di Gianfalco[6], ovvero Giovanni Papini, nel quale presentò la sua personale posizione verso l'espansione coloniale e imperiale, vi scrisse:

    La vostra concezione di forza e di dominio è essenzialmente materiale ed esteriore – come si scorge dai vostri esempi e dalle vostre ammirazioni: il tipo di civiltà superiore è per voi il tipo militare, in certi casi integrato al tipo macroindustriale. Voi disdegnate o dimenticate cioè la forza spirituale, la vittoria intellettuale e sentimentale. I vostri eroi e i vostri modelli sono dei soldati, dei condottieri con poche idee, che agiscono più che non pensino … vi ricorderò che il profeta nazareno, il sognatore giudeo, vinse senza spade e senza archi: minò il vostro impero cesareo con delle parole e dei sentimenti … Voi che volete tornare al vecchio ideale selvaggio della battaglia, del sangue, dell'oro e della femmina; che siete colpiti, voi aristocratici, come folle bestiali, dai trionfi de' condottieri sanguinosi e dei grandi macellai e guardiani di popoli, non siete che dei barbari sopravvissuti e camuffati, che celate sotto le moderne parole e le formule sonanti, il vecchio fondo bestiale dell'uomo quaternario.

    Oltre a questo, nell'articolo menzionato, l'autore si dichiarava se stesso e il giornale «avversari della democrazia, della borghesia, della civiltà e del progresso democratico e borghese» che per lui avevano portato il paese allo stato attuale che lui criticava, sostenendo la necessità di trovare un nuovo risorgimento, ispirato in questi anni al pensiero mazzianiano (tesi condivisa anche da Soffici), come poi spiegò nel suo testo autobiografico Un uomo finito ove scrisse: «Mi domandai qual'era in quel momento il mestiere, la missione d'Italia nel mondo. E non seppi rispondere. Allora cominciai con mazziniana intempestività la mia campagna per il forzato risveglio. … Volevo che gli italiani, buttata via la rettorica dei passati risorgimenti, si proponessero un grande fine comune, uno scopo veramente nazionale.

    Dopo il 1860 non c'era stato più un sentimento, un pensiero unico, italiano. Era tempo di rimettersi in cammino. Una nazione che non sente in sé la passione messianica è destinata a sfasciarsi.». Nonostante questo, in questo periodo, non apprezza le posizioni eccessivamente bellicistiche assunte dal movimento nazionalista italiano, a differenza di quanto farà durante la Grande Guerra, scrivendo nel gennaio del 1903 su Lacerba nell'articolo L'ideale imperialista «Voi che volete tornare al vecchio ideale selvaggio della battaglia, del sangue, dell'oro e della femmina; che siete colpiti […] come folle bestiali dai trionfi de' condottieri sanguinari e dei grandi macellai e guardiani dei popoli, non siete che dei barbari sopravvissuti e camuffati, che celate sotto le moderne parole e le formule sonanti, il vecchio fondo bestiale dell'uomo quaternario.».

    Su questa rivista, di cui diresse anche la Biblioteca, pubblicò anche un altro rilevante articolo nel novembre del 1903, La filosofia che muore, testo nel quale sostenne che fosse necessaria una filosofia che fosse «cosa viva, vissuta, eccitatrice di vita».

    La rivista – su cui Papini scrisse impiegando lo pseudonimo di Gianfalco – venne fondata per propugnare attivamente e favorire, osserva lo storico Turi, il «rinnovamento della società culturale che favorisca lo sviluppo, al di fuori del mondo accademico e dello Stato, di una classe colta intermedia capace di coniugare passato e modernità … pur sempre in nome di una concezione aristocratica della cultura»[7].

    Questa fu una delle riviste che in quel periodo contribuirono ad ampliare il dibattito intellettuale, anche se l'attività di critica letteraria qui svolta da Papini e Prezzolini secondo Luti «non lasciò segni di novità e di mutamento se non nella direzione di una violenta contestazione dell'erudizione positivistica considerata meramente accademica, frutto di una società ormai logora, incapace di esprimere nuove identità»[8].

    L'idea di crearla venne durante gli incontri che si svolgevano presso lo studio del pittore Adolfo De Carolis (1874-1928), presso l'Accademia di belle arti, ove il 26 novembre Papini tenne il Discorso ai giovani del gruppo vinciano, a cui parteciparono anche Armando Spadini, Giovanni Costetti ed altri.

    La rivista Il Leonardo si occupò di svariati argomenti, spaziando dalla storia delle religioni al misticismo, alla teosofia e all'occultismo (vi collaborarono ad esempio: Arturo Reghini [1878-1946], Mario Manlio Rossi [1895-1971]). L'uscita trimestrale fu in realtà irregolare e si arrestò il 10 maggio per i contrasti sorti nella redazione; le pubblicazioni ripresero dal 10 novembre 1903 e l'ottobre-dicembre 1905 con una nuova serie nella quale venne condotta una battaglia anti-positivista venata di tensioni irrazionalistiche e nutrita dall'intuizionismo di William James (1842-1910) e dell'attivismo di Henri Bergson (1859-1941) che influenzò «sia gli intellettuali sindacalisti che i futuristi [che] condividevano la visione bersoniana della realtà come continuo e imprevedibile processo creativo, che non può venire afferrato dall'intelletto razionale, ma solo intuito e vissuto»[9].

    Questo tipo di posizioni trapelarono apertamente anche da quanto Papini scrisse sul Leonardo nel 1906 l'articolo Si torna al medioevo!, ove prevedeva l'avvento di una nuova era dopo quella dei servi e borghesi, scrivendo che «tornano dalle ombre lontane i maghi, gli occultisti, i fantasmi, gli spiriti, tornano i mistici, riappaiono i santi e perfino il cattolicesimo rimette le penne»[10].

    Sempre nel 1906, in agosto, Papini vi pubblicò un importante articolo, intitolato Campagna per il forzato risveglio, nel quale illustrava un suo programma politico e la sua «missione» che era appunto quella di svecchiare il paese e la sua cultura, qui scrisse «sento – come un mazziniano degli antichi giorni – ch'io posso avere una missione nel mio paese e che debbo far di tutto perché l'Italia diventi meno sorda, meno cieca e meno vile … Roma ha sempre avuto una missione universale e dominatrice … è necessario che Roma – se pur gl'italiani non hanno perso il potere di vergognarsi – ridiventi il centro del mondo e che una nuova forma di potere universale abbia in essa la sede … La Terza Roma ideale deve nascere dalla nostra volontà e dalla nostra opera …»[11].

    In contemporanea svolge anche attività di collaboratore – fin dal primo numero – con la rivista fiorentina Il Regno[12], il primo periodico nazionalista italiano, diretta da Enrico Corradini (1865-1931) con l'appoggio di Vilfredo Pareto, giornale di cui divenne poi redattore capo nel novembre del 1903 (nei primi mesi del 1904 Papini tenne una conferenza in varie città per presentare il programma politico della rivista e proponendo di «risvegliare la classe borghese per mezzo dell'aristocrazia […] portare sulla scena nazionale la gloriosa aristocrazia storica, farne centro della resurrezione dell'aristocrazia industriale»[13]).

    Da questa rivista partecipò al dibattito politico contemporaneo, trattando naturalmente del nascente movimento nazionalista a cui era legata; da alcuni articoli si può avere un quadro delle sue idee politiche, nell'articolo Programma sintetico affermava: «chiamo imperialismo quella corrente, varia di forme e di nomi, quasi omogenea di significato, che si contrappone nel pensiero e nella vita di questi giorni, alla corrente democratica, socialista, umanitaria, cristiana o cristianeggiante. Il contrasto è forte e palese: è fra l'individuo e la collettività, tra l'egoismo e l'altruismo, tra lo spirito di solidarietà e quello di dominazione» e poi in Chi sono i socialisti?, sempre edito nel 1903, scriveva «il socialismo è la filosofia dei poveri: per essere in carattere ha cominciato con l'accettare … E per una dottrina antiborghese e anticlericale non dev'essere molto piacevole vedersi rintracciare le origini borghesi e religiose. Io non so trovare una definizione del socialismo meno inesatta e più profonda di questa: un movimento ultraborghese con caratteri religiosi … Tutte le differenze stanno tutt'al più nell'estensione di certi princìpi: i primi arrivavano fino ad un certo punto e gli altri vorrebbero andare più in là. Ma le differenze quantitative sono le meno differenziali che esistono; i punti di partenza sono, qualitativamente, identici»[14]. Il 20 dicembre 1903 vi apparve il suo articolo Per la vita contro la vita nel quale preannunciava il suo appoggio alle guerre poi estremizzato successivamente nell'articolo Amiamo la guerra. Nel primo dei due articoli, in Per la vita contro la vita, scrisse «tutti gli uomini hanno diritto alla vita e tutti debbon vivere: ecco l'affermazione, taciuta o proclamata, in cui borghesi e socialisti, conservatori individualisti e rivoluzionari collettivisti si trovano ogni istante d'accordo … Nessuno osa dubitare, per un solo memento, una sola volta, che un uomo non abbia il diritto di vivere, che non abbia in sé quel carattere di cosa sacra intangibile, che si attribuisce di solito all'entità misteriose e divine … L'odio per la guerra, il disprezzo per il duello[15], lo sdegno per le repressioni sanguinose, il culto delle vittime del lavoro o degli infortuni, la preoccupazione ingombrante dell'igiene pubblica, la pietà per i condannati, l'abolizione della pena di morte, il compianto per gli uccisi e per i suicidi sono tanti fatti, tanti segni di questo unico e dominante pensiero. La vita umana è sacra, il soffio di qualsiasi omiciattolo è prezioso più di un impero, la vita di qualche migliaio di bruti è più grande della potenza di una nazione … Così la vita effimera, la vita caduca, la vita angusta del piccolo uomo del volgo s'impone e s'oppone ai grandi interessi delle classi e delle nazioni. Il timore di togliere qualche piccola vita a diventare più brevi, e più basse tutte le vite di un popolo».

    Il 4 settembre 1904 sul Regno pubblicò anche Siamo reazionari? nel quale condusse un'analisi politica della situazione italiana «E fino da Caino e da Abele son nati sotto il sole gli uomini miti, amanti del calmo focolare, pieni del timore d'Iddio e degli uomini, tranquilli e amorevoli, nemici delle contese e del sangue e accanto a loro, in tutti i suoli, gli uomini più violenti, più energici, più duri, più feroci che non hanno tremato in cuore dinanzi al bisogno della strage. Tutti questi uomini, con tutti i loro istinti, sono vissuti in tutti i tempi e vivono oggi, tutti, in tutti i paesi. Soltanto le forme esterne colle quali questi istinti son venuti alla luce, son cambiate, son passate, son cadute, son morte. E son precisamente quelle che noi non vogliamo rievocare. Se reazionario significa dunque colui che continua e ripete alcune delle aspirazioni millenarie dell'anima umana, anche il rivoluzionario, anche il democratico, che ripete le antichissime aspirazioni alla libertà, al benessere, alla pace, è un reazionario. Ma se reazionario volesse designare colui che vuol dissotterrare ciò che è morto, noi non siamo per nessun verso reazionari … L'opposizione dunque che c'è e ci può essere tra uomini che vogliono una politica nazionale, energica e conquistatrice, e quelli che vogliono una politica internazionale, pacifica e umanitaria non è un'opposizione di tempi. Non si tratta di antichi e di moderni, non si tratta di avanti e d'indietro, non si tratta di uomini del passato e di uomini dell'avvenire. L'opposizione è tra due tipi di spiriti, tra due concezioni di vita, tra due serie di istinti. E questi spiriti e queste concezioni e questi istinti.».

    Nel 1904 (4-8 settembre) partecipò a Ginevra al Congresso internazionale di filosofia (dove poté incontrare Bergson, autore del quale tradusse anche delle opere[16]), insieme a Giovanni Vailati (1863-1909) e Mario Calderoni (1879-1914) – i tre effettuarono due anni dopo anche un viaggio a Parigi – e poi al congresso internazionale di psicologia che si tenne a Roma (26-30 aprile), qui incontrò il filosofo americano William James (1842-1910), l'antropologo Cesare Lombroso e tenne una conferenza sulla Influenza della volontà sulla conoscenza.

    Su invito di Enrico Corradini all'inizio del 1904 redasse un discorso programmatico nazionalista, I principii di un nuovo Partito nazionale, che lesse a Siena (21 febbraio), Livorno (13 marzo), Arezzo (20 marzo) e Firenze (24 aprile), in questo discorso – verrà pubblicato nell'opera Vecchio e nuovo nazionalismo nel 1914 – sosteneva la necessità della guerra per «risvegliare la classe borghese, per mezzo dell'aristocrazia, per condurla contro la democrazia socialista o semi socialista», per «portare nella scena della vita nazionale la gloriosa aristocrazia storica, farne centro della resurrezione dell'aristocrazia industriale, e resa alla classe intera la energia e la disciplina, dirigerla a combattere le sopraffazioni e gli assalti delle forze disgregatrici della patria». Nel complesso, osserva Gentile, la sua «rimaneva una concezione letteraria, che rivela una sostanziale indifferenza verso i problemi sociali ed economici»[17].

    Nel 1904 sul Regno pubblicò l'articolo O la classe o la nazione, in cui scrisse «il contrasto è tra

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