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La figurata scrittura
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E-book341 pagine4 ore

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Vengono qui proposti alcuni percorsi di una scrittura che, nelle sue molteplici sinonimie di annotare, descrivere, osservare, fantasticare, e quant’altro possa comunicare la pluralità di un testo, assume anche il significato di un bene che conserva l’espressione dell’attività umana, dell’ingegno, dell’esperienza. Il punto di partenza di questo viaggio attraverso il documento sono le Marche, da dove per strade, cammini, città, prendono l’avvio verso altre regioni e direzioni i progetti d’arte di Annibal Caro , un poemetto inedito di Luigi Cicconi, i volgarizzamenti dal latino del letterato Ignazio Montanari , le prose del poeta, il più vicino a noi, Vincenzo Cardarelli, l’insocievole viaggiatore, che dietro orme e rovine, errante e senza “nido”, racconta la magia della paleontologia, dell’archeologia, dell’architettura, della pittura, di miti e leggende, nel tempo e nello spazio. Una scrittura, quindi, che, trasformandosi attraverso svariati itinerari, assecondando la percezione del mondo e delle cose, si muove per riprodurre idee, contenuti per dare forma a diversi codici artistici e letterari e per diventare anch’essa – la scrittura – un bene culturale.
LinguaItaliano
Data di uscita15 dic 2010
ISBN9788878534087
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    La figurata scrittura - Manuela Martellini

    nomi

    PREFAZIONE

    Le critique n’est qu’un homme qui sait lire, et qui apprend à lire aux autres.

    Sainte-Beuve, Portraits littéraires, 1862-1864

    Il volume nasce dall’idea di analizzare le connessioni tra la letteratura e le istanze della cultura, al fine di osservare come un testo letterario sia capace di migrare al di fuori del suo contesto e della sua epoca, intraprendendo percorsi che lo conducono in altri spazi reali e immaginari. La scrittura, infatti, può prendere vie inaspettate e viaggiare lontano, subire mutazioni creative, aprire le proprie porte agli altri campi del sapere e trasformarsi essa stessa in un bene della cultura collettiva.

    È quello che si cercherà di illustrare nel corso dei tre capitoli, legati dal comune intento di offrire alcuni exempla di queste strade e di queste metamorfosi consapevolmente o inconsapevolmente in atto all’interno di un arco temporale che si muove tra Cinquecento e Novecento.

    Nel primo capitolo si prenderanno in esame le lettere artistiche in cui Annibal Caro compose nella scrittura i progetti destinati alla realizzazione di dipinti e sculture, di grottesche e di rilievi, nell’ambito della committenza romana dei Farnese e della relativa cerchia intellettuale, specializzandosi nell’uso di un linguaggio tecnico, variamente articolato tra prosa epistolare e poesia idillica e improntato ad uno stile didascalico e prescrittivo, capace di far dimenticare l’atto stesso dello scrivere e trasportare nel campo della visualizzazione, della prospettiva, dell’armonia, della perfetta corrispondenza tra oggetto e significato simbolico.

    Il secondo capitolo presenta un Poemetto autografo che il letterato Luigi Cicconi dedicò alla morte di Antonio Canova ed al Tempio fatto costruire dal grande scultore, nuovo Fidia, sui modelli dell’arte greca (Partenone), romana (Pantheon), cristiana (Abside con altare): l’argomentazione investe il significato che l’opera-monumento, materiale e letteraria, artistica e poetica, può rappresentare attraverso le varie simbologie, metaforicamente richiamate, con la morte, come sintesi delle glorie e rese eterne dall’artista quali massime espressioni del Neoclassicismo italiano.

    Il terzo capitolo si basa sul concetto del testo come bene letterario e culturale: partendo dall’Epitalamio latino dell’Ariosto, già espressione del recupero umanistico dell’antichità classica, osserveremo, attraverso i suoi volgarizzamenti ottocenteschi destinati alla librettistica per nozze, come il testo poetico sia soggetto a usi e riusi che, pur nel cambiamento dei contesti storico-sociali, delle funzioni compositive e dei destinatari dell’opera, mantengono tuttavia un dialogo costante tra loro, al di là della chiusura dei secoli. In particolare la traduzione italiana che ne fa Ignazio Montanari (di cui vengono pubblicate due lettere inedite inviate a Giuseppe Fracassetti), in virtù della sua storia redazionale e dei diversi approdi editoriali raggiunti, dimostra chiaramente il valore culturale acquisito dalla traduzione, autonomamente dal modello latino.

    Nel quarto capitolo, infine, ci dedicheremo a ripercorrere i viaggi reali e fantastici, storici e leggendari, fatti da Vincenzo Cardarelli alla ricerca di un mito personale e universale delle origini: attraverso il Lazio etrusco, la Roma rinascimentale e le Marche romane, lo scrittore spazia dalla letteratura all’archeologia, dall’architettura alla pittura, per risalire alle fonti primigenie di se stesso, dei suoi molteplici paesi natali (quello reale tarquiniese, quello artistico romano e quello paterno marchigiano), e della civiltà intera: di essa Cardarelli ricostruisce le tappe attingendo la sua antichità dalle necropoli etrusche e la sua modernità dalla veste rinascimentale degli odierni siti urbani di Roma. Un viaggio attraverso le epoche dell’umanità che si risolve in una ricerca di se stesso, dei miti e delle leggende, della patria poetica (Leopardi), familiare (il padre) e artistica (la prospettiva del paesaggio, l’architettura urbana di Ancona, il Palazzo ducale della Urbino di Bramante e Raffaello), rappresentata dalle Marche.

    Le ricerche percorrono a loro volta uno spazio comune, fatto di allusioni costanti ai medesimi luoghi, attraverso la comunicazione continua tra Marche e Lazio. Le Marche sono quelle native di Annibal Caro, dove il poeta torna a viaggiare dalle sue nuove città di residenza, quelle delle sedi editoriali dei nuptialia, dell’attività di professore e letterato del pesarese Montanari (e del suo corrispondente fermano Giuseppe Fracassetti), quelle del marchigiano spaesato Cardarelli, del suo mito delle origini e delle ritrovate fonti della bellezza artistica. Il Lazio è quello che si scopre identico da un autore all’altro, nella sua duplice topografia antica e moderna: la Tuscia di Caprarola e di Bomarzo, di Corneto e della Civita, e l’Etruria di Tarquinia e delle necropoli, la Roma dei Farnese, dei Borgia, di via Giulia, teatro rinascimentale degli urbinati Bramante e Raffaello.

    Manuela Martellini

    CAPITOLO I

    PROGETTI D’ARTE DI ANNIBAL CARO

    DIPINTI, DECORAZIONI, STATUE

    […] de l’invenzione me ne rimetto a voi.

    Ricordandomi d’un’altra somiglianza che la poesia ha con la pittura,

    e di più, che voi siete così poeta, come pittore,

    e che ne l’una, e ne l’altra con più affezione e con più studio

    s’esprimono i concetti e le idee sue proprie che d’altrui

    A. Caro, A messer Giorgio Vasari dipintore, a Firenze

    (Lettere familiari)

    Le origini e la formazione marchigiane di Annibal Caro ne collocano i natali a Civitanova il 6 giugno del 1507, nella Marca di Ancona. Il padre Giovanni Battista proveniva da S. Maria in Lapide di Montegallo, dove era speziale e mercante di generi alimentari e ricoprì anche la carica di Priore, morendo infine a Civitanova nel 1528 nel diffondersi di un’epidemia di peste. Di una nobile famiglia civitanovese era, invece, la madre Celanzia Centofiorini, che, oltre ad Annibale, ebbe altri tre figli (Giovanni Battista nel 1505, Fabio nel 1512 e Girolama nel 1515) e, rimasta vedova, si risposò e si trasferì a Fermo. Annibal Caro seguì gli studi liceali di latino e di greco a Fermo, sotto l’insegnamento dell’umanista Rodolfo Iracinto di Monterubbiano, con il quale cominciò a comporre le sue prime prove poetiche: un suo epigramma latino fu edito nel Iudicium Paridis et Elegiae, dedicato nel 1524 da Iracinto al Duca Giovanni Maria da Varano, Signore di Camerino, sotto la cui giurisdizione Civitanova era rientrata dopo le vicende storiche di Cesare Borgia.

    Le notizie su Rodolfo Iracinto non sono numerose e lo associano per la sua attività di umanista e precettore alle città di Teramo, Civitanova e Monterubbiano.¹ Egli stesso lega il proprio nome a Teramo in una delle sue opere principali del 1511, il Poema Rodulphi Iracinti de Teramo Aprutii de Gestis Julii II Pontifici Maximi, all’interno del quale, però, rivela la provenienza da Mons Rubianus.² I natali monterubbianesi sono confermati anche da Francesco Panfilo nel suo Picenum edito da Giano Matteo Durastante nel 1575.³ Degli studi impartiti ad Annibal Caro testimonia un altro suo allievo, Adriano Bilacqua o Bevilacqua, che proprio al Caro si rivolge in un epigramma, facendo riferimento nei versi finali alla gloria poetica che Iracintus impartirà loro.⁴ Lo stesso Annibal Caro, nel suddetto epigramma in distici elegiaci, loda un poeta di cui la Therami Martia turba virum si può vantare al pari di quanto fanno Mantova con Virgilio, Verona con Catullo, la terra Euganea con Livio, Cordova con Lucano, Sulmona con Ovidio, Bilbili con Marziale, che può essere identificato con il maestro.⁵ Iracinto, dunque, nacque a Monterubbiano nel 1490 circa e si trasferì a Teramo per le difficili vicende storiche e belliche marchigiane. Sostenuto dallo zio Don Francesco, seguì la carriera ecclesiastica e si occupò di teologia, di diritto canonico e di studi classici. Ludovico von Pastor⁶ lo annovera, nella sua Storia dei papi, tra i poeti che furono in relazione con Paolo III, insieme ad Angelo Colocci, Fabio Vigili da Spoleto, Eurialo Morani di Ascoli, Francesco Coppetta di Perugia, Vincenzo Astemio di Venafro, Astorre Baglioni, Novidio Fracco, Marcantonio Flaminio, Angelo Parotti da Camerino, Giangiorgio Trissino e Girolamo Borja. Oltre ai già citati Iudicium Paridis et Elegiae e De Gestis Julii II,⁷ tra le sue opere ricordiamo i Farnesiae Elegiae ac Virgineum Epithalamium, pubblicata a Roma, per i tipi del Cartolari, nel 1541 e dedicata, nella prima parte, al Papa Paolo III e, nella seconda parte, a Margherita d’Austria Farnese, e si ha notizia anche di una Storia di Monte Rubbiano.

    Questa prima fase marchigiana di Annibal Caro finì quando nel 1525, grazie ad una rendita paterna, poté trasferirsi a Firenze come precettore di Lorenzo Lenzi, il nipote del Vescovo di Fermo Luigi Gaddi. Da questo momento in poi il Caro divenne un importante letterato, approfondì lo studio degli autori classici (traducendone molteplici opere, fino agli ultimi anni della sua vita: la Rettorica di Aristotele, l’Idillio I di Teocrito, l’epistola Ad Quintum fratrem di Cicerone, Gli amori pastorali di Dafne e Cloe di Longo Sofista, l’Eneide di Virgilio) e della lingua toscana (attraverso le opere di Dante, Petrarca e Boccaccio), entrò a far parte di diverse Accademie, strinse amicizie determinanti (come quella con Benedetto Varchi), venne in contatto con numerose personalità (governanti, cardinali, papi, intellettuali, artisti, poeti, etc.), compose opere di svariati generi (dalla produzione burlesca alla commedia, le Rime, l’Apologia sulla polemica letteraria e linguistica con Ludovico Castelvetro), visse tra Firenze, Roma, Napoli, Piacenza, oltre che all’estero, al servizio di Giovanni Gaddi, di Pier Luigi Farnese e del Cardinale Alessandro. Una testimonianza fondamentale sulle sue relazioni sociali, culturali e intellettuali è costituita dal gran numero di lettere, dalle quali emerge la mappa dei suoi soggiorni, dei suoi viaggi, delle sue vicende personali, della natura dei rapporti intrattenuti con le personalità incontrate nel corso di una vita. Pur nel cosmopolitismo cortigiano e umanistico, le Lettere Familiari dello scrittore marchigiano, nel suo intero corpus che va dal 1531 al 1566,⁸ e quindi in anni in cui il Caro era già fuori dalle Marche, dimostrano come i rapporti con la terra natale continuino attraverso i viaggi, che riportarono spesso il poeta nelle località marchigiane, attraverso i contatti e gli incarichi amministrativi lì mantenuti. Qualche esempio sarà sufficientemente rappresentativo. In una lettera scritta da Roma il 3 maggio 1539 e indirizzata al toscano Mattio Franzesi,⁹ che si trovava a Macerata come segretario di Monsignor Niccolò Ardinghelli, il Caro fa riferimento alle difficoltà procurategli dal priorato di Montegranaro, concessogli dieci anni prima, nel 1529, da Giovanni Gaddi. Di un ritorno alla Marca¹⁰ da parte del Caro si ha notizia dalle lettere inviate tra il 20 ottobre del 1540 e il febbraio / marzo del 1541: la prima è inviata da Recanati a Giovanni Guidiccioni a Roma; del 7 novembre del 1540 è quella inviata da Civitanova a Giovanni Della Casa a Roma; dell’11, del 15 e del 20 novembre 1540 sono le lettere inviate da Montegranaro rispettivamente ad Antonio Allegretti a Macerata, ad Alessandro Cesati a Roma, e le tre mandate al Guidiccioni, al Franzesi e a Lorenzo Foggini a Roma;¹¹ del 13 dicembre 1540, del 5 febbraio 1541 e del febbraio / marzo 1541 sono le tre lettere inviate da Serra San Quirico rispettivamente agli Accademici Intronati senesi Sodo (Marcantonio Piccolomini) e Diserto (Antonio Barozzi) a Macerata, ancora al Guidiccioni a Roma e di nuovo a Marcantonio Piccolomini a Roma.¹² Delle vicissitudini rocambolesche di un viaggio a Civitanova e delle faccende lì svolte il Caro parla in due lettere inviate dalla città natale nel 1545, rispettivamente l’ultimo d’aprile ad Alessandro Cesati a Roma e i primi giorni di maggio (secondo la ricostruzione del Greco) ad Apollonio Filareto sempre a Roma.¹³ Così come mandate da Civitanova a Parma sono le quattro lettere scritte il 29 maggio del 1559 a Francesco Zobolo, a Mario Nizolio, a Lucrezia Pallavicino e ad Antonio Palmia.¹⁴ Di un viaggio, infine, nel Montefeltro sempre nel 1559 sono le tre lettere scritte, due, da Fermignano il 16 agosto, e una da Urbino il 20 agosto, rispettivamente a Piero Bonaventura a Urbino, a Paolo Casale e a Giovanni Battista Caro a Civitanova.

    L’Epistolario di Annibal Caro, dunque, è senza dubbio un’opera il cui valore culturale non è solo quello di conoscenza di un’epoca, ma soprattutto di documentazione dei molteplici aspetti e interessi che il Rinascimento rivela come momento determinante della nostra civiltà letteraria. Le lettere argomentano di un mondo complesso nel suo splendore, vario nelle sue infinite sfaccettature, elegante nel suo linguaggio, ricco di fastose espressioni di vita e d’ingegno e, quindi, lettere che hanno un merito storico e letterario, ovvero la personalità dell’autore, ma rivelatrici altresì di un universo di presenze e significati, nonché ancora vivo nella sua schiettezza e passionalità. Uno come il Caro, segretario dei Farnese, amico di Michelangelo e Cellini, servitore fedele di Cardinali (alcuni poi Pontefici come Marcello II e Innocenzo IX), descrittore di corti e luoghi (Milano, Pavia, Parma, Piacenza, Venezia, Roma), dall’intensa vita culturale e sociale, senza dimenticare i centri delle sue Marche natie (Civitanova, Macerata, Ancona, Matelica), uno come il Caro – si diceva – non poteva non lasciarci un quadro particolare e minuto, denso e raffinato di anni che videro muoversi figure maggiori e minori come, oltre a quelle citate, Vasari, i Della Rovere, Rota, Commendone, Orsini, Varchi e moltissimi altri.

    Molteplici sono, perciò, i percorsi di lettura che le Lettere familiari offrono e tra questi ci è sembrato alquanto suggestivo l’imbatterci in un Annibal Caro in grado di fornire un contributo alle arti figurative con una serie di quelli che potremmo definire progetti d’arte, i quali evidenziano il suo gusto e la sua profonda conoscenza del mondo classico e dei modelli di rappresentazione. Facciamo riferimento ad alcune lettere scritte dal Caro tra il 1548 e il 1565, anni trascorsi al servizio del Cardinale Alessandro Farnese, grande mecenate non solo di letterati, ma anche di artisti della statura di Michelangelo e di progetti artistici come gli affreschi della Cappella Sistina. In tal modo il Caro ebbe la possibilità di stringere rapporti con molti uomini d’arte e di collaborare alla costruzione e alla decorazione della Villa Farnese di Caprarola e di altri Palazzi signorili.

    Il primo esempio del nostro percorso epistolare-artistico è costituito da una lettera scritta da Roma il 10 maggio 1548 e indirizzata a Firenze a Giorgio Vasari,¹⁵ dalla quale emerge chiaramente il ruolo direzionale avuto dal Caro nel progetto pittorico del celebre artista. In una prima parte dell’epistola il Caro afferma l’intenzione di commissionare al Vasari un dipinto, al fine di poter sostenere e dimostrare l’eccellenza dell’artista di fronte a chi non è persuaso. Il Caro precisa che avrebbe voluto fargli questa richiesta in un periodo che fosse per il Vasari più libero da impegni, ma si dimostra contento dell’aver saputo del suo proposito di accordarla nell’immediato. Questo iniziale scambio di elegante educazione cortigiana è sfruttato dal Caro per introdurre il primo dei due confronti da lui posti nella lettera tra pittura e poesia, che egli ritiene simili in tutto: decida pure il Vasari, infatti, se realizzare l’opera nell’arco di poco tempo o più adagio e con maggior meditazione, poiché, sia in pittura sia in poesia, ciò non è garanzia di conseguente qualità. È un giudizio dell’opinione comune pensare che la calma e il tempo rendano le cose migliori, mentre il Caro ritiene che la cosa importante sia l’ispirazione (il platonico furor poetico), e, se questa è maggiore all’inizio, quando si intraprende l’opera con entusiasmo, è meglio lasciarsi trascinare da questa scorrevole spinta, piuttosto che ritrovarsi a stentare, senza più il fervore con cui l’opera è stata cominciata:

    Del presto, e de l’adagio, mi rimetto a voi, perché giudico che si possa anco presto, e bene, dove corre il furore, come ne la pittura, la quale in questa parte, come in tutte l’altre, è similissima a la poesia. È ben vero che ’l mondo crede che, facendo voi manco presto, fareste meglio. Ma questo è più probabile che necessario, che si potrebbe ancora dire che l’opere stentate, non risolute, e non tirate con quel fervore che si cominciano, riescono peggiori.

    Fatta questa premessa, il Caro lascia al Vasari la prerogativa dell’invenzione dell’opera in questione, sulla base di un’altra analogia che sussiste tra poesia e pittura, quella per cui in entrambe si riesce ad esprimere meglio un’idea propria, piuttosto che una altrui. Una considerazione, questa, di cui il Vasari, secondo il Caro, è a conoscenza, dato che l’artista possiede entrambe le doti poetica e pittorica:

    Sicché fatela quando e come ben vi torna, che ancora de l’invenzione me ne rimetto a voi. Ricordandomi d’un’altra somiglianza che la poesia ha con la pittura, e di più, che voi siete così poeta, come pittore, e che ne l’una, e ne l’altra con più affezione e con più studio s’esprimono i concetti e le idee sue proprie che d’altrui.

    La somiglianza e il connubio tra arte e poesia sono concetti che si ritrovano espressi dal Vasari stesso. Nelle Vite da lui composte,¹⁶ infatti, la poesia è generalmente citata come uno dei saperi e degli studi a cui gli artisti si applicano accanto alle discipline scultoree, architettoniche e pittoriche. Il Vasari lo afferma nel Proemio alla Parte prima, a proposito degli antichi («come sempre fur quasi tutti e’ pittori e gli scultori eccellenti, dotati dal cielo il più delle volte, non solo dell’ornamento della poesia, come si legge di Pacuvio, ma della filosofia ancora, […]»),¹⁷ e nelle biografie di molteplici artisti, come Andrea di Cione Orgagna («Dimostrossi costui molto valente nella pittura […] e nella scultura similmente, […] e nella architettura, […] e nella poesia alcuni sonetti che di suo si leggono ancora, scritti da lui già vecchio al Burchiello allora giovanetto»),¹⁸ gli urbinati Bramante e Raffaello (l’uno «dilettavasi della poesia, e volentieri udiva e diceva improvviso in su la lira, e componeva qualche sonetto, se non così delicato come si usa ora, grave almeno e senza difetti»,¹⁹ l’altro raffigurava nella sua opera la Poesia personificata, o insieme alla Filosofia, all’Astrologia e alla Geometria, in accordo con la Teologia, o «in persona di Polinnia coronata di lauro, e tiene un suono antico in una mano ed un libro nell’altra; e sopra poste le gambe, e con aria e bellezza di viso immortale, sta elevata con gli occhi al cielo, […]»; inoltre, nel Concilio degli Dei, Raffaello ha rappresentato gli emblemi e gli animali propri di ogni divinità, «pittura e poesia veramente bellissima»),²⁰ Benedetto da Rovezzano («Si è medesimamente dilettato delle cose di poesia, et è stato non meno vago di poeteggiare cantando, che di fare statue co’ mazzuoli e con gli scarpelli lavorando, onde gli diamo lode egualmente in tutte due le virtù»),²¹ Giovanni Antonio Licinio da Pordenone («Dipinse poi nel bellissimo giardino di messer Bernaba dal Pozzo, dottore, alcuni quadri di poesia»)²² e, infine, Michelangelo («[…] il benignissimo Rettore del Cielo […] si dispose mandare in terra uno spirito, che universalmente in ciascheduna arte ed in ogni professione fusse abile, operando per sé solo a mostrare che cosa sia la perfezione dell’arte del disegno nel lineare, distornare, ombrare e lumeggiare, per dare rilevo alle cose della pittura, e con retto giudizio operare nella scultura, e rendere le abitazioni commode e sicure, sane, allegre, proporzionate, e ricche di vari ornamenti nell’architettura. Volle oltra ciò accompagnarlo della vera filosofia morale con l’ornamento della dolce poesia, […]»).²³ Nell’incipit della vita del Lippo, anche il Vasari si sofferma, come il Caro, sul concetto di invenzione che sta dietro comunemente alla poesia e all’arte («Sempre fu tenuta, e sarà, la invenzione madre verissima dell’architettura, della pittura e della poesia; anzi pure di tutte le migliori arti e di tutte le cose meravigliose che dagli uomini si fanno: perciocchè ella gradisce gli artefici molto, e di loro mostra i ghiribizzi e i capricci de’ fantastichi cervelli che truovano la varietà delle cose; […]»),²⁴ e la vita dei pittori ferraresi Dosso e Batista comincia proprio affermando la reciproca funzionalità che lega insieme i diversi linguaggi espressivi della pittura e della poesia, a giustificazione del fatto che a Ferrara fossero nati un poeta come l’Ariosto e un pittore come Dosso e che quest’ultimo avesse ottenuto più gloria grazie alla penna del letterato che grazie ai propri pennelli e colori («Benché il cielo desse forma alla pittura nelle linee, et la facesse conoscere per poesia muta, non restò egli però per tempo alcuno di congiungere insieme la pittura et la poesia; acciocchè se l’una stesse muta, l’altra ragionasse; et il pennello con l’artifizio e co’ gesti maravigliosi mostrasse quello che gli dettasse la penna, et formasse nella pittura le invenzioni che le convengono. E per questo insieme co ’l dono che a Ferrara fecero i fati de la natività del divino messer Lodovico Ariosto, accompagnando la penna al pennello, volsero che e’ nascesse ancora il Dosso pittore ferrarese; […]»).²⁵

    Ritornando alla lettera del Caro, nella seconda parte si offrono al Vasari alcune proposte d’invenzione, pur avendogli concesso al riguardo piena autonomia. Il letterato, infatti, si presta a fornirgli delle indicazioni molto precise sul dipinto da realizzare, come se egli vedesse già nella sua mente la disposizione di ogni particolare e, soprattutto, gli effetti derivabili dalla visione della pittura. Il Caro ritiene particolarmente adatta la raffigurazione di «due figure ignude, uomo, e donna, che sono i maggiori soggetti de l’arte vostra», mentre, per il resto, l’opera potrà contenere altre individualità, preferibilmente piccole e lontane in modo che «l’assai campo» conferisca maggior rilievo. Annibal Caro, quindi, esplicita la possibile identità dei due soggetti, Adone e Venere, per raffigurare i quali il letterato suggerisce al Vasari di servirsi di una fonte poetica, ovvero il greco Teocrito (Idillio XV, 128-131). Ma rispetto a questo, l’artista dovrà introdurre una modifica, e cioè eliminare la gran quantità degli altri personaggi (che renderebbe, secondo il Caro, troppo intricata la scena) e rappresentare solamente la coppia:

    […] farei solamente l’Adone abbracciato e mirato da Venere con quello affetto che si veggono morire le cose più care, posto sopra una veste di porpora, con una ferita ne la coscia, con certe righe di sangue per la persona, con gli arnesi di cacciatori per terra, e (se non pigliasse troppo loco) con qualche bel cane.

    Le uniche figure di contorno che egli concederebbe a questo struggente abbraccio in punto di morte, sono le Ninfe, le Parche e le Grazie, per piangere Adone. In aggiunta anche una serie di Amori, alcuni dediti al conforto del giovane morente, «lavandolo e facendogli ombra con l’ali», altri in lontananza, mentre tirano

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