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Jean Busdecul
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E-book330 pagine5 ore

Jean Busdecul

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Info su questo ebook

Un cavaliere di ritorno dall'Asia cade in disgrazia presso la sua amata regina a causa di una penosissima circostanza. Dovrà immediatamente ripartire per ritrovare la propria perduta dignità e un regno in cui sia riconosciuta la sua gloria.
LinguaItaliano
Data di uscita10 gen 2020
ISBN9788831655231
Jean Busdecul

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    Anteprima del libro

    Jean Busdecul - Jakob Shalmaneser

    guerra.

    Pensieri di Busdecul

    su per le lunghe scale

    che portano

    all’ammezzato regale

    Butarat viene imprigionato dalle braccia possenti della sua sposa, e lui che conosce come la sua saccoccia ogni macchina a vento delle navi, che di metallurgia sa di che far saltare le cerniere le più infisse nel legno, tra questa carne femminina quasi soffoca, e Busdecul li scansa per andare avanti per l’erta sempre meno popolosa man man che sale verso la reggia. Le sue labbra sono due righe tirate con una penna d’oca che si sia dimenticato d’intingere nell’acqua negra, immobili, ma i suoi pensieri galoppano.

    Galoppano senza zoccoli, e dunque non fanno rumore. Gli sembrano un esercito imbattibile, perché per tutto il viaggio di ritorno li ha vezzeggiati, allattati con la più grassa invenzione, perfezionati, cotti da ogni lato, così che non fossero dorati da una parte e pallidi dall’altra, che così dispari fanno una gran brutta figura. Il Ministro per le Cose Lontane, solo sul verone da che la Regina ha bestemmiato e si è incamminata per il salone, lascia cadere sconsolato il binocchiale, che batte col suo pomello di madreperla sul bordo della balaustra, e nel riafferrarlo vede le ciocche di Busdecul che volitano dalle asole per l’aria del suo elmo e scompaiono sotto le figurazioni pesantissime, inclinate ma mai cadute del portale.

    C’è un primo gradino. È lo stesso che dall’ammezzato chiamano l’ultimo, quando, congedandoli, avvisano gli ambasciatori non ancora accreditati che ha un’alzata diversa da tutti quelli che lo precedono, e che dunque può far soffiare di paura i polmoni. Ma Busdecul non è uomo che tema i soffi nelle orecchie, né le tempeste del Mar dell’India, e poi le tante settimane trascorse a beccheggiare hanno prestato alla sua andatura un’irregolarità che si sposa benissimo con una scala ingannevole. Abbiamo così le sue gambe che beccheggiano, e il suo pensiero che allestisce e pregusta gli onori che gli sta per rendere la Regina.

    - Se il sole non esistesse, Mia Maestà, bisognerebbe prendervi le misure e ritagliarlo su quelle nella fiamma più viva. Voi mi domandate se il sole d’Oriente è, come dicono i signori storici, più nobile, e più caldo. Se guardate la mia fronte convessa, vedrete da voi come la sua doratura sia più tenace di quella dei migliori dei nostri corniciai. E che la raggera che scocca dal sole asiatico sia pericolosa per i pensieri, lo testimonia la pazzia di quelli tra noi che non hanno tenuto sempre in capo l’elmo per negligenza, e per presunzione di forza.

    - Come dite? Grazie, appena un sorso. Lì? Devo sedervi al fianco e tenére la vostra piccola mano bianchissima tra le mie? Lo posso fare. Sono onorato di farlo. Sono onoratissimo di poterlo fare. Il mio pugno può reggere all’estremità una picca di 6oo libbre, ma la mia mano socchiusa culla il giovane passerotto senza gualcirgli una sola piuma. Grazie, no, mi sono già dissetato. Grazie: ma posso davvero lasciarvi una stria di rosso di vigna? Non ho mai veduto un fazzoletto dalle trine così fini, e undici volte meno spesse dell’ala di una vanessa digiuna. Nemmeno tra quelli che Re Epifane usava a iosa nel suo raffreddore. No, non ne sono degno. No, non insistete. Non ho l’anima abbastanza immacolata per posarle al petto un fazzoletto di questo pregio. E va bene. Ma cosa posso darvi in contraccambio? Aspettate. Tagliate brusco. Senza paura. Un rene a voi, e l’altro mi basterà per ingiallire quello che bevo.

    Con questi ondosi pensieri, concepiti nell’oscillare del naviglio di pino strobo incatramato a puntiglio, Busdecul alza il ginocchio per salire il novantottesimo gradino, quando il Segretario dell’Economato lo sfiora scendendo a rompiticollo, la testa pesante di stipendi salarî e oneri riflessi sopra due gambette leggerissime nel dirigerlo il più in fretta possibile al dazio al porto, su comando nevrastenico della Regina.

    Neanche l’ha notato, Busdecul, effervescenti come sono i suoi pensieri, gazosi per il lunghissimo digiuno di viaggio. E che avrebbero potuto mangiare, lor cavalieri, dopo che nel Mar di Siculia i gettati fuori di bordo avevano al petto gli ultimi sacchi di gallette che non avevano difeso dalla punta delle lame le loro pance? Pregare potevano, non masticare. Pregavano San Tomato, che insanguina le tagliatelle più pallide: Santa Tedalda, che serba calda la pietanza anche se la cucina dista tre miglia dal salone del banchetto: tutti i Membri Supplenti del Paradiso, che, meno onorati dei Santi Maggiori, sono spesso più solerti di quelli nel gettare in terra un poco almeno di manna a quanti hanno i loro buchi serrati dall’angoscia: San Leone della Pescaia, perché li facesse più fortunati nel tirar su tonni grassi nella rezza che gettavano piombata dalla fiancata, ma ciò dimostra che ignoravano come nessun santo possa rendere sordi i pesci ai trambusti di un naviglio litigioso, e renderli fiduciosi e vicini.

    - No, Mia Maestà. Nulla vi abbiamo portato, perché non ci poteva essere alcun dono di cui nella vostra potenza aveste bisogno. I famosi zaffiri? Messivi al collo, credetemi, sarebbero stati opachi. In testa ai miei pensieri, anche quando dormivo sul letto sospeso sbatacchiato incivilmente dal vento notturno dell’Eufrate, vi era l’assillo di trovare qualcosa che vi potesse stupire, rallegrare, ma una simile cosa l’avremmo potuta trovare soltanto nell’Isola Che Non C’è, che è più a oriente di dove nasce il sole, e per giungere alla quale avremmo dovuto allungare così tanto il viaggio di ritorno che saremmo arrivati qui al tempo della Regina dopo, e allora non sarebbe stata una grande allegria per voi nemmeno il più scintillante dei donativi.

    - Prendete il cerchio che avevo alla testa e aggiungetelo alla vostra corona, Mia Maestà, e che vi protegga da ogni ematoma quando cadrete. E se all’Arengario complotteranno e alzeranno la criminosa bastonata sotto la parvenza delle bandiere sventolate, il randello rimbalzerà contro tanto cerchio, e voi avreta tanta gratitudine per me che mi darete il titolo di Barone, che rifiuterò sfiorandovi la guancia con queste dita piagate e dicendovi: Non voglio titolo né sottotitolo, ma una romanza dove i nostri due nomi compaiano assieme.

    Il protocollo violato

    Date venia a questi pensieri tanto gazosi! Non iniziate a sfregare nell’irritazione le brache sul velluto già lucido del sedile, e rammentate piuttosto il viaggio a stive vuote, e prima ancora il Deserto dei Gobbi i cui venti sono ventuno e per la loro violenza impediscono di aprire la bocca per mangiare e alla schiena di stare ritta camminando, e prima ancora i pessimi confetti donati ai cavalieri in partenza da Re Epifane, che molti di loro sputarono come furono fuori della visione del binocchiale, che Santomas inghiottì divenendo verde come una linfa amara, che Vandecor levò con le punte di due dita dalla lingua, poggiò su un cippo e ruppe con lo sperone, rovinando però lo stesso sperone, che Busdecul impiegò sette ore e cinque quarti a disciogliere con la sua saliva, e 111 giorni interi per dimenticare, ovvero per scacciare dallo stanzino della memoria cucinaria.

    Negli ultimi giorni di navigazione, quando doppiarono le punte e i fari dell’Isola di Sardinia, si risolsero addirittura a cuocere le schegge più tenere della polena, e quando il naviglio di Busdecul dovette ancorare per una riparazione nella cala di Arbau anziché catramare i marinari raschiarono i muschi dalla chiglia per farne insalata. Che pezzo della polena, vi domanderete, avevano scheggiato per cibarsene? Se la scienza senza la coscienza non è che rovina dell’anima, la donna senza la tetta non è che rovina del suo sesso, ma la polena finiva appena sotto l’ombelico, diventava naviglio, e dunque maschio, e perciò i marinari che le scheggiarono la tetta non rovinarono affatto il suo sesso. E quel legno aveva un remoto sapore di latte che confortò tutti quanti, che da così tanti anni o avevano perduto la balia, o divenendo barbuti l’avevano presa in odio come sciocca. E l’odio, si sa, irrancidisce il latte.

    Stracolmo di gaz, che nutrono infinitamente meno del latte più magro, Busdecul si perde nel tendaggio, nel porporino di questa pesantissima barriera dietro la quale c’è la lunga storia che la Piccardia ha vissuto e sta vivendo tanto bellicosamente. Inizia a mulinare le braccia, ma resta nel buio interno al tendaggio, e anziché allontanarlo da sé schiaffeggia se stesso, finché non decide di avere ragione di tanto scherzo con la propria picca. A brani lo farebbe, ma in quel momento preciso la calda cortina viene tirata e una delle ancelle di corte posa la sua manina dalle cinque minime dita sul gomito di Busdecul.

    - Non si entra armati, Signore. Se volete...

    - Maestà Mia, forse non siamo amati ma il nostro compito era di quelli che farebbero tremare i polsi al boia, tanto sono ardui, e perigliosi. Non ho qui con me né ceste né scrigni, perché di nulla avete bisogno, ma solo l’onore immenso che vi viene dall’avere finanziato il nostro viaggio in Oriente. Che batti tu? Che batti, ramazzatrice dei miei speroni?

    - Sul ginocchio, almeno, e che diamine!

    L’Ancella del Protocollo è schifata dai modi di questo cavaliere lungo e maldestro, che puzza come un groviglio di alghe marcite, e ancora gli batte il suo magro bastone dorato appena sotto il pararotula di ferro, sperando che abbia almeno il comprendonio dei vitelli. E Busdecul si inginocchia, facendo tuttavia ancora strame del Protocollo, perché cade fragorosamente su entrambi i pararotula, quando questo genere di riverenza è obbligatorio per la sola richiesta di perdono giudiziale, ma soprattutto non aspetta che siano le interlocuzioni della Regina a dargli il permesso di esprimersi a sua volta. E chi lo frena più un uomo del genere, con gli occhi che convergono a fissare il profilo nobilissimo del proprio naso, con due labbra che mai potrebbero arcuarsi per diventare la ventosa di un bacio, e che possono unicamente schiudersi e richiudersi per fare parole su questo onore di cui la Regina dovrebbe essere fiera fino a ridere silenziosamente di una gioia indicibile?

    Ma la Regina non ride. Nemmeno si può comprendere che le passi per la mente, perché gli occhi non hanno sopraccigli a far loro da tetto e a produrre la visibilità vuoi di un corruccio, vuoi di un divertimento, vuoi di una sorpresa. E a eliminare dal suo viso regale ogni traccia di emozione vi è anche quel grasso che ogni mattina si spalma sulla fronte, a renderla vitrea e impercorribile dalla pi- lieve delle rughe. Perché da piccina aveva grande spavento di sua nonna Amandola, la Regina incartapecorita e con più rughe al collo e in fronte di quanti graffi abbia un tavolo d’osteria, e ha giurato a se stessa fin dal suo primo sanguinamento di restare liscia come un pomo ben lucidato fino ala fine. Perché se non hai segni non ti decifrano, e se non ti possono decifrare non possono studiare una politica che ti pigli per le spalle e ti roversi.

    Ma stupefatta la è. Se i navigli non hanno portato grano, né frutti còlti verdi e ingialliti durante la traversata, né il pepe che manca da anni perfino nelle credenze della cucina reale, non ne verrà gran dolore. La Regina ha studiato oltre all’arte del tombolo quel tanto di geografia che basta a farle conoscere i tremendi poteri delle nebbie saline, e perdonare quei naviganti che rinuncino anticipatamente a stivare quanto comunque sarebbe corroso e reso schifoso al gusto. Ma gli zaffiri nulla li può corrodere. Gli zaffiri risplendono anche a non passarvi sopra con scrupolo la pelle del daino, e tengono lontano tre miglia e mezzo da chi li possiede le maledizione delle altre donne e le chele del cancro.

    La spedizione può essere fallita per quanto concerne la provvigione della cucina, ma non può avere mancato il suo scopo principale: portare altri zaffiri che ridiano il lume del sorriso a una Regina scorata dalla lunghissima guerra con ogni regno confinante. Ma che sta dicendo questo cavaliere con quella piccola gobba che cambia di continuo di posto sulla schiena? Perché urla tanto? Non ci sono onde prepotenti, qui attorno, il cui tumulto debba essere superato dalla voce. Non c’è una tempesta da fendere con un comando salvifico che dalla tolda deve giungere a qualunque costo fino alla prua immolata alle torri d’acqua intorno che rendono fosco il mezzodì. Che costui sia diventato folle nel lungo viaggio? Che nelle Asie Anteriori sia stato legato su uno di quei letti elettroconvulsivanti dei quali hanno tanto parlato i cavalieri delle spedizioni precedenti?

    La Regina si allontana per sicurezza da queste braccia che vorticano, mette il piede sul gradino sùbito sotto la pedana, che, azionato da un motorino un poco rumoroso di un diciottesimo di cavallo di potenza, la porta senza che ella debba faticare al livello di questa pedana ottagonale al centro della quale vi è il trono. Che diceva il lunario, per oggi? Vi è qualche vendetta da scansare, celata in qualche bizzarria di visitatore? Il malcontento nel Consiglio dei Signori ha trovato il pazzo dalla faccia innocua da insinuare in udienza con scopo proditorio e assassino? Che la sua politica rotatoria nell’impiego dei ministri abbia ferito più vanità di quante ne abbia carezzate?

    - Il mio rene è vostro. Datemi un piatto, che sia d’argento o di tolla non m’importa, ma datemelo, perché io stesso ve lo metta sopra, e domandatemi pure tutto quello che ho di doppio, che mi vergognerei ad avere due volte la stessa cosa quando la mia Regina merita di avere nelle sue collezioni tutto ciò che nel mondo attende una padrona.

    Incerto com’è nel suo equilibrio, per come da settimane la sua testa non prende cibo dallo stomaco per fondarsi, Busdecul continua a inclinarsi verso il pavimento, e per non cadere sdraiato si poggia ripetutamente su un palmo aperto, che scivola sui marmi policromi a intervalli irregolari che il cavaliere cerca di far passare per strofinature di un alone nel marmo. Questo perché la Regina non capisca questa sua debolezza di capo, questo barcollamento indegno di un cavaliere, o addirittura la scambi per ebbrezza, ma Sans Merci in verità non bada a queste ampie strofinature del suo prezioso pavimento, quanto piuttosto a quel voluminoso rilievo sulla schiena del pazzo, che continua a mutare di posto, e dunque non può essere un’escrescenza carnosa.

    No, il suo popolo è un popolo coi denti forti, e potrà benissimo tirare avanti cucinando le gambe dei tavoli e affettando del pan di calce, ma la Regina ha un bisogno urgentissimo di altri zaffiri, e quello nascosto sotto la cotta rugginente e mal rinsaldata del cavaliere non è meno grosso di un pugno. E quando l’Ancella del Protocollo sta per colpire un’altra volta con la bacchetta la mano di Busdecul, che per trovare un poco di equilibrio nel proprio giramento di testa liscia il bordo della pedana, atto proibito perfino agli ambasciatori delle nazioni più potenti, la ferma alzando impercettibilmente il sottilissimo polso color dello strutto:

    - No, Acate, siate paziente con questo cavaliere. Ha tanto penato, e merita di trovare una murata contro cui riposare, e ricevere la giusta mercede. Volete un cuscino, audace traversatore di mari?

    - Non ne sono degno, Mia Maestà. Datemi due giorni, e riprenderò l’antica confidenza con le quinte di spazî della mia amata città, e...

    - Ma non sareste meno travagliato, carissimo Busdecul, se vi levaste dalla schiena quello che mi avete portato, difendendolo con la picca e coi denti dai compagni infedeli, dagli Spagnuoli e dalle bufere marine? Ha l’aria di pesare, molto, e voi siete già uomo, e uomo di valore, e non somaro.

    Al che Busdecul, ignaro come ogni uomo del proprio aspetto posteriore, prende a darsi botte d’intuizione alle scapole, perdendo il poco di equilibrio fin qui conservato. Che la Regina abbia scambiato i piccoli tumori di tante sue cicatrici male rimarginate per uno di quei bauletti che i viaggiatori legano al collo con una catenina come unico possesso inseparabile da se stessi? Le scoppole che si dà alla schiena in sostituzione di due occhi in nuca lo fanno presto cadere su un fianco, e otto ancelle accorrono al segnale della Regina per aiutare il cavaliere derelitto a rimettersi sui ginocchi. Otto! Tre volte tre! Non ne basterebbero quattro, con un uomo così smagrito dal viaggio? Ma che dico quattro: una ne basterebbe, a usare il raziocinio, anche calcolando il peso del tanto ferro, pur forforoso di ruggine, della sua divisa!

    Frastornato, imbarazzato da tutte quelle femmine piccardine, non meno maliziose di quelle eufratine, pur se più chiare di carne, Busdecul riesce a rimettersi inginocchiato, sottile come un asparago di Zambana, e a ridere come un fanciullo perché nella ressa che lo ha aiutato a sollevarsi quello che gli sporgeva sulla schiena è rimbalzato sul petto.

    - Oh, Mia Maestà! Avete ragione: con tutti i vostri più valenti uomini lontani nel Levante, le vostre posate saranno tutte smussate. Al guardaroba, allora! Al guardaroba, e attente alle faville, mie piccole piccardine!

    Il vociare al porto, e il rimbombo dei ceffoni tra i cavalieri tornati e gli ufficiali daziari, e il pianto epocale delle mogli che attendevano cosce di camelopardo in salamoia e ricevono dagli sposi un abbraccio vuoto e puzzolentissimo, sempre che non si scoprano vedove, sommati fanno un tuono che incrina l’azzurro nuvoloso della volta celeste, eppure anche sull’uncino finale del molo si sente perfettamente il grido dell’ira della Regina Sans Merci che distingue la cote nella mano piagata di Busdecul.

    Piccardia in fiamme

    Busdecul inspira una quantità esagerata di aria, tanto è atterrito dall’ira della Regina, e tende con difficoltà i muscoli delle cosce, per levarsi ritto. Per un istante riesce a iniziare il movimento di recupero della piena statura, ma gli improperi della Regina sono tanti, e così astiosi, e le fibre dei suoi muscoli così impoverite dal lunghissimo digiuno per mare, che cade all’indietro. Cade sull’osso che chiamano sacro perché è ciò che del sacerdote i fedeli vedono mentre parla al muro con parole farfugliate.

    Nelle spire della sua trippa vi è un caos non dissimile da quello del mondo prima che il metano, tra tutti i gaz, si accendesse in un’aureola di visibilità attorno a ciò che c’era. Un caos gazoso, senza alcuna verità di verdura o di carne, senza la minima polvere argentea di pesce a rivestire un qualunque bolo ordinato. L’ultimo pasto che ha consumato, quattordici giorni fa, è consistito nel penultimo quaterno di un libro trovato nella cassa ferrata di Zacharias, il capotolda. È stato Bacone a dire che vi sono libri che vanno assaggiati, altri mandati giù come medicine cattive, pochi in verità che possono essere goduti con una lenta masticazione e una buona, successiva digestione. Quello che Busdecul e i suoi camerati hanno mangiato era, con proprietà parlando, un libro palliativo, che nulla ha loro insegnato e nulla ha potuto contro i dolori scorbutici della gran parte di loro, e che è servito unicamente a far lavorare lungamente le mandibole, illudendo le cervelle soprastanti sul frutto di tale fatica di denti, ma l’equipaggio del Pearit non aveva ovviamente potuto fare una cernita giudiziosa, perché in quella cassa vi era un unico libro, assieme a due fazzolettoni da collo sgargianti ma bene orlati, tre lettere dettate da sua madre allo scrivano e lette a Zacharias da Busdecul medesimo, l’unico sul naviglio che sapesse tenere tra le dita una lettera correttamente orientata, quattro anelli da lobo, di oro vero, ma che Zacharias non portava perché quando li infilava all’orecchio questo si chiazzava tutto di uno scarlatto pruriginoso, una bugia d’argento avvilito da un tenace ombreggiamento, col foro per la candela troppo slabbrato per tenerne diritta una senza un gran spreco di gocciolone calde a sostegno della voluta dirittura, due gessi vergini per punte di dardo vinti da Zacharias a chissà che balestriere come ultimo bene giocabile in qualche morra strascinata fino alla raucedine, una cartella da tombola orlata da mezza circonferenza di vino rosso, e quant’altro era in comparti che non ho fatto in tempo a vedere bene.

    Sbattendo dolorosamente contro il marmo policromo del pavimento, l’osso sacro di Busdecul propaga a tutte le trippe intrecciate nella rientranza del suo stomaco una serie così fitta di vibrazioni, che il caos gazoso che vi ha tenuto muto per tanto tempo fuoriesce dalla tromba posteriore, risuonando per tutto l’ammezzato della reggia. Nessuno degli annali che contengono la storia della Piccardia fa menzione di una strombata di tale potenza. Scaraventa il lampadario contro la volta, la cuffia spillata e cerchiata d’argento dell’Ancella del Protocollofino al porto, la treccia destra della Regina fuori del nodo in nuca, schiaffeggiandogliela violentemente contro il bordo umoroso dell’occhio sinistro: increspa le acque del porto fino a far sbattere come nacchere ogni naviglio con il suo compagno di pino strobo e il molo accosti: svelle le dodici perle intronate nel mezzo cerchietto sùbito sopra la fronte ingrassata della Regina, la zampa destra posteriore del trono leonino dalla zeppa che la pareggiava alle altre, il dente superiore di porcellana del Ministro per le Cose Lontane affacciatosi nella sala nel preciso istante della tremenda strombata. E la forza della tromba naturale di Busdecul è tale da sospingere via da questa fronte regale il grasso spalmatovi al principio della giornata, raccogliendolo in brutti grumi color tuorlo marcito contro il cerchietto senza più perle e lungo le ciocchine all’inizio delle orecchie, che sarebbero un poco a sventola, se segretamente non le tenesse vicine alla testolina un gancino ciascuna.

    - E non parlatemi da dietro le spalle!

    A Busdecul manca dal viso tutto il poverissimo e acquoso sangue che gli è rimasto, che va a rifugiarsi nella pompa cardiaca. La sua reputazione, i racconti orientali che ha preparato nelle lunghe notti insonni della bonaccia, la voglia di fare ritorno al suo vigneto per godervi i mutamenti cromatici delle foglie, sia quelli autunnali sia quelli vernini, se ne sono andati su per la volta del salone assieme ai gaz espulsi dalla sua tromba posteriore, il cui squillo non ha pari né nella diana della cavalleria né nel segnale da nebbia della marina del suo amato Paese. Un gradino per volta discende la scala che ha salito con una così bella fioritura di pensieri e si allontana con gli occhi obliqui del bandito.

    Così potente è stata la sua strombata, che l’eco lo precede giù per la scalea, così come il vento persiste a vorticare al piano superiore, spogliando le materasse delle loro fodere, così come penetra nel seminterrato della reggia, dove scoperchia i vetri bombuti delle conserve, incupisce di marrone le polpe preparate, crepa i pesci essiccati e stordisce la sola fantesca che non sia scappata verso il porto a cercare nei visi rugosi dei marinari quello del suo amoroso. Era intenta a seguire gli sversamenti dei coli, e pur abituata com’è agli sfiati dei pentoloni dove vengono cotte le verze così care alla Regina Sans Merci, ora vacilla e deve aggrapparsi al bordo del canterano dove vanno riposti, una volta puliti buco per buco, i coli e i cestelli.

    Ci mancava quest’altro vento di morte, su una terra così provata dalle stragi che fanno garrire tanti nastri neri attorno a ogni gagliardetto! Piccardia, Piccardia, quando torneranno a spirare per le tue vallate e attraverso i tuoi vigneti gli zefiri delle buone notizie? Per quanto tempo ancora tutti i popoli che hai attorno si intestardiranno a decimare la tua gioventù? Fino a quando i sette sesti del tuo regio bilancio se ne andranno, come i racconti orientali di Busdecul nel vortice gazoso asceso alla volta del salone, in liti, arbitraggi, risarcimenti alle vedove? Non ti rendi conto, o nobilissima Piccardia, che sei la nemica peggiore di te stessa e che con piede diabetico zoppichi verso la tua rovina, quando non tante generazioni fa correvi con la caviglia del cigno verso quel tempo fiorito da cui si diparte l’arco di trionfo dell’iride?

    Ma se facciamo alzare per un momento questo bellicoso Paese dal seggiolino dell’imputato, quale dei quattro popoli confinanti è il nemico più ostico della Piccardia? Teniamo presente che così come il volume del gaz caotico dentro Busdecul capiamo che era enorme dalla forza che ha esercitato sulle pareti delle sue trippe per produrre un tale suono e un tale vento, altrettanto immane possiamo giudicare il volume della storia di Piccardia dalla pressione con la quale ha premuto contro ognuna delle quattro pareti geografiche che la delimitano, litigando con ognuna di queste nazioni, oltraggiando a una festa o a quell’altra ciascuno degli ambasciatori o dei ministri accreditati, insultando le spose dei medesimi e facendo lo sgambetto ai loro figliolini perché cadessero con la fronte contro gli spigoli più crudi dei tavoli.

    Di queste tre nazioni attorno, le due più pericolose sono fuor di qualsiasi dubbio la Guascogna. La fanteria guascona non bada alla decimazione della sua prima fila. Quando la prima fila giace sul campo trafitta, la seconda la scavalca e diventa la prima. Quando la seconda fila, divenuta la prima, urla violenta contro i Piccardini ma viene ugualmente trafitta e uccisa, la terza fila, che a questo punto ha già scavalcato con le caratteristiche suole di corda i cadaveri di quella che fu la prima fila, scavalca anche la seconda, caduta eroicamente nella marcia, e diventa la prima.

    Gli sguardi accigliati, i modi duri, i pollici callosi, i coglioni infrangibili come i gusci delle mandorle, i Guasconi sono così prolifici da avere una fanteria che non diminuisce nonostante i tanti caduti di ogni sua avanzata. Quando Barbamour è caduta, la Regina Sans Merci ha dato ordine alle ancelle del guardaroba di preparare una dozzina di bauli e di tenerli pronti nei finti carri da mugnai per l’eventuale partenza notturna per la Linguadoca, dove sua cugina Zelinda le avrebbe dato, pur malvolentieri, asilo, ma i Guasconi non hanno saputo trarre il dovuto profitto da

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