Riverberi
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Un tutto che si fa metafora di ogni distacco, che prova, talvolta senza successo, ad educare i nostri sentimenti. Una sequenza di immagini fotografiche e didascalie da tanti luoghi del mondo e una raccolta di storie e storielle, memorie, poesiole, riflessioni, aforismi e haiku, tenuta assieme da quel piccolo filo di luce che tutti accomuna, che in tutti crea empatia, somiglianza ed ascolto.
Un viaggiare e un guardare al di là del tempo presente restando fedeli, con semplicità, ai sogni della condizione umana. Questo libro sembra perciò rimettere in discussione l’idea che ognuno si è fatto della narrazione. Ti fa stare bene. Tienilo a portata di mano.
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Riverberi - Vincenzo Troiani
Vincenzo Troiani
Riverberi
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Indice dei contenuti
VINCENZO TROIANI
R I V E R B E R I
Tutte le fiaccole
si accendono insieme.
E la luce
illumina un giardino.
Ho percorso molta strada
per la bellezza.
Ora,
i tuoi occhi sono spenti,
cosa ti è successo,
amore?
Quel che è successo
ai miei occhi,
è successo alla tua bellezza.
È successo a me.
(L. Cohen)
a mio padre e mia madre
NOTA DELL’AUTORE
Ci sono scritti, e anche immagini, che messi l’uno accanto all’altro, non necessitano di una esplicita connessione: una qualche traccia, un filo conduttore, se si vuole, possono essere ricercati controluce, in trasparenza.
Una storia, una poesia, un flash di vita, una cosa come queste può salire, libera, alla ribalta del tuo animo, increspandosi appena come un’onda, e, solo per il tempo di uscire dall’ombra, essa ti parla, offrendoti una bianca scia di luce e una qualche serenità e conforto.
Come uno specchio d’acqua.
Acqua che poi si lascia andare verso la riva, per vivere il tempo della sua ultima solitudine, del suo ritorno.
Un filo d’acqua, un suo riverbero, intesse dunque la nostra vita. È il suo mistero che resta sospeso tra parole e immagini, respingendo però ogni monologo.
E tu puoi accoglierlo, avere fiducia nella riflessione che esso ti propone, per un solo tempo, prima che la sabbia s’affretti a prenderlo al suo seno e a disporre di ciò che esso reca.
Come una favola per i nostri figli, come di cosa passata.
Uluru
Sembra che tu abbia imparato a venir fuori dalla ruvidezza della materia, e delle cose.
Tu sei infatti la pietra-non pietra che adegua, ad ogni ora del giorno, i suoi colori e i suoi umori.
Tutti i suoi riverberi.
Li muti come assecondando la vita delle altre creature, con lo stupore che suscita il succedersi stesso delle stagioni. E lo fai, sempre, con grande classe e con una sorta di frivolo compiacimento, quasi con civetteria.
Sei l’interprete principale, la prima donna sul palcoscenico sconfinato dei sogni della tua gente e ti sei posta come icona riconosciuta della loro variabilità, del loro potere e del loro linguaggio.
Stentiamo per questo a credere che tu sia solo una pietra, un monolito arrivato da chi sa dove, che nasconde i segreti del proprio corpo, e quelli della sua origine, in caverne protette da una roccia liscia e a strapiombo.
Come se tu volessi attendere al varco gli incauti che, per condividere il tuo sogno, e la tua storia, per sentirsi cioè vivi della tua vita, cercano di accostarti.
A qualcuno tu però lo hai concesso: e di queste storie restano incisi, ancora sulla tua pelle, i magnifici dipinti che fanno memoria, anche ora, anche a noi, di chi ha stretto a sé, con fortuna, il tuo corpo, immergendosi nella tua luce, raggiungendo il tuo cuore.
Il mattino dopo
Si scosse, come dai postumi di un lungo viaggio.
Era tornato e aveva rinvenuta vuota persino la casella della posta.
Altri, ti daranno presto conforto, avevano detto.
Lui però voleva per sé soltanto, e ancora, un abbraccio.
Ricominciare, ecco ciò che ora conta.
Parlava a se stesso, ma guardava al suo vecchio maestro, che, ancora una volta, gli era accorso vicino.
Prima, però, occorre ritrovare se stesso.
Ma a che scopo ?
In primo luogo per liberarti dalla sensazione di trovarti di fronte ad una porta pronta a chiudersi, o magari già sbarrata. Scontando anticipatamente la solitudine e il disincanto di un nuovo fallimento.
È vero. Continuo infatti a guardarmi intorno e a chiedermi: questa volta, ce la potrò fare ?
Non guardare all’appartamento che è vuoto.
Comincia a segnare un punto dove mettere le scarpe. E poi prosegui, per i vestiti, i libri, le cose da mangiare, e così via. Il gesso ti aiuterà.
Un posto segnato per tutti e tutto ?
Tu promuovi e conserva l’ordine. Un giorno, presto anche, esso ti salverà.
E io, come farò poi a sapere, dove e a che punto mi trovo?
Non è il luogo che conta. È la tensione del vivere che, volendo, si può anche misurare.
Ma è come la febbre. Altra cosa è la cura.
Non è quella che conta, la cura?
Ora tu hai cominciato a sistemare il tuo ambiente: sei già sulla strada di non considerare soltanto te stesso.
Impara a pensare che ogni piccola cosa che sistemi, che trova posto nel tuo orizzonte, anche domestico, quando la cercherai sarà essa, poi, a pensare a te.
Mi sento confuso. Mi sembra di aver perso la mia spontaneità e il mio equilibrio e anche, purtroppo, la fiducia in me stesso.
Quando patisce la solitudine, quando continua a pensare solo a se stesso, e ai suoi mali, ognuno di noi, come ogni altra creatura, vive come se si sentisse un pesce fuor d’acqua.
Mi sembra una buona metafora. Ma…
Già l’acqua.
Occorre che sull’acqua, però, ci si chini.
Per specchiarsi, senza chiedere nulla, senza parlare e persino senza toccarla. Lasciandosi come assorbire dal suo movimento. E dalle sue pause.
Ma questa non è una forma, magari anche sublime, di egoismo?
No. Perché in quel momento sentirai, che la trasparenza dell’acqua, la sua stessa forza e la sua innocenza rende meno importante sentirsi un soggetto.
Essa è l’unica che può riconciliarti con il vivere, perché