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La Terza Repubblica vista da un marziano: Appunti di un diario 2018 - 2019
La Terza Repubblica vista da un marziano: Appunti di un diario 2018 - 2019
La Terza Repubblica vista da un marziano: Appunti di un diario 2018 - 2019
E-book161 pagine2 ore

La Terza Repubblica vista da un marziano: Appunti di un diario 2018 - 2019

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SE MACHIAVELLI AVESSE LETTO QUESTO DIARIO
NON AVREBBE SCRITTO IL PRINCIPE E SI SAREBBE SUICIDATO

La Terza Repubblica ha superato di gran lunga la fantasia dell’autore di Hellzapoppin e nessun terrestre riesce a raccapezzarcisi, figuriamoci un marziano.
È capitato, infatti, che un marziano, condannato al confino per reati politici, sia stato inviato per alcuni anni nella colonia penale più infernale dell’universo, situata agli estremi confini della galassia: nella città di Roma! E qui, per non morire di noia, si è messo a osservare gli stravaganti usi politici degli abitanti locali.
Non riuscendo a comprenderli ha deciso di appuntarli in un diario, … finché ha potuto, fino a quando la mente gli ha retto e gli ha consentito di andare oltre la logica e la fantasia.

GIANCARLO TARTAGLIA direttore della Federazione Nazionale della Stampa Italiana e Segretario Generale della Fondazione sul Giornalismo Italiano “Paolo Murialdi”. È stato collaboratore di Nord e Sud, La Voce Repubblicana, Roma, La Gazzetta del Mezzogiorno, Nuova Antologia.
Ha pubblicato studi e ricerche sul mondo laico e democratico italiano. In particolare, I Congressi del partito d’Azione 1944/1946/1947 (Ed. Archivio Trimestrale 1984), Un secolo di giornalismo italiano. Storia della Federazione nazionale della stampa italiana I (1877-1943) (Mondadori 2008). La Voce Repubblicana. Un giornale per la libertà e la democrazia (Ed. Voce Repubblicana 2012), Francesco Perri dall’antifascismo alla Repubblica (Gangemi Editore 2013), Il giornale è il mio amore (All Around 2018).
Ha curato il volume di Michele Cifarelli, Libertà vò cercando… Diari 1934-1938 (Rubbettino 2004) e i primi due volumi Scritti 1925-1953 (Mondadori 1988) e Scritti 1953-1958 (Presidenza del Consiglio dei Ministri 2003) dell’opera omnia di Ugo La Malfa; Agli italiani, alcune pagine di Giuseppe Mazzini (All Around 2017) e la raccolta di scritti di Paolo Murialdi L’informazione tra riforma e controriforma (All Around 2019). Alla fine ha ceduto. Poveretto. Non tornerà più su Marte. Ci ha lasciato questi suoi appunti di diario.
Attenzione, però, dobbiamo avvertire il lettore che volesse avventurarsi nell’impresa di leggerli che lo farà a suo rischio e pericolo.
Siamo certi, infatti, che se Niccolò Machiavelli li avesse letti si sarebbe rifiutato di scrivere Il Principe e si sarebbe suicidato.
LinguaItaliano
Data di uscita24 mar 2020
ISBN9788899332723
La Terza Repubblica vista da un marziano: Appunti di un diario 2018 - 2019

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    Anteprima del libro

    La Terza Repubblica vista da un marziano - Giancarlo Tartaglia

    suicidato.

    Promemoria

    Nicola Zingaretti:

    «Colgo l’occasione per smentire per l’ennesima volta l’ipotesi di un governo Pd 5 Stelle».

    «Nel caso si arrivasse a una crisi di governo la nostra posizione era, è e rimarrà sempre la stessa: ridare la parola agli italiani».

    Matteo Salvini:

    «Abbiamo idee di sviluppo diverse. Mai governo Lega 5Stelle. È un impegno solenne che prendo io».

    Luigi Di Maio:

    «Non mi fido di loro. Noi faremo in modo da dare un governo al Paese».

    Un popolo di poeti

    «Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori di trasmigratori». Questo è scolpito sul travertino delle quattro testate del Palazzo della Civiltà Italiana, nel cuore dell’Eur, quel quartiere avveniristico che doveva celebrare il ventennale trionfo di un regime proiettato a segnare per millenni, con le sue gesta, la storia italica e i suoi trionfi.

    Ma la retorica fascista si era dimenticata di aggiungere che quel popolo di poeti era anche un popolo di costituzionalisti, capaci di edificare perfette architetture costituzionali ma anche di individuarne i sottili meccanismi per interpretarle, aggirarle, vanificarle.

    Quando, nell’ottobre del 1922, il re Vittorio Emanuele III telegrafò all’onorevole Benito Mussolini per convocarlo a Roma, il capo del fascismo, che aveva messo qualche centinaio di chilometri di distanza tra sé e la marcia su Roma ma soltanto pochi chilometri tra sé e l’ospitale Svizzera, rispose al sovrano con un altro telegramma comunicandogli che aveva già composto il suo governo. Il re si limitò a ratificarlo.

    Si era sul filo della Costituzione albertina. Vittorio Emanuele era convinto di averla rispettata mentre Mussolini, dal canto suo, era altrettanto convinto che quella Costituzione fosse stata ormai lacerata e che la rivoluzione fascista avesse trionfato.

    Quando, a luglio del 1943, dopo un ventennio della tanto agognata stabilità, sua maestà, ora non solo re ma anche imperatore, per uscire dal disastro della guerra liquidò Mussolini, lo fece appellandosi a un voto del Gran Consiglio del fascismo, ritenendolo un organo costituzionale, titolare del diritto di fiducia e sfiducia al governo. Anche qui eravamo ai bordi (forse anche un po’ fuori) dello Statuto Albertino ma, ancora una volta, Vittorio Emanuele III si convinse di essersi mosso nel rispetto della Costituzione mentre Mussolini poté sostenere che il sovrano avesse compiuto un colpo di Stato.

    Episodi lontani. Certo. Ma che comunque testimoniano come i miracoli costituzionali possano giustificare tutto e il suo contrario. Non a caso, scavallando il nuovo millennio, siamo passati dalla prima alla seconda, alla terza Repubblica senza che una sola riga della Costituzione del ’48, retoricamente definita la più bella Costituzione del mondo, fosse stata modificata. Come mai? Semplificazioni giornalistiche? Certo, ma non solo. Anche la sempre più affollata schiera dei costituzionalisti, oltre che dei modesti politici privi di altri argomenti, senza escludere la scarsa attenzione di chi è chiamato a farla rispettare, ha contribuito a dare l’immagine che alla Costituzione scritta si potesse sovrapporre (l’interpretazione è libera) una Costituzione materiale dettata dalle necessità del momento.

    I padri costituenti, avendo buona e non approssimativa conoscenza della storia italiana dall’unità alla caduta del fascismo, erano perfettamente consapevoli delle manchevolezze dello Statuto Albertino, non ultima quella di essere una Costituzione octroyée, costruita su misura per garantire il potere della Monarchia nonché delle deformazioni autoritarie compiute impunemente dal fascismo.

    Forti di questa consapevolezza, costruirono una Repubblica parlamentare bicamerale basata sulla divisione e l’equilibrio dei poteri. Il presidente della Repubblica, primo garante della Costituzione, affida a un cittadino della Repubblica l’incarico di presidente del Consiglio, dopo avere ascoltato le forze politiche presenti in Parlamento. Il presidente del Consiglio incaricato indica i ministri del suo governo, che devono giurare davanti al capo dello Stato, e chiede la fiducia alle Camere.

    Così è scritto. Ma, poiché viviamo nell’era della velocità tecnologica, queste prassi burocratiche appaiono superate, o meglio, appaiono riti, sovrastrutture, di un passato che occorre superare. La democrazia diretta è lì che ci aspetta. Occorre adeguarsi in fretta. Di conseguenza, al giro di boa della terza Repubblica (!?), con l’inizio della XVIII legislatura è stata instaurata, sempre senza modificare una sola riga della Carta del ’48, la Repubblica vicepresidenziale, nel silenzio di chi aveva il potere, e il dovere, di intervenire.

    L’articolo 86 della Costituzione recita «Il presidente della Repubblica nomina il primo ministro e, su proposta di questo, i ministri» ma nella prassi odierna è stato così cambiato «Il presidente della Repubblica nomina i vicepresidenti del consiglio e, su proposta di questi, il primo ministro» che, naturalmente, dipende dai vicepresidenti. Un vero popolo di poeti, di scienziati, di pensatori e soprattutto di artisti.

    Quanto segue vuole essere soltanto una frettolosa annotazione – appunti di diario – di questa nuova e ingegnosa formula di Repubblica che, per i suoi aedi, ha un precedente nella Roma repubblicana dei Consoli e che non sappiamo quanto sia destinata a ripetersi nei secoli ma che, per il momento, si è limitata a una legislatura e forse basta.

    Le elezioni per la nuova legislatura

    Siamo a marzo del 2018.

    Si va alle urne per eleggere la nuova legislatura repubblicana. È nell’aria, e nei sondaggi, un successo del movimento 5 Stelle. Il furbo Matteo Renzi vuole fermarlo e impone il Rosatellum, una legge elettorale ai limiti della legittimità costituzionale che dovrebbe premiare le coalizioni. È ovvio che nel centro-destra ci sarà una coalizione, il Pd tenterà di farne un’altra, i 5 Stelle rimarranno isolati. Che furbata!

    Ma l’esito non è quello auspicato dall’acuto stratega toscano. I risultati elettorali, come nei pronostici, assicurano un ampio successo alle liste del movimento 5 Stelle e, nel centro-destra, a quelle della Lega. I pentastellati ottengono il 32% mentre gli uomini di Matteo Salvini arrivano al 17%. In base alla legge elettorale, che prevede le coalizioni, a ottenere la maggioranza dei consensi risulta essere quella di centro-destra, con una percentuale del 37%: Forza Italia si attesta sul 14% e Fratelli d’Italia poco sopra il 4%.

    Delusione, invece, per la coalizione guidata, di fatto, dalla volpe di Rignano: il Partito democratico crolla sotto il 19%, mentre la lista +Europa di Emma Bonino ottiene un modesto 2,5%. Si apre quella che i giornali definiscono la difficile partita del dopo voto, alla ricerca di una maggioranza che, viste le forze in campo, appare, al momento, molto complicata: sarà compito del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sondare il terreno e guidare il Parlamento fuori dalla palude nella quale sembra costretto.

    20 marzo Eugenio Scalfari, ospite del talk show politico condotto da Giovanni Floris Dimartedì (La7), analizzando gli scenari post-elettorali, pur tifando per un Gentiloni-bis, si dice convinto di un accordo tra Lega e M5S: «Questo è il governo che hanno in mente Salvini e Di Maio». Ma aggiunge, anche, con un guizzo di ardita fantapolitica: «Di Maio? Gli suggerii di trasferirsi con tutti i suoi verso i residui del Pd e chiamarsi lui democratico, non più 5 Stelle. Non si capisce poi che cavolo significhi 5 Stelle. In questo modo Di Maio sarebbe diventato il capo del Pd, così tutta la sinistra sarebbe stata unita. Ma se lui tratta con Salvini è difficile».

    Gli risponde a breve giro di posta l’ex segretario del Pd Pierluigi Bersani che, in polemica con la gestione personalistica e fallimentare di Renzi, ha abbandonato il partito ed è rientrato in Parlamento, eletto nelle liste della sinistra di Liberi e Uguali: «Sono tre o quattro anni che dico che i 5 Stelle hanno appaltato tante nostre istanze. Dal 2013 sento questa cosa qua. Questa continua demonizzazione dei 5 Stelle gli ha tirato la volata. Bisogna essere equilibrati nel giudizio. Sento che tanto popolo del centro-sinistra ha votato M5S. E parlo di popolo, lo sottolineo. Ma è anche vero che tanto popolo ha votato la Lega» e aggiunge, rifacendosi alle sue metafore pastorali: «Ho sentito Scalfari dire che Lega e M5S si metteranno d’accordo per un governo. Io sconsiglierei ai 5 Stelle di mettersi in quella strada, perché la mucca nel corridoio è la destra nel mondo e anche in Italia».

    Per Bersani, che appare avere molto più acume politico di Scalfari, il cuore del problema è però un altro: «I 5 Stelle hanno ancora un punto che dovrà essere superato, altrimenti non so quale disastro potrebbe accadere: siete in Parlamento, avete il 33% ma volete dirci cosa pensate della democrazia rappresentativa? Nella nostra Costituzione non c’è la democrazia diretta – continua – Quindi, in una democrazia parlamentare, se sei il primo partito ma non hai il 50%, non puoi permetterti di dire: Venite tutti e bussate da noi. No, tu devi dire cosa vuoi fare. Tu, M5S, non sei il sole intorno al quale girano i pianeti. Il sole è il Parlamento. A me interessa moltissimo che risolvano quel problema e non lo dico in inimicizia».

    La prima seduta del Parlamento è prevista per il 23 marzo, data in cui Camera e Senato devono riunirsi per l’elezione dei relativi Presidenti. I numeri usciti dalle urne, come molte altre volte è accaduto nella storia parlamentare italiana, non garantiscono alcuna maggioranza precostituita. I tre partiti della coalizione di centro-destra raccolgono alla Camera 260 parlamentari e 137 al Senato. Non sono sufficienti per fare maggioranza. Ne servirebbero 315 alla Camera e 160 al Senato. Sembra che non ci siano soluzioni percorribili.

    Ma la Lega di Salvini e i 5 Stelle di Di Maio, dopo essersele suonate di santa ragione sulle piazze italiane nel corso della campagna elettorale (Salvini: «Io non do le chiavi del mio Paese a chi come Di Maio ha le idee confuse»; Di Maio: «La Lega deve decine di milioni agli italiani, abbiano la decenza di restituire i soldi»), ora, tanto gli italiani dimenticano, dopo aver constatato che messi insieme avrebbero la maggioranza del Parlamento, iniziano ad annusarsi.

    Li aiuta quel tal Steve Bannon che sembra sia stato l’artefice, con l’aiuto di fake news, del trionfo americano di Donald Trump e che ora va in giro per il mondo a predicare: «Sovranisti di tutte le nazioni unitevi». Per fare cosa? Ma è chiaro, per ridividere l’Europa in modo da renderla inoffensiva e subalterna all’America di Trump e alla Russia di Vladimir Putin. Matteo Salvini è un padano quarantaseienne, ha un’inflessione bergamasca nel parlare, è un po’ sovrappeso, odia le cravatte, ama le felpe, sembra uno dei fratelli di Rocco. È il tipico ragazzo della via Gluck.

    Luigi Di Maio, Giggino per gli intimi, è un giovanottello napoletano acqua e sapone, ben rasato e ben pettinato. Mai senza la cravatta e chi non si fa i fatti propri si chiede: ma la porta anche di notte? Sprizza perbenismo da tutti i pori. È di quelli che tutti vorrebbero come vicino di casa o fidanzato della propria figlia. È così perfetto che è certamente nato da un algoritmo della piattaforma Rousseau, gestita dall’omonima associazione presieduta da Davide Casaleggio a cui i parlamentari, i membri del Parlamento europeo e i consiglieri regionali pentastellati hanno l’obbligo di versare mensilmente un obolo di 300 euro.

    Casaleggio e Di Maio sono, come da atto costitutivo, i due soli soci fondatori del movimento 5 Stelle. Di Maio ne è il capo politico e il tesoriere e può modificare l’atto costituivo e i relativi allegati a suo piacimento, «senza alterarne il significato sostanziale». Si tratta di un movimento privo di quelle inutili sovrastrutture che sono le assemblee, i consigli nazionali, i comitati centrali, le segreterie ecc. Il rapporto è diretto tra il capo e il popolo. È questo il modello di democrazia diretta.

    Salvini e Di Maio sono fatti per non intendersi, ma si intendono, e il primo accordo si consuma proprio in occasione dell’elezione dei presidenti delle Camere. Si trova un’intesa tra il centro-destra e i 5 Stelle. Alla presidenza del Senato, seconda carica istituzionale, viene eletta Maria Elisabetta Alberti Casellati, avvocato matrimonialista di origine veneta, sin dal 1994 in Forza Italia e in Parlamento; alla presidenza della Camera Roberto Fico, un giovane napoletano laureatosi con una tesi su Identità sociale e linguistica della musica neomelodica napoletana, con alle spalle un modesto curriculum di precariato tra alberghi e call center, sistematosi finalmente in Parlamento, grazie a Beppe Grillo, sin dal 2012. La sua candidatura sul web aveva ottenuto ben 228 preferenze! Miracoli della democrazia diretta.

    Matteo Salvini e Luigi Di Maio si muovono in sintonia tanto che sui giornali si affaccia l’idea che possano giocare anche una nuova partita sull’esecutivo. Casellati, in una intervista al Tg1, si dichiara ottimista sulla possibilità di far nascere un nuovo governo: «Lo penso davvero, sono ottimista. Nonostante le differenze di idee, le legittime divergenze di programmi, oggi c’è stato

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