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NO allo sfregio della Costituzione
NO allo sfregio della Costituzione
NO allo sfregio della Costituzione
E-book306 pagine4 ore

NO allo sfregio della Costituzione

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L’obiettivo di questo scritto è mostrare come non vi sia neppure una ragione, tra quelle addotte dal governo Renzi per giustificare lo stravolgimento della Costituzione, che sopravviva ad una critica anche blanda. Ciò rende tali riforme un pericoloso guazzabuglio al quale è necessario opporsi. Il volume raccoglie le riflessioni a sostegno del fronte del “NO” al referendum costituzionale di Arnaldo MIGLINO, Alfiero GRANDI, Felice BESOSTRI, Paolo CIRINO POMICINO, Rino FORMICA, Danilo TONINELLI, Luigi COMPAGNA, Giuseppe GARGANI, Domenico GALLO, Nunziante MASTROLIA, Domenico ARGONDIZZO, Giampiero BUONOMO, Ennio DI NOLFO, Franco MARI
LinguaItaliano
EditoreLicosia
Data di uscita6 lug 2016
ISBN9788899796037
NO allo sfregio della Costituzione

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    NO allo sfregio della Costituzione - Nunziante Mastrolia

    Formica

    Genserico, Renzi, e… la riforma costituzionale

    Arnaldo Miglino

    Genserico diventò Re dei Vandali e degli Alani in seguito alla morte del fratellastro Gunderico che, forse, fece assassinare. Non si può essere sicuri dell’omicidio, ma neppure possiamo meravigliarcene: in quel tempo la lotta politica si faceva anche accoppando fisicamente l’avversario. Genserico, furbo e avido di potere, era talmente estraneo alla cultura e alle istituzioni di Roma da non subirne neppure lontanamente il fascino, al contrario di altri capi barbari, come Alarico.

    Vandali e Alani abitavano la Spagna meridionale quando, forse, furono chiamati dal generale romano Bonifacio a stabilirsi nella diocesi d’Africa. Comunque, Genserico mise a ferro e fuoco la diocesi. Riuscì a creare un regno con capitale Cartagine, da cui faceva partire incursioni piratesche nel Mediterraneo. Forse, fu chiamato a Roma dall’imperatrice Licinia Eudossia, moglie del defunto imperatore romano d’occidente Valentiniano III, rimasta in balìa di Petronio Massimo, proclamato imperatore dal Senato ma non riconosciuto dall’imperatore d’Oriente.

    Comunque, Genserico nel 455 armò la flotta e, giunto a Roma, la saccheggiò per quindici giorni. Si conosce il patto che fece con il papa Leone I: gli abitanti dell’Urbe non dovevano essere uccisi o torturati, né le loro case dovevano essere bruciate.

    Genserico e i suoi non erano più feroci di altri barbari, ma le loro gesta hanno trovato riconoscimento nella parola vandalismo, così spiegata nel Grande dizionario della lingua italiana del Battaglia: «Tendenza a rovinare, distruggere, devastare beni altrui senza necessità e senza motivo, per incuria, per puro divertimento, per ostentazione di forza o per ignoranza o mancata comprensione del valore estetico o dell’utilità di ciò che si distrugge».

    E’ sicuro che il politico e dottore in legge Matteo Renzi, non appena divenuto segretario del Partito Democratico, ha preso con il capo dell’opposizione Silvio Berlusconi patti tenuti rigorosamente segreti: non si può quindi escludere che essi riguardino anche la deturpazione del nostro ordinamento.

    E’ sicuro pure che il suddetto dottore in legge, messo da parte politicamente il suo compagno di partito e titolare della Presidenza del Consiglio Enrico Letta, è stato chiamato a Roma per ricoprire la carica stessa dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Dopo di che si è fatto promotore e firmatario di una legge di riforma della Carta costituzionale. Per verificare se questa legge concretizza o meno un atto di vandalismo istituzionale si legga innanzitutto il nuovo testo dell’art. 70 (lo si trova nel corso del libro), indegno di figurare persino in un regolamento d’uso di una piscina comunale.

    Poiché a questo punto il lettore sarà già infastidito, bisognerà proseguire in maniera molto sintetica per illustrare la portata e il valore della riforma.

    Uno degli obiettivi dei nuovi padri costituenti sarebbe quello di ottenere semplificazione ed efficienza nei procedimenti legislativi. Tuttavia, incoerentemente, il Senato non è stato abolito, ma tenuto in vita con attribuzioni che realizzano il guazzabuglio procedurale contemplato nel citato articolo 70. Attualmente ogni progetto di legge deve essere approvato dalla Camera dei deputati e dal Senato, e ciò non può dar luogo ad alcuna complicazione. Invece, secondo la riforma, la Camera dei deputati dovrebbe legiferare insieme al Senato soltanto in certe materie; ad esempio, nella disciplina delle funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane. Poiché non è possibile stabilire con sicurezza quando una funzione è fondamentale oppure no, la validità di una legge approvata dalla sola Camera dei deputati in materia di enti locali si presterà a contestazioni dinanzi alla Corte costituzionale.

    Il pasticcio sulle competenze legislative non riguarda soltanto i rapporti fra le due Camere, ma anche le relazioni fra Stato e Regioni. Secondo l’attuale Costituzione, lo Stato può disciplinare totalmente alcune materie espressamente determinate, quali: politica estera, difesa… (si parla perciò di competenza esclusiva statale). Inoltre, può disciplinare alcune altre materie, sempre esplicitamente enunciate (tutela della salute, governo del territorio, ...), con norme di principio che devono essere specificate dalle Regioni (si dice quindi che sussiste una competenza concorrente). Per tutte le materie non espressamente contemplate dalla costituzione, il potere legislativo spetta alle sole Regioni (competenza esclusiva regionale). Anche questo sistema è stato modificato. La competenza concorrente è stata eliminata, sicché rimane solo la legislazione esclusiva, statale e regionale: le leggi sono emanate o dallo Stato, solo nelle materie espressamente indicate, o dalle Regioni, in tutte le altre materie. Tuttavia, su proposta del Governo, la legge statale potrà intervenire anche nelle materie di esclusiva competenza regionale quando lo richieda, peraltro, la tutela dell’interesse nazionale. Poiché il concetto di interesse nazionale non è ben determinabile, il governo e la sua maggioranza parlamentare potranno farne uso tutte le volte che vorranno invadere la competenza delle Regioni. Queste, da parte loro, potranno contestare che la legge dello Stato risponda all’interesse nazionale impugnandola dinanzi alla Corte costituzionale, entro sessanta giorni dalla pubblicazione. La proliferazione di liti del genere sarà incoraggiata dal fatto che la legge statale, una volta emanata, rimarrebbe in vigore fino a quando lo Stato lo volesse. Diversamente avviene in Germania. Qui, soltanto in alcune determinate materie, di competenza degli Stati federati, può intervenire lo Stato federale con sue leggi, ove lo richieda l’interesse generale. Gli stati federati possono chiedere in ogni tempo che il Tribunale Costituzionale accerti che è venuta meno la necessità di una disciplina federale, sicché in seguito alla decisione del Tribunale (avente valore equivalente a quello della legge federale) si fa chiarezza in ordine alle rispettive competenze. Siccome un simile meccanismo non è previsto nella riforma che ci riguarda, è ovvio che le Regioni, per non rimanere espropriate a tempo indefinito della loro potestà legislativa, si affretteranno a impugnare nei sessanta giorni loro concessi le leggi statali giustificate con l’interesse nazionale. E davanti alla Corte costituzionale si litigherà con belle cause, degne dello stato di diritto. D’altronde, la procedura prevista per approvare le leggi invasive della competenza regionale è fatta apposta per incoraggiare le liti: i rappresentanti di Regioni e Comuni che siedono nel Senato possono, a maggioranza assoluta, proporre modifiche alle leggi predette; ma la Camera dei deputati, a maggioranza assoluta, può disattendere le modifiche suggerite dal Senato. E’ ovvio che le Regioni, una volta sopraffatte a colpi di maggioranza nel Parlamento, si affretteranno a rivalersi ricorrendo alla Corte costituzionale. Ci vuole la zingara indovina per sapere che andrà a finire così? C’è bisogno di andare oltre nell’esame della riforma per verificare se realizza o meno un atto di vandalismo istituzionale?

    La riforma costituzionale e la stagione referendaria

    Alfiero Grandi

    I costituenti hanno inserito il referendum nella Costituzione come strumento di partecipazione, sia pure con limiti precisi. Ad esempio escludendo alcune materie dalla possibilità di abrogazione come le questioni fiscali, i trattati internazionali, ecc. e limitando il referendum sulle modifiche costituzionali a quelle approvate con meno dei 2/3 dei parlamentari e anche in questo caso non c'è automatismo perché il referendum deve essere richiesto o da almeno il 20% dei parlamentari, o da 5 regioni, o da almeno 500.000 elettrici ed elettori. Va sottolineato che quando i costituenti hanno pensato e scritto questa norma avevano in testa una legge elettorale proporzionale, da cui oggi siamo molto lontani. Questo requisito ampio per le modifiche della Costituzione, in presenza di una legge elettorale sostanzialmente proporzionale, ha conseguenze precise perché vuol dire rendere più facilmente esigibile il voto da parte dei cittadini, quando non si verifica una maggioranza congrua nell'approvazione delle modifiche, a conferma dell'importanza, e della delicatezza, attribuita ai cambiamenti della Costituzione.

    Vale la pena di fare una riflessione preliminare sull'uso dello strumento referendum su materie costituzionali. Ha ragione il professor Alessandro Pace quando sottolinea con insistenza che lo spirito delle norme che regolano le modifiche della Costituzione non è quello di riscrivere intere parti della stessa ma di procedere per punti omogenei, per obiettivi mirati e comprensibili da parte dei cittadini.

    Lo strumento referendario previsto dalla Costituzione è una sorta di ultima risorsa democratica che può usare chi non è d'accordo con una legge o una sua parte o con le modifiche della Costituzione.

    I referendum previsti dalla Costituzione vanno valutati con attenzione, sia per le potenzialità di modificare la situazione esistente, sia per i problemi che aprono e a cui occorre venga data risposta. Perché spesso il risultato del referendum apre un varco ma non è in grado di dare anche le risposte. Le conseguenze dei referendum, se non previste o almeno affrontate in seguito, possono essere molto diverse da quelle immaginate.

    Il referendum è certamente uno strumento di forte semplificazione e quindi è un cuneo capace di determinare un cambiamento radicale. In molti casi apre spazi che richiedono risposte politiche e che lo strumento referendario in quanto tale non è in grado di dare, tanto più se l'azione politica che ne segue tenta di vanificarne il risultato come è accaduto tante volte.

    Si possono quindi distinguere due grandi campi referendari.

    Uno riguarda le modifiche della Costituzione. Per tutta una fase, gli interventi sulla Costituzione erano promossi su aspetti compatti, coerenti. L'elettore poteva valutare senza troppa fatica le conseguenze dell'esito referendario. Qualche decennio fa è iniziata una spinta a modificare contemporaneamente più aspetti della Carta costituzionale, a volte su argomenti molto eterogenei. Come del resto è il caso del referendum che si terrà nell'ottobre 2016.

    Questo affastellamento in parte è avvenuto sulla base di una spinta della destra di origine neofascista che si sentiva esclusa dalla Carta costituzionale nata dalla Resistenza e che quindi ha premuto per partecipare alla costruzione di una nuova Costituzione.

    Anche la parte maggioritaria della sinistra ha contribuito a questa tendenza, accettando o addirittura promuovendo delle commissioni bicamerali come strumento per riscrivere contemporaneamente molti aspetti della Costituzione.

    Finora questi tentativi sono falliti ma hanno lasciato sul terreno un mutamento di atteggiamento discutibile e pericoloso come quello di contribuire a legittimare cambiamenti della Carta costituzionale di grande ampiezza nello stesso provvedimento. Senza troppo riguardo né per la coerenza con il testo originario della Costituzione del 1948, né per le contraddizioni interne alla parte innovativa. I cittadini così non sono messi nelle condizioni di comprendere il senso reale dei cambiamenti proposti. Tanto meno si può seriamente sostenere che si cambia la seconda parte, quella che delinea l'assetto istituzionale, mentre la prima rimane intatta. In realtà le modifiche della seconda parte condizionano pesantemente l'attuazione dei principi contenuti nella prima.

    La legge Renzi-Boschi arriva in coda a questo periodo di velleità riformatrici e ne è in una certa misura l'erede. Nel senso che conferma l'errore di voler ritoccare la Carta costituzionale in aspetti fondamentali contemporaneamente, uscendo dal solco della continuità logica e politica della Costituzione originaria e fingendo che non ci sia il rapporto, che invece è strettissimo, con la legge elettorale.

    Tanto è vero che il governo Renzi punta a cambiare insieme legge elettorale e Costituzione. Come ha sostenuto più volte Massimo Villone occorre modificare anche la legge elettorale in senso proporzionale, altrimenti il governo sostenuto da una maggioranza eletta con il Porcellum di turno, nuovo o vecchio non importa, avrà sempre la tentazione di cambiare la Costituzione. Non a caso un consistente gruppo di costituzionalisti non pregiudizialmente contrario ai cambiamenti ha messo in discussione la logica del pacchetto. Per di più nella fase attuale il revisionismo costituzionale non sembra preoccuparsi di scrivere bene un testo coerente e destinato a durare nel tempo.

    Lo ha dimostrato molto bene Gaetano Azzariti che ha confrontato il testo degli articoli tuttora vigenti, scritti in modo trasparente e compatto, e gli sproloqui contraddittori che dovrebbero sostituirli. Per non parlare dell'articolo che individua due modalità - tra loro incompatibili - di elezione dei futuri senatori, al punto che sembra proprio che la legge attuativa non ci sarà e verrà demandata al futuro Parlamento. Inoltre viene affidato, in modo surrettizio, alla legge elettorale il compito di garantire la governabilità ad ogni costo, anche di fronte a risultati elettorali non esaltanti per i vincenti, con il retro pensiero di rendere possibile in seguito il completamento del percorso iniziato. Al termine di questo percorso si può intravvedere o una repubblica semipresidenziale o un premierato forte, molto forte.

    Se Letta annuncia che nel prossimo referendum costituzionale voterà a favore di queste modifiche conferma solo che esiste una linea di sostanziale continuità tra i diversi passaggi politici di questi anni, anche se al loro interno non sono mancate rotture, perfino sgambetti, come la brusca sostituzione dello stesso Letta da parte di Renzi. La continuità del cambiamento costituzionale fa premio sulle altre differenze.

    Ritocchi e modifiche limitati possono restare nell'ambito dell'impianto della Costituzione, ma se si cambiano almeno 45 articoli, come nella situazione attuale, è abbastanza inevitabile che l'assetto complessivo della Carta costituzionale e l’equilibrio interno immaginati dall'Assemblea Costituente vengano compromessi.

    Chi pensa che la Costituzione vigente sia diventata obsoleta e debba essere cambiata dovrebbe avere il coraggio e la linearità di avanzare la proposta di cambiarne l’assetto con una logica costituzionale e istituzionale coerente, sottoponendola al giudizio degli elettori. Il minimo che si può chiedere è di presentare le proposte in campagna elettorale, in modo da farle giudicare. Inoltre il Parlamento che affronta un percorso di cambiamento di questa portata non può essere eletto con il Porcellum.

    Se, ad esempio, si pensa che si debba spostare l’equilibrio costituzionale verso forme più o meno esplicite di semipresidenzialismo si ha l'obbligo di dirlo esplicitamente. Si tratta infatti di una scelta politico-istituzionale completamente diversa e i cittadini dovrebbero potere valutare e giudicare la proposta di cambiamento della Costituzione. Altrimenti si scade nei trucchetti di godere del premio con il quale la maggioranza impone le sue scelte e si finisce nelle scelte di basso profilo, ben presenti nel testo della Renzi-Boschi. Non a caso su questo testo si stanno esercitando criticamente i costituzionalisti, basta ricordare Zagrebelsky, che ne sottolineano pessima scrittura, vistose contraddizioni, manchevolezze, talora una vera e propria incomprensibilità dei testi. Besostri ad esempio, mi ha fatto notare l'articolo 40 delle modifiche costituzionali della Renzi-Boschi che è scritto letteralmente in sanscrito. Qualcosa il testo vorrà dire ma è incerto cosa, eppure la Costituzione dovrebbe essere la carta fondamentale non una legge milleproroghe.

    Chi vuole ribaltare l'assetto costituzionale dovrebbe avere il dovere e il coraggio di proporre una nuova modalità costituente e vedere l'effetto che fa tra le elettrici e gli elettori. Cambiare di fatto radicalmente l’impianto costituzionale senza esplicitarlo è la peggiore scelta possibile, che può passare solo vellicando i peggiori umori antipolitici e populisti presenti nel corpo sociale. A questo serve lo scalpo della riduzione dei senatori tanto sbandierata da Renzi, i cui risparmi veri sono quantificati in 50 milioni di euro all'anno, il costo un F 35.

    Se invece si pensa che l'impianto della Costituzione sia sostanzialmente valido ci si dovrebbe limitare a ritocchi e aggiornamenti che non ne cambino l'assetto fondamentale.

    Purtroppo, la sinistra non ha ben meritato in materia di modifiche della Costituzione. In passato, non solo si è imbarcata nella logica delle commissioni bicamerali con non poca leggerezza, ma nel 2001 ha modificato il titolo V, che riguarda i poteri delle Regioni e degli Enti locali, con i voti della sola maggioranza, per l'esattezza 4 voti di maggioranza soltanto. Il paradosso è che è una delle parti che viene ribaltata dalla Renzi-Boschi, utilizzando in modo spregiudicato i demeriti della modifica del 2001 e a volte gli stessi autori di quelle modifiche oggi sbraitano contro.

    C'è chi distingue, quasi fossero parti tra loro indipendenti, tra i diritti fondamentali contenuti nella prima parte della Costituzione e l'assetto istituzionale vero e proprio delineato nelle altre parti della Carta. La nostra Costituzione è stata redatta in modo da renderla ben comprensibile e funzionale, con forti tratti di organicità.

    L'assetto istituzionale della Carta è in larga misura coerente con l'articolazione immaginata di una democrazia viva, partecipata. Se tutto si riduce al voto ogni cinque anni il ruolo dei partiti viene definitivamente archiviato per lasciare posto alle primarie, anch'esse forme di partecipazione di tipo elettorale, pessimamente regolate o non regolate affatto, concepite in funzione del voto vero e proprio. Cosa c'entra con le primarie il loro uso per eleggere i segretari di un partito è un altro mistero irrisolto.

    Se tutto si riduce a primarie ed elezioni la partecipazione politica viene ridotta ai minimi termini, essenzialmente ad una delega ogni cinque anni, e così i corpi sociali intermedi verrebbero definitivamente ricacciati ai margini, ridotti ad associazioni private senza alcun vero ruolo pubblico. La stessa solidarietà diventerebbe poco più che carità interna a gruppi di privati. Il futuro dei soggetti sociali verrebbe spinto verso il ruolo dei gruppi di pressione (lobbies) nelle occasioni elettorali. Con queste modifiche i diritti fondamentali contenuti nella prima parte della Costituzione entrano - in realtà - nella piena disponibilità dell’azione del governo e della maggioranza che lo sostiene, quindi dei condizionamenti dei poteri forti.

    In questo modo il governo potrebbe fare e disfare - senza alcun impaccio reale - l'equilibrio della società, dei diritti dei cittadini, ecc.

    L'altro grande campo è quello dei referendum abrogativi di leggi ordinarie. Dei referendum propositivi nel nostro ordinamento per ora non c'è possibilità e difficilmente sarebbero compatibili con l'evoluzione istituzionale attuale, perché potrebbero alterare l’azione dei governi, che invece si vuole rendere del tutto autosufficiente, fino all'autoreferenzialità.

    I referendum abrogativi, come è ovvio, propongono la cancellazione di norme. Possono essere costruiti più o meno sapientemente, ma in ogni caso prima della loro effettuazione la Corte costituzionale si pronuncia sulla loro ammissibilità, che in pratica viene richiesta non dai pochi proponenti il quesito referendario ma da (almeno) 500.000 firmatari. Quindi i 500.000 firmatari sono il vero soggetto collettivo che può far giudicare l'ammissibilità del quesito dalla Corte costituzionale.

    Ci sono stati importanti referendum abrogativi che attraverso la vittoria del No hanno bloccato tentativi conservatori di rimettere in discussione leggi come il divorzio e l'aborto. Autentiche conquiste civili, arrivate con grande fatica come risultato di un'evoluzione epocale della consapevolezza dei cittadini sui loro diritti e dalla capacità di farli valere in autonomia da condizionamenti esterni.

    Ci sono stati referendum che hanno cercato di fermare attacchi alla condizione di lavoro, come quello sulla scala mobile. Questo referendum però non ha raggiunto l'obiettivo per divisioni interne ai sindacati, al mondo del lavoro, allo stesso schieramento della sinistra che lo aveva promosso.

    Un altro referendum contro la doppia preferenza raggiunse il risultato e incanalò una forte spinta dell’opinione pubblica verso la trasparenza elettorale, tuttavia non arrivò al risultato atteso di realizzare una saldatura di tipo nuovo tra cittadini e rappresentanti.

    Ci sono stati referendum che hanno centrato due volte, a distanza di 25 anni, il risultato come quelli contro il nucleare civile, anche se sarebbe un errore pensare di avere eliminato definitivamente il tentativo di rimettere in discussione l'esito dei referendum. Tentativo che infatti riappare regolarmente.

    C'è stato un referendum vittorioso per l'acqua pubblica, catalogandola come bene comune, che ha una storia esemplare, infatti è stato preparato da una campagna di radicamento nel paese durata molti anni, esattamente l'opposto di alcune campagne referendarie dei radicali promosse da gruppi ristretti, anche se, per la verità, queste iniziative elitarie non sono avvenute solo per iniziativa dei radicali.

    L’elemento che accomuna i referendum del 2011 - nucleare, acqua – è che hanno rotto l'incantesimo del mancato raggiungimento del quorum che durava da più di 20 anni, riuscendo a convincere 27 milioni di italiani ad andare a votare. Quindi riuscendo a convincere che la partecipazione al voto in quell'occasione era importante e il successo era possibile. Infatti, si sono mobilitati un milione e mezzo, forse due milioni di persone per sostenerne gli obiettivi. I partiti erano malmessi ma non ancora nello stato comatoso attuale e tuttavia già in quell'occasione restarono del tutto a rimorchio delle scelte referendarie, tanto è vero che le loro indicazioni di voto arrivarono molto in ritardo, quasi a ridosso delle urne.

    Nel 2011 si formò un'area di partecipazione attiva invidiabile. Era senza dubbio una base potenziale, necessaria ma non sufficiente, per creare un evento politico nuovo, perfino un partito, uno schieramento.

    Purtroppo il messaggio politico dei referendum del 2011 non è stato raccolto. Si trattava essenzialmente di provvedimenti legislativi approvati dal centro destra e quindi la critica all'operato del suo governo era evidente. Raccogliere il potenziale di questa critica poteva dare alla sinistra forza e capacità di mobilitazione. Invece a sinistra questa possibilità è stata lasciata cadere e con essa una domanda formidabile di partecipazione.

    Non è certo un caso se il centro sinistra non è riuscito a superare la crisi seguita alla caduta del secondo governo Prodi, mentre il Movimento 5 Stelle è balzato da percentuali modeste, in pochissimo tempo, a dimensioni del tutto importanti, fino a diventare oggi un potenziale competitore primario.

    Quanto detto non ha la pretesa di delineare una storia delle iniziative referendarie ma soltanto di ricordare alcuni episodi significativi nella storia recente del nostro paese che rendono giustizia all’uso di uno strumento adatto a scelte politiche mirate, per respingere o per confermare norme di legge, senza sottovalutarne le implicazioni generali, che tuttavia non sono un effetto automatico del risultato dei referendum, ma ne costituiscono il potenziale sviluppo a condizione che ci siano uno o più soggetti politici in grado di trarne le conseguenze.

    In ogni stagione politica i referendum hanno assunto significati diversi perché sono ovviamente intrecciati alla fase politica e sociale. A volte difensivi, a volte di pressione per avanzamenti. Non c'è una spiegazione unica dell’iniziativa referendaria perché ognuno di essi va collocato nella fase in cui viene promosso.

    Il Pd non ha vinto le elezioni nel 2013 non solo perché ha subito il governo tecnico di Monti e i suoi provvedimenti senza rivendicare la libertà di respingerli o almeno di cambiarli, ma anche perché non ha tentato di trarre beneficio dai risultati referendari del 2011. Anzi ha dato l’impressione di attendere solo l’esaurimento della loro spinta. Eppure i referendum del giugno 2011 hanno contribuito a

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