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Delitti e stragi dell'Italia fascista dal 1922 al 1945
Delitti e stragi dell'Italia fascista dal 1922 al 1945
Delitti e stragi dell'Italia fascista dal 1922 al 1945
E-book524 pagine7 ore

Delitti e stragi dell'Italia fascista dal 1922 al 1945

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Storie impressionanti e poco raccontate

I casi più eclatanti dell'epoca, oltre la cronaca nera

Molti, moltissimi sono i crimini perpetrati durante il fascismo: dagli omicidi politici alle leggi razziali, dai rastrellamenti alle deportazioni.
E numerosi furono anche i delitti riconducibili alla criminalità comune (quelli a sfondo sessuale, quelli consumati in famiglia e addirittura quelli a opera di serial killer ante litteram), ma che il regime in qualche modo tentò di nascondere, proprio perché doveva dare all’opinione pubblica l’idea che tutto funzionasse al meglio grazie a Mussolini.
Questo libro si ripropone, analizzando il complesso periodo che va dalla marcia su Roma fino alla fine della seconda guerra mondiale, di raccontare i casi più eclatanti dell’epoca, con uno sguardo che però supera la mera cronaca nera per includere anche le stragi nazifasciste successive all’8 settembre 1943, quando l’Italia venne dilaniata dalle barbarie delle truppe tedesche d’occupazione con la complicità e l’attiva collaborazione di molti nostri connazionali.

Dai delitti politici alle persecuzioni contro gli ebrei 
Dai crimini a sfondo sessuale alle stragi nazifasciste
In quegli anni l’Italia aveva un’anima nera

Tra i casi trattati nel libro:

I delitti politici
• Don Minzoni • Giacomo Matteotti • I fratelli Rosselli 
I delitti in cronaca nera 
• Giorgio William Vizzardelli • I delitti di Alleghe • Ersilia Cingolani 
I delitti a sfondo sessuale
• Il “mostro di Roma” 
Donne che uccidono
• La saponificatrice di Correggio • Corinna Grisolia
Le stragi nazifasciste
• Le SS italiane • Fosse ardeatine • Sant’Anna di Stazzema • Marzabotto
Le donne in guerra: ciociare e non solo
• Le donne della resistenza • Le ausiliarie di Salò
Gli eccidi in Friuli e a Fiume
• Trieste • Le uccisioni nelle malghe • Nimistorlano
Le persecuzioni contro gli ebrei
• Le leggi razziali • L’hotel Meina • Il rastrellamento del ghetto di Roma
Giuseppina Mellace
Nata a Roma nel 1957, di professione insegnante, è anche autrice di pièces teatrali, saggi, romanzi e racconti, soprattutto di tema storico. Ha scritto un romanzo a più mani con il laboratorio della scrittrice Cinzia Tani. Per la Newton Compton ha pubblicato nel 2014 Una grande tragedia dimenticata, sull’eccidio delle Foibe, con cui nello stesso anno ha vinto il premio “Il Convivio” per la sezione saggistica storica, e Delitti e stragi dell'Italia fascista.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ago 2015
ISBN9788854180062
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    Anteprima del libro

    Delitti e stragi dell'Italia fascista dal 1922 al 1945 - Giuseppina Mellace

    es

    313

    Prima edizione ebook: settembre 2015

    © 2015 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-8006-2

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Giuseppina Mellace

    Delitti e stragi dell'Italia fascista dal 1922 al 1945

    I casi più eclatanti dell’epoca, oltre la cronaca nera

    omino

    Newton Compton editori

    Premessa

    Sul fascismo e le sue nefandezze sono stati versati fiumi d’inchiostro, ma con un’ottica quasi sempre rivolta verso il potere e a ciò che ha generato. Questo libro invece vuole indagare su misfatti, eccidi, stragi dell’epoca, andando a recuperare anche casi che hanno messo in seria difficoltà il regime e le cui vittime sono state molto spesso dimenticate. Tratteremo quindi non solo omicidi eccellenti, come il delitto Matteotti, ma anche i crimini che occuparono la cronaca nera di quei tempi, troppo spesso imbavagliata dalla censura, come ad esempio la vicenda di Girolimoni. Cercheremo così di evidenziare i lati oscuri e meno noti del fascismo, prima e durante l’occupazione nazista, con le sue tragiche ricadute sulla popolazione italiana. Perché, se il delitto del deputato socialista fece per un attimo vacillare il regime, gli altri omicidi in un certo senso lo rafforzarono, offrendo l’opportunità di togliere di mezzo le opposizioni e di varare norme sempre più restrittive delle libertà individuali, fino a giungere al dramma più immane della seconda guerra mondiale: la persecuzione degli ebrei. Allo stesso tempo, però, parlando dei delitti in cronaca, vedremo come Mussolini non sia stato in grado di eliminare la delinquenza ma solo di tacerla e di trovare in essa un capro espiatorio. Il caso più eclatante resta appunto quello di Girolimoni. Attribuendo, infatti, gli infanticidi all’antagonista del perfetto fascista, il regime otteneva un doppio scopo: non solo si consumavano assassini e violenze su bambine innocenti, ma s’incrinava quello che era lo stereotipo dell’uomo di quel tempo, tutto casa, lavoro e famiglia, il probo vir romano. In un’epoca che puntava alla perfezione e all’unione indiscussa tra uomo e donna nel sacro vincolo del matrimonio, la momentanea cattura di Girolimoni metterà viceversa in luce la fragilità dell’apparato poliziesco dell’epoca e il fallimento dell’indagine. Al contempo – nella cattolicissima Italia, dove Stato e Chiesa avevano firmato un patto indissolubile – un altro sconvolgente caso di nera, quello dei delitti della saponificatrice di Correggio, evidenzierà quanto fosse ancora radicata la superstizione e l’ignoranza nel popolino. Streghe, maghi, fatture e pozioni furono al centro di questi assassini che sconvolsero la tranquilla provincia emiliana, dove una patina di perbenismo copriva desideri talvolta inconfessabili.

    Ma, come abbiamo già accennato, la vera tragedia si consumerà con la guerra. Ripercorreremo qui soltanto le tappe principali degli eventi bellici per metterli in correlazione con le stragi e gli eccidi che colpirono la popolazione da prima dell’armistizio fino al 1945. Ma essendo impossibile ripercorrere in queste pagine tutta la lotta partigiana, che necessiterebbe di uno spazio adeguato, prediligeremo la storia con la S minuscola, quella vissuta quotidianamente dai civili che si sono trovati in situazioni molto più grandi di loro, pagando un prezzo davvero elevato per quel tradimento politico, per cui furono incolpati anche donne, anziani e bambini. Riattraverseremo quindi la penisola seguendo la scia di sangue lasciata dai nazifascisti al loro passaggio, ma anche il dramma delle marocchinate, tollerato dagli stessi Alleati.

    Dedicheremo poi un’intera sezione del volume alle persecuzioni degli ebrei, con due esempi significativi che vogliono solo mostrare una sfaccettatura della Shoah in due zone d’Italia, lontane geograficamente, ma vicine per la modalità della cattura e del massacro che ne seguì.

    Concluderemo infine con un paio di episodi significativi della giustizia – lenta, tarda e molte volte incomprensibile – del dopoguerra.

    L’intento ultimo di questo libro è dunque quello di preservare la memoria e fornire uno spunto per approfondire non la storia dei grandi della Terra, ma dei civili che a stento lasciarono inciso il loro nome nel ricordo delle generazioni future.

    Introduzione. Il fascismo e gli organi di controllo

    Alla fine della Grande Guerra (con l’annosa questione della cosiddetta vittoria mutilata) e dopo i disordini, le violenze e le paure del biennio rosso (1919-1921), i partiti politici sembravano non essere in grado di superare le divergenze e di attuare quelle riforme necessarie per far uscire l’Italia dalla situazione di profonda arretratezza e miseria in cui si era venuta a trovare. Inoltre, con i trattati di pace alla fine del conflitto mondiale, la delegazione italiana, legata a vecchi schemi economici, non comprese la valenza dei pozzi petroliferi mediorientali e preferì le terre irredente. Pertanto l’Italia si ritrovò con una maggiore estensione territoriale a est, ma con gravi problemi interni, che esploderanno negli anni a venire, e senza colonie, condizione che la metteva in una posizione inferiore rispetto le altre potenze europee.

    Senza ripercorrere le tappe della presa del potere di Mussolini, basti dire qui che egli fu abile a sfruttare le debolezze della vecchia classe dirigente: dal settarismo dei nazionalisti alle divisioni della sinistra con i comunisti (che non avevano adeguato le loro idee a un Paese completamente diverso dalla Russia e profondamente cattolico), fino alla debolezza dei popolari, che non colsero l’occasione per rifondare lo Stato; per ultimo, anche la monarchia aveva le sue responsabilità: troppo preoccupata del prestigio internazionale, miope nel proprio regno con un bilancio sempre in rosso e incapace di sanare il debito contratto a causa della Grande Guerra. Mussolini puntò proprio sul risanamento economico, sul miglioramento del reddito pro capite e sul prestigio che l’Italia avrebbe ottenuto in Europa e nel mondo anche in campo coloniale. Un programma sostanzialmente semplice che avrebbe screditato l’opposizione e ottenuto il plauso di Vittorio Emanuele iii. La rivoluzione fascista doveva spazzar via il vecchio sistema ma, di fatto, le amministrazioni locali rimasero nelle mani della passata gestione. Le camicie nere, infatti, non accettavano in toto l’accordo con i Savoia, tendendo ad assumere un potere dispotico e a creare dei veri e propri feudi, facendosi chiamare Ras, mentre altri cercavano di portare il movimento fascista alla rivoluzione di cui aveva parlato il duce nei primi tempi.

    Paradossalmente, sarà proprio con il delitto Matteotti che Mussolini riuscirà a consolidare la presa del potere in regime, sempre con l’avallo della monarchia.

    Questo quadro, molto riassuntivo della situazione negli anni Venti del Novecento, presentava mille e mille sfaccettature nelle varie realtà locali in un’Italia arretrata un po’ in tutti i campi, con una popolazione per la maggior parte semianalfabeta che si dibatteva in una povertà millenaria.

    Nel programma fascista era compreso il settore giuridico con il riordino voluto dal futuro duce e la creazione del Gran Consiglio, sorto nel gennaio del ’23, con il quale si tracciava la linea politica da seguire che sarebbe poi stata attuata dalla segreteria del partito stesso. Ancora una volta, le opposizioni non seppero cogliere i malumori all’intero e i vari dissidi che scoprivano preoccupanti crepe in questa delicatissima fase di strutturazione del regime in divenire.

    Il 9 giugno 1923 ci fu la svolta decisiva con la presentazione del disegno di legge che assicurava i due terzi dei seggi alla maggioranza e un terzo all’opposizione. Dopo acerrimi dibattiti e lacerazioni, la legge Acerbo¹ – così chiamata dal nome del sottosegretario alla Presidenza che aveva avuto l’incarico di redigerla – passò in Parlamento con il noto allontanamento di Don Sturzo, anima dei popolari.

    Dopo più di un mese, il 28 agosto, veniva ucciso un grande uomo di Chiesa e non solo: Don Minzoni. Solo due anni più tardi, tra il 1925-26, furono approvate tutta una serie di norme per sanzionare il definitivo passaggio dal vecchio Regno d’Italia al nuovo regime fascista che, di fatto, esautorava le libertà conquistate con il Risorgimento.

    La prima legge in tal senso fu la n. 2263 del 24 dicembre 1925, varata proprio nel momento di maggiore difficoltà di Mussolini, all’epoca alle prese – come vedremo tra poco nel dettaglio – con il delitto Matteotti, ma che offrì anche il pretesto per ripristinare la pena di morte. Il 2 ottobre 1926, infatti, l’allora ministro di Giustizia, Alfredo Rocco, presentava un ddl che contemplava la condanna capitale per chiunque attentasse ai rappresentanti della monarchia, al capo del governo e alla sicurezza dello Stato. Ciò era dettato anche dai diversi attentati che il duce aveva subìto in quegli anni; il ddl divenne legge il 5 novembre dello stesso anno sotto il nome di Provvedimenti eccezionali per la difesa dello Stato.

    Accanto a queste norme restrittive anche gli oppositori politici ebbero vita sempre più difficile: con regio decreto n. 1848/26, entrò in vigore nello stesso anno il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, che provvedeva al confino di polizia per gli antifascisti e l’istituzione del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato. Con la legge n. 2008, questa istituzione, espressamente voluta da Mussolini, puniva tutti quei reati commessi contro la sovranità dello Stato, contro la persona del Re e del Capo del governo.

    La peculiarità dell’organismo, nato per restare in vigore solo cinque anni, stava nel fatto che era indipendente dalla magistratura ordinaria e aveva propri giudici, provenienti dalla milizia e dall’Esercito. Il carattere militare si evidenziava nel ripristino della pena di morte, che era stata abolita il 1° gennaio 1890 con il codice Zanardelli, con la formula della fucilazione alla schiena, la classica pena comminata ai traditori.

    È importante sottolineare che il successivo Codice Penale, entrato in vigore il 1° luglio 1931, proprio su proposta dello stesso presidente del Tribunale Speciale, Cristini, fu fortemente influenzato dalla legge del 1926. Cristini lo mise all’ordine del giorno del Gran Consiglio:

    Il Gran Consiglio del fascismo, udita la relazione del presidente del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, ne prende atto e delibera che alla data del primo luglio p.v. i reati politici contenuti nel nuovo Codice penale, passino alla competenza del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato la cui durata sarà prolungata con apposito provvedimento legislativo.²

    Il Tribunale aveva competenza su tutto il territorio della penisola con sede a Roma, presso il Lungotevere Raffaello Sanzio, mentre i vari processi erano celebrati nella tristemente nota Aula iv del palazzo di Giustizia. Tuttavia il fascismo si appoggiava direttamente alla ceka, una sorta di prosecuzione istituzionalizzata dell’azione delle squadracce fasciste. Già nel 1922, con regio decreto del 22 dicembre, Mussolini aveva voluto la creazione della Milizia per la sicurezza nazionale, con compiti di sorveglianza e repressione delle opposizioni. Quest’organizzazione aveva la sede addirittura all’interno del Viminale e annoverava esponenti che diverranno tristemente noti, come Bernardo Barbiellini a Piacenza e Francesco Giunta a Trieste. E il 18 marzo 1923 con regio decreto n. 762 si autorizzava il direttore generale di Pubblica Sicurezza a conferire anche temporaneamente per straordinarie esigenze, non specificate, le funzioni di questore a persone estranee all’amministrazione. Si creò, in questo modo, un sottobosco di persone che svolgevano mansioni al limite della legalità ma con l’avallo del potere.

    L’Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza «indica nel febbraio 1924 la data di riunione di via Rasella»³, abitazione dello stesso Mussolini, per la nascita della ceka con a capo Amerigo Dumini (che avrà un posto di tutto rilievo nell’affaire Matteotti), mentre la gestione restava a Marinelli, fascista della prima ora. Il nome scelto ricalcava la ben più famosa polizia sovietica, con quell’alone di mistero che anche il duce voleva accompagnasse la nascente organizzazione segreta. L’attività della ceka, inoltre, superava i confini nazionali per andare a scovare gli oppositori anche oltralpe. Lo stesso Dumini ricoprirà la veste dell’infiltrato tra le fila dei comunisti a Parigi, ma l’operazione finirà male, e a stento riuscirà a salvarsi.

    Sarà proprio l’assassinio dell’eminente onorevole a segnare le sorti della ceka che rinascerà sotto forma di ovra, ufficialmente nel 1930, dall’interpretazione della sigla alquanto misteriosa: da Organizzazione di Vigilanza e Repressione dell’Antifascismo a Organo di Vigilanza dei Reati Antistatali. Fu lo stesso duce a prendere spunto dal termine piovra per ribadire il carattere tentacolare dell’organizzazione che avrebbe dovuto controllare tutta la penisola e non solo.

    L’organizzazione piramidale presupponeva anche altri settori non meno importanti per la sorveglianza e repressione delle opposizioni: la Divisione Polizia Politica, con sezioni in tutta la penisola, e un efficiente Servizio di vigilanza ai confini, con relativo e sempre aggiornato Bollettino dei Ricercati. Vennero inoltre rafforzate le Milizie ferroviarie e quella aerea.

    L’ovra si rivelò da subito essere uno strumento nelle mani del duce anche per controllare i suoi più fedeli collaboratori. Senza addentrarci troppo nella storia del periodo, conviene però sottolineare che l’Italia, proprio con questa polizia segreta, venne divisa in dieci zone di competenza in modo da tenere la popolazione sempre sotto sorveglianza.

    La sede originaria dell’organizzazione era a Milano, in via Sant’Orsola 7, logicamente sotto falso nome: era stata scelta una società fantasma che esportava vini dal sud d’Italia. Gli uffici saranno diversi nel corso degli anni, così come vari le zone e l’organico a disposizione, di cui non si seppe mai con certezza il numero reale degli effettivi.

    Nel periodo di massima efficienza, l’ovra raggiunse anche i territori acquisiti dell’ex Jugoslavia, con sede a Zagabria, dopo l’invasione italiana di queste terre. Da segnalare in particolare l’attività che svolse negli anni Trenta nei territori di Venezia Giulia, Istria e Dalmazia poiché si era riscontrata una forte avversità al regime e ai suoi provvedimenti di pressante politica d’italianizzazione e d’esclusione della popolazione slava, che culminerà con l’episodio di Vladimir Gortan, di cui si parlerà più avanti. Tra le operazioni svolte all’estero, dobbiamo menzionare la creazione di un Casellario politico centrale per la repressione politica in patria e fuori.

    Con l’entrata in guerra, cambiarono gli obiettivi dell’ovra: dalla lotta prioritaria all’antifascismo si passò alla ricerca di agenti, spie, trafficanti di vario genere. Lavorare in questa organizzazione non era solo una scelta di natura politica ma anche economica: non dimentichiamo che si potevano percepire compensi straordinari e gli stipendi dei suoi membri erano superiori di tre-quattro volte a quelli del comune personale di polizia. La studiosa Paola Carucci, ad esempio, parla di stipendi che andavano dalle mille alle cinquemila lire nel triennio 1927-30, in un periodo in cui il salario medio era intorno alle settecento lire⁴.

    Il numero degli informatori poi era davvero impressionante: la «Gazzetta Ufficiale» del 2 luglio 1946 riportava solo 622 nomi, ben sapendo però che «era un elenco incompleto sia perché alcuni fascicoli furono prelevati dalla Gestapo tedesca, dopo l’8 settembre 1943, sia perché alcuni andarono dispersi e furono sottratti durante il trasferimento delle casse che li contenevano, nel periodo della Repubblica di Salò»⁵. A questi vanno aggiunti anche un centinaio di donne, abili nell’arte della seduzione, e di altrettanti uomini di cui non si seppe mai la professione.

    Questa polizia seguì le sorti del suo ideatore, ma non fu sciolta con la caduta del duce: Badoglio pensò di servirsene per controllare non solo i fascisti, ma anche per sapere quali potessero essere le intenzioni dei tedeschi nei confronti di Casa Savoia. Ciò nonostante, dopo l’armistizio, l’ovra cadrà nell’ombra, superata dalle altre forze ma continuerà a sopravvivere.

    A guerra finita, i vari collaboratori e funzionari si riciclarono all’interno delle varie amministrazioni e forze dell’ordine e solo i più collusi con la rsi subirono dei processi, istituiti dopo il 1945, vedendo pienamente assolti tutti gli imputati.

    Diversa la questione del sistema carcerario, che seguiva il regolamento in vigore al momento dell’avvento di Mussolini, esattamente con il regio decreto del 19 febbraio 1922, n. 393. Questo prevedeva non solo di punire il crimine, ma di recuperare, con una visione moderna, il detenuto per un eventuale reinserimento nella società. Tutto ciò fu in parte vanificato dal duce: nello Stato di sua creazione, forte e militarizzato, non c’era posto per chi aveva sbagliato. Se invece a commettere un crimine era una donna, veniva vista come colei che andava riportata sulla retta via non solo nel rispetto delle leggi dello Stato, ma nel suo essere subalterno al volere dell’uomo, rientrando nel ruolo di sposa e di madre. La segregazione aveva il compito di purificare la peccatrice e per questo molti luoghi di detenzione erano affidati alle suore.

    Altra strada era quella della pazzia con la reclusione nei manicomi criminali al limite dell’umano. In tal senso, era basilare ciò che affermava lo studioso Lombroso per giustificare il differente potenziale criminale e di pericolosità tra uomo e donna: «Se la criminalità femminile è molto meno diffusa di quella maschile, dipende dal fatto che le donne sono più deboli e stupide degli uomini»⁶.

    Quando vennero approvate le leggi che passarono alla storia come fascistissime – volte a trasformare il Presidente del Consiglio in Capo del Governo, primo Ministro e Segretario di Stato, concentrando nelle proprie mani un potere quasi assoluto – venne definitivamente sancita una dittatura che negava le più semplici libertà come quella di stampa (il 20 gennaio 1926) e di sciopero (3 aprile dello stesso anno), sciogliendo i sindacati per lasciare solo quelli riconosciuti dallo Stato, cioè quelli fascisti.

    La svolta finale si ebbe con il già citato Codice Rocco, che prevedeva anche un peggioramento dal punto di vista coercitivo e una possibilità di ravvedimento attraverso il lavoro, l’istruzione e la religione. A tal fine furono costruite delle strutture come colonie agricole e case da lavoro, dove il detenuto poteva avviare il proprio recupero. Non è da sottovalutare la portata dell’obbligo dell’istruzione e del lavoro perché il regime, attraverso questi canali, poteva influenzare altre persone e avere manodopera gratis.

    Le esecuzioni delle sentenze emanate dal Tribunale Speciale furono compiute presso il Forte Bravetta, a Roma, che era allora circondato da ampie zone a pascolo o agricole e scarsamente urbanizzato. La vita di quel Tribunale finirà con la destituzione del suo ideatore; dopo il 25 luglio, infatti, Badoglio ne decreterà l’abolizione, anche se le condanne a morte continueranno a essere pronunciate per reati comuni come saccheggio o appropriazione indebita, commissionate questa volta dal comando tedesco ma eseguite dagli italiani, secondo l’ordinanza di Kesselring⁷. Le condanne saranno alla fine una settantina, di cui solo cinquantadue eseguite; mentre, nel complesso, le sentenze emanate dal Tribunale dal 1927 al 1943 furono circa duemilacinquecento, con una media di oltre duecento l’anno.

    Sempre riferendosi ai numeri, è interessante notare che ben ventisei condanne capitali attuate mediante fucilazione si concentrarono nei tre anni cruciali del conflitto mondiale, 1940-42.

    Eppure, anche a guerra ormai conclusa, non finirono le pene di morte; Mario Berlinguer, con la sua carica di Alto Commissario per i crimini commessi dal fascismo, emise le stesse sentenze per coloro che avevano terrorizzato con violenze e arbitri nel precedente regime, spinto anche dai partecipanti ai processi, che invocavano a gran voce la loro esecuzione.

    Note:

    1 Uno stralcio è riportato in Appendice.

    2 www.storiaxxisecolo.org.

    3 Enciclopedia dell’Antifascismo e della Resistenza, La Pietra, Milano 1968.

    4 Carucci Paola, L’organizzazione dei servizi di polizia dopo l’approvazione del testo Unico delle leggi di P. S. del 1926, in «Rassegna degli Archivi di Stato», anno xxvi, n. 1, 1976.

    5 Citato in «Il Mondo», 29 maggio 1956.

    6 Lombroso Cesare, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, Edizioni Et Al., Varese 2009, p. 27.

    7 L’ordinanza è riportata in Appendice.

    Parte prima. I delitti politici

    L’omicidio di Don Minzoni

    Come accennavamo nell’Introduzione del presente volume, molto spesso il fil rouge che legava i vari delitti politici, più o meno noti, e tante stragi, intimidazioni e violenze sotto il fascismo fu senza dubbio la ceka, con la connivenza della magistratura.

    Don Minzoni, nato a Ravenna il 1° luglio 1885, era all’epoca una figura ben nota per la sua profonda fede e il suo radicato antifascismo. Proveniva da una famiglia benestante che gli aveva permesso di frequentare le scuole e di entrare successivamente in seminario. Giovanissimo, era stato nominato cappellano, mostrando una particolare sensibilità per la povertà e miseria in cui versava l’Italia all’inizio del secolo.

    Durante la prima guerra mondiale, prima prestò servizio in un ospedale militare d’Ancona e, poi, chiese e ottenne di essere inviato al fronte, dove fu decorato con medaglia d’argento al valore militare durante la battaglia del Piave con la seguente motivazione:

    Instancabile nella sua missione pietosa di confortar feriti, di aiutare i morenti durante il combattimento, impugnato il fucile e messosi alla testa di una pattuglia di arditi si slanciava all’assalto contro un nucleo nemico, faceva numerosi prigionieri e liberava due nostri militari di altro corpo precedentemente catturati.

    Piave, giugno 1918.

    Alla fine del conflitto aderì al Partito Popolare Italiano, disprezzando da subito la piega presa dalle idee di Mussolini. A maggior ragione quando, nel ’21, fu ucciso l’amico sindacalista Natale Gaiba. Lo scontro con le camicie nere avvenne in prima battuta quando Don Minzoni si dimostrò favorevole alle cooperative sociali e contrario all’Opera Nazionale Balilla, che doveva essere istituita anche ad Argenta, il paese in cui era parroco. Ciò lo portò a creare in antitesi un gruppo scout proprio nella sua parrocchia: un gesto che lo rese inviso ai fascisti, pur avendo l’appoggio di un altro grande prelato, Don Emilio Faggioli, il quale l’8 luglio 1923 aveva sfidato gli uomini del duce, affermando che solo attraverso questo movimento si sarebbero formati degli uomini con veri valori.

    Don Minzoni divenne così un personaggio scomodo, inviso e pericoloso per il regime ma, pur essendo consapevole dei rischi che correva, non rinunciò a portare avanti la sua missione. Infatti, poco prima di morire scrisse che la preghiera non si sarebbe mai spenta sulle sue labbra, anche di fronte alla morte. Purtroppo, però, la sera del 23 agosto 1923 fu ucciso a bastonate con una tale violenza che il cervello gli schizzò fuori dal cranio.

    Si sapeva che erano stati gli uomini al servizio di Italo Balbo, anche se rimasero ignoti alla giustizia poiché le indagini furono rapidamente archiviate già pochi mesi dopo l’omicidio. Il nome del prete di Argenta ritornò alla ribalta delle cronache solo in concomitanza con il delitto Matteotti per dimostrare che il primo era anch’esso di matrice politica. Ciò nonostante, le rimostranze del Vaticano rimasero senza seguito.

    I giornali dell’epoca, ancora non imbavagliati dalla censura, pubblicarono ampi articoli sul suo caso e, nel 1924, Italo Balbo, Console della Milizia Volontaria, fu costretto alle dimissioni perché perse la causa per diffamazione che aveva intentato ai rotocalchi e fu anche condannato a pagare le spese processuali. L’anno dopo, il 1925, però, si celebrò un altro processo, che portò a un nulla di fatto: tutti gli imputati furono assolti.

    Solo a guerra conclusa, nel 1947, si tenne un ulteriore processo presso la Corte d’Assise di Ferrara, dove furono individuati i due sicari ma non fu accertata la responsabilità di Italo Balbo come mandante.

    In occasione del 60° anniversario della morte del prelato, papa Giovanni Paolo ii scrisse una lettera molto eloquente, che riassume la personalità di questo martire del fascismo:

    Don Minzoni morì vittima scelta di una violenza cieca e brutale, ma il senso radicale di quella immolazione supera di gran lunga la semplice volontà di opposizione ad un regime oppressivo, e si colloca sul piano della fede cristiana. Fu il suo fascino spirituale, esercitato sulla popolazione, sulle forze del lavoro ed in particolare sui giovani, a provocare l’aggressione, si volle stroncare soprattutto la sua azione educativa diretta a formare la gioventù per prepararla nel contempo ad una solida vita cristiana e ad un conseguente impiego per la trasformazione della società. Per questo gli Esploratori Cattolici sono a lui debitori.

    Note:

    8 http://www.donminzoni.it/cappellanomilitare.htm.

    9 http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/letters/1983/documents/hf_jp-ii_let_19830930_mons-tonini.html.

    Il delitto Matteotti

    Giacomo Matteotti, nato a Fratta Polesine il 22 maggio 1885, pur provenendo da una famiglia agiata, si era distinto fin da giovanissimo per le sue idee socialiste, in forte contrasto sia con la gente del suo ceto d’appartenenza, che successivamente con i fascisti. Persino all’interno del suo stesso partito, dilaniato da correnti fino alla divisione nel 1921 dai comunisti, le cose non andavano meglio per Matteotti. Pacifista convinto, si oppose prima alla conquista della Libia nel ’12 e, tre anni dopo, alla prima guerra mondiale.

    Uscito indenne dal Biennio Rosso – con la creazione del partito socialista unitario e l’acquisizione della carica di segretario nel 1923 – Matteotti poté dedicarsi al suo nuovo obiettivo: screditare il fascismo e denunciarne le violenze. Celeberrimo rimase il suo discorso in Parlamento il 30 maggio del 1924, pochi giorni prima della sua tragica morte. Le parole del deputato facevano seguito all’impegno preso da Turati che in una famosa lettera ribadiva il bisogno di legalità e di tutela dei diritti dei cittadini, e sottolineava che l’opposizione alla dittatura del duce doveva avere come punto d’arrivo la libertà di tutti gli italiani. Matteotti incentrò il suo intervento sulla denuncia delle angherie delle squadracce in camicia nera che impedivano libere elezioni:

    Le elezioni secondo noi non sono valide: abbiamo l’esplicita dichiarazione del Governo che le elezioni non avevano che un valore assai relativo perché il Governo avrebbe mantenuto il potere con la forza in quanto, per sua stessa conferma, nessun elettore italiano si è trovato libero di decidere secondo la propria volontà.¹⁰

    Consapevole di essersi totalmente esposto e di aver firmato la propria condanna a morte, pregò i compagni di partito di preparare il discorso per il suo funerale. Tuttavia la proposta del deputato socialista fu bocciata dalla Camera con 257 voti contrari, solo 57 favorevoli: il listone elettorale di Mussolini ottenne così la maggioranza soprattutto al Sud, superando di gran lunga il risultato del ’21, quando il fascismo aveva ottenuto solo 35 deputati.

    Ancora una volta Matteotti ebbe il coraggio di denunciare apertamente la truffa che lo Stato italiano stava subendo, elencando gli episodi più eclatanti tra cui l’omicidio Piccinini¹¹.

    Pur sapendo di essere nel mirino della vendetta fascista, il deputato socialista continuava a scandire gli impegni della propria giornata con meticolosità e precisione, fornendo agli assassini tempi e luoghi prevedibili. Infatti, anche quel pomeriggio del 10 giugno 1924, salutò la moglie Velia, una donna forte ma che non sempre condivideva la passione politica del marito, la cura della famiglia, in particolare dei figli Giancarlo, nato nel 1918, e Matteo, venuto al mondo tre anni dopo.

    Anche quel pomeriggio il deputato socialista uscì dall’abitazione di Via Pisanelli 40, per dirigersi verso la Camera, percorrendo il solito tragitto: sebbene fosse a conoscenza della sorveglianza da parte di uomini del duce, non voleva cambiare abitudini per non mostrare paura e sudditanza.

    Ignaro di ciò che di lì a poco gli sarebbe accaduto, Matteotti si avviò verso la fermata del tram n. 15 per andare a Piazza del Popolo. Proprio in quegli istanti una macchina con cinque uomini a bordo si diresse a gran velocità verso di lui. Tutto si svolse in pochi attimi. Già tre anni prima, una notte di marzo del 1921, a Castelguglielmo, il giovane Giacomo aveva avuto modo di conoscere la ferocia fascista. Anche quella volta era stato prelevato, portato in campagna e violentato da alcuni squadristi, ma proprio quel tragico episodio gli aveva dato la forza di lottare.

    Il rapimento non poté passare inosservato perché le persone che in quel momento transitavano in zona non poterono non vedere la decisa resistenza di Matteotti che, alla fine, costrinse uno degli assalitori a colpirlo più volte. Pur se tramortito e con gli abiti strappati, il socialista riuscì a lanciare dal finestrino della macchina in corsa la propria tessera ferroviaria, raccolta in seguito da alcuni passanti. Intanto la macchina aveva imboccato la via Flaminia e da lì se ne persero le tracce. Il deputato continuava a lottare, a dimenarsi anche all’interno del veicolo tanto che uno degli aggressori, colpito al basso ventre, per ritorsione, lo pugnalò, uccidendolo.

    Molto probabilmente i malviventi non avevano previsto di dover assassinare Matteotti nella macchina poiché il sangue avrebbe sporcato la tappezzeria, creando delle prove inconfutabili. Il problema impellente era quello di disfarsi, il più celermente possibile, del cadavere e di seppellirlo in un luogo sicuro e lontano da occhi indiscreti.

    I cinque uomini del commando omicida – Amerigo Dumini, Augusto Malacria, Amleto Poveromo, Giuseppe Viola e Albino Volpi, tutti membri della ceka – non avevano pensato di rifornirsi del necessario per celare il corpo ma, giunti nel frattempo nelle vicinanze di Riano, pensarono che il bosco della Quartarella poteva fare al caso loro. Si videro pertanto costretti a utilizzare oggetti rimediati alla meno peggio, tra cui una lima; ciò non solo richiese molto tempo per scavare ma diede risultati mediocri, con una fossa poco profonda e di dimensioni molto piccole. Ricorsero anche all’espediente di piegare in due il povero corpo del deputato e ricoprirlo con un po’ di terra e foglie, convinti che la zona fosse poco frequentata e con il proposito di tornare in un secondo momento per ultimare il lavoro.

    Dumini, quello che possiamo considerare il capo della banda, ufficialmente lavorava presso il «Corriere italiano» ma, in realtà, era una sorta di faccendiere del regime. Logicamente si serviva della complicità del suo direttore di giornale, Filippo Filippelli, che gli aveva procurato l’impiego di copertura e l’auto per compiere il rapimento. Inoltre era risaputo che lo stesso Filippelli non era un giornalista o un professionista tale da ricoprire la carica di direttore e, soprattutto, aveva un tenore di vita al di sopra delle proprie possibilità, poiché «possedeva ben cinque automobili, e trenta vestiti, alloggiava in un suntuoso appartamento all’Hotel Moderno»¹². Al contrario Poveromo, un altro elemento della banda, era un commerciante in carni, pregiudicato per vari reati comuni, mentre Viola e Volpi erano delinquenti di bassa lega, facenti parte degli Arditi di Guerra Fascisti. Anche Augusto Malacria, l’autista, era noto alla polizia per bancarotta fraudolenta; quindi, tranne Dumini, gli altri erano solo esecutori materiali che, molto probabilmente, non conoscevano Matteotti e la sua politica.

    Tornando a quel giorno, tutti quanti, una volta consumato il delitto, non pensarono a fuggire, sicuri della connivenza e della protezione del regime, rientrarono tranquillamente nella capitale. Mussolini stesso venne avvisato dell’accaduto solo il mattino seguente, 11 giugno; scattarono immediate disposizioni volte a distruggere eventuali prove, come il passaporto del deputato e la preziosa borsa con documenti compromettenti che Matteotti doveva mostrare alla Camera il giorno del suo rapimento. Il contenuto di essa, ovviamente, è solo ipotizzabile poiché non fu mai ritrovata. Secondo lo storico Renzo De Felice, vi erano le prove dei rapporti tra il re, la Sinclair Oil e Arnaldo Mussolini, fratello del duce. Questo potrebbe essere un valido movente, forse con l’avallo del monarca, per mettere a tacere definitivamente un personaggio scomodo. Ma bisognava far credere che l’onorevole fosse partito, mentre gli assassini vennero ricompensati con l’ordine di lasciare Roma. Ciò nonostante, cominciò a trapelare la storia del complotto, che Mussolini difese sempre ostentando la sua completa estraneità ai fatti, anzi dichiarando che era stato architettato dagli stessi antifascisti per screditarlo, ribaltando a suo favore l’accaduto. Sarà l’ipotesi di Farinacci, che lo spiegherà dettagliatamente sul giornale «Cremona Nuova» il 27 luglio 1924.

    Parallelamente, però, scattarono le ricerche da parte della moglie di Matteotti, Velia, allarmata da quell’insolito silenzio. La donna si rivolse all’avvocato Modigliani che le consigliò di far pubblicare la notizia della sparizione sui giornali, mentre lo stesso compagno di partito Turati affermò di essere «in una pena orribile sulle sorti di Matteotti aggiungendo però che non era verosimile, a suo parere, un delitto organizzato dal governo: al fascismo avrebbe infatti procurato solo un danno»¹³.

    Furono avviate immediatamente le indagini da parte della polizia, con a capo il commissario Rodolfo de Bernart. Furono ascoltati i testimoni che avevano visto prelevare a forza Matteotti, primo fra tutti fu Gioacchino Nantes, di professione meccanico. Questi dichiarò che, verso le quattro del pomeriggio, aveva visto dalla finestra tutto il rapimento, confermando che erano in cinque gli uomini che prelevarono l’onorevole. Poi fu la volta di due portinai, i coniugi Villarini, che avevano addirittura annotato la targa della macchina perché insospettiti da quell’auto che da giorni si aggirava nei paraggi. Da ciò fu facile risalire a Filippelli, all’autista, agli altri membri della banda e, soprattutto, al garage Trevi di via dei Crociferi, dove era stata riportata la vettura dopo essere stata sommariamente ripulita.

    Il commissario si dimostrò molto solerte tanto che il questore avvisò subito De Bono, al quale riassunse tutta la faccenda per far percepire il pericolo di una rapida soluzione da parte dello zelante poliziotto. Ed ecco entrare in scena il capo dell’Ufficio stampa fascista, Cesare Rossi.

    Forse gli uomini del duce volevano solo dare una lezione al deputato socialista e la situazione poi era sfuggita loro di mano, le cose erano precipitate oppure non si aspettavano una reazione così ferma e decisa di Matteotti. Ma è molto più probabile che il delitto fosse stato premeditato dopo il celebre discorso di fine maggio alla Camera poiché lo stesso duce aveva affermato: «Cosa fa questa ceka? Cosa fa Dumini? Quell’uomo dopo quel discorso non dovrebbe più circolare»¹⁴. Ciò nonostante, «non risulta che Mussolini abbia ordinato a Marinelli o ad altri di sopprimere Matteotti o di dargli una lezione»¹⁵.

    Al contrario, Cesare Rossi punterà su un eccesso di zelo da parte degli uomini della polizia, per voler compiacere il capo, tanto da dichiarare: «Ho sempre pensato che la responsabilità del mandato fu di Marinelli»¹⁶, segretario amministrativo del partito.

    Nel proseguimento delle indagini intervennero anche personaggi per così dire minori: è il caso di Aldo Gibelli, una figura di secondo piano nel partito fascista che – espatriato in fretta e furia in Germania dopo che il delitto aveva preso una piega pericolosa per il regime – aveva testimoniato sui rapporti che intercorrevano fra De Bono e Filippelli.

    Nel frattempo, però, bisognava giustificare quel banco vuoto alla Camera e il 12 giugno Mussolini rispose al deputato Gonzales, confermando che le indagini sulla scomparsa dell’onorevole non avevano dato ancora un esito preciso e l’ipotesi dell’omicidio restava in piedi.

    Via via vennero arrestati i componenti della banda: Dumini, che ancora si trovava nella capitale, fu preso alla stazione Termini il 13 giugno, Volpi fu intercettato a Milano e, mentre si trovava nella sede del Fascio, riuscì a eludere i poliziotti, ma fu ricatturato nei pressi del lago di Como. Il fermo più eccellente fu quello del segretario amministrativo del Fascio, Giovanni Marinelli (rimasto sempre fedele al partito, avrebbe ricevuto in cambio il pieno reintegro due anni dopo).

    Emblematico in tal senso fu l’interrogativo che si pose un giornale dell’epoca su dove fosse finito l’autista, Augusto Malacria, un uomo che prima della Grande Guerra svolgeva le mansioni di sguattero e, poi, partecipando ad azioni punitive, era divenuto dirigente di squadra delle camicie nere: era stato visto a Milano con due grossi bagagli e ancora si vantava della sua abilità con le macchine, considerandosi un «virtuoso del volante». Aveva anche un’amante, una certa Dongo, con la quale divideva locazioni di lusso, ed era stato implicato con un banchiere per operazioni poco pulite, decisamente una rapida carriera per un ex lavapiatti¹⁷.

    Insomma, la teoria del delitto perfetto era sfumata e la vicenda rischiava di travolgere l’intero regime e, soprattutto, il duce. A questo punto i malviventi dovevano apparire come gli unici responsabili che avevano agito per tornaconto personale o esacerbati dal clima che si era creato, liquidando l’azione come «una vendetta di scalmanati squadristi, inferociti per le provocazioni e le intemperanze verbali di Matteotti»¹⁸.

    Invece, per trovare il vero movente della sua esecuzione, bisognava indagare – come già accennato – sull’aspetto economico della vicenda: in particolare sull’affare Sinclair. Matteotti stesso aveva scritto un articolo su una rivista inglese, poi tradotto e pubblicato da «Vita Italiana» dopo la scomparsa del politico¹⁹, proprio sul legame tra il fratello del duce e la ditta americana. La società petrolifera statunitense era riuscita a ottenere l’esclusiva della ricerca e dello sfruttamento dell’eventuale oro nero che si fosse scoperto sul suolo italiano e sulle sue colonie; tutto ciò era stato ratificato con rdl. n. 677 del 4 maggio 1924, proprio pochi giorni prima del famoso delitto. L’affare era stato accompagnato da un vorticoso giro di tangenti e corruzione tale da far insorgere l’Iranian Oil Company, a gestione britannica, preoccupata dell’espansione americana in Italia. Secondo lo storico Mauro Canali, sarebbero stati gli stessi inglesi a fornire le prove della corruzione italiana che il socialista avrebbe dovuto denunciare alla Camera per screditare Mussolini e il regime²⁰.

    I primi d’agosto del ’24 uscì nel mensile «English life» un articolo di Matteotti, mai tradotto in italiano, dal titolo emblematico: Machiavelli, Mussolini and Fascism, nel quale il deputato già parlava della corruzione sulle concessioni petrolifere in Italia da parte del regime.

    E non bisogna sottovalutare il fatto che la Standard Oil of New Jersey all’epoca

    possedeva l’80% del mercato italiano del petrolio e, agendo in situazione di quasi monopolio, poteva tenere i prezzi molto più alti dei suoi concorrenti stranieri. Questo nel momento in cui in Italia il fabbisogno di petrolio, sia come benzina per le automobili sia come fonte di energia per le fabbriche manifatturiere, stava aumentando vertiginosamente. Nel 1923 la società petrolifera inglese Anglo Persian Oil era però riuscita a sottoscrivere un accordo con il Ministero italiano delle Finanze, per riuscire a scalzare la concorrente. L’accordo prevedeva da una parte la possibilità per la Anglo Persian Oil di esplorare ed eventualmente sfruttare gratuitamente i giacimenti della Sicilia e dell’Emilia Romagna, dall’altra obbligava tale società a fornire allo Stato italiano il greggio a prezzi molto più bassi di quelli precedentemente praticati dalla Standard Oil.

    La compagnia americana non era rimasta impassibile a guardare un concorrente scippargli il mercato italiano: aveva costituito una compagnia prestanome, la Sinclair Oil, che nell’aprile del 1924 aveva stipulato un accordo segreto con il governo fascista. […] Dai documenti in possesso ai laburisti inglesi che Giacomo aveva esaminato durante il suo viaggio, risultava che le condizioni del nuovo accordo fossero assolutamente più sfavorevoli per l’Italia.²¹

    Altra coincidenza era stata fornita da Filippo Filippelli, amico di Arnaldo Mussolini, fratello del duce, il quale pare che «pochi giorni prima della stipula della concessione, avesse ricevuto una prima rata di alcuni milioni di lire, a cui ne avrebbero dovute seguire altre»²².

    L’affaire continuò quasi fino al ritrovamento del cadavere, il 10 agosto dello stesso anno, quando un articolo del «Popolo d’Italia» denunciò velatamente Mussolini come mandante. Comunque non si trovarono mai prove certe che poterono indirizzare il movente in una determinata direzione e identificare colui che aveva ordito il crimine; molto più plausibile era l’ipotesi di un concorso di cause che resero Matteotti troppo scomodo e pericoloso per tenerlo ancora in vita.

    Nel frattempo le indagini proseguivano e assunsero l’incarico il magistrato Del Giudice e il sostituto procuratore Tancredi. Essi subirono

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