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La Democrazia Mafiosa: Mafia e democrazia nell’Italia dei Comuni (1946-1991)
La Democrazia Mafiosa: Mafia e democrazia nell’Italia dei Comuni (1946-1991)
La Democrazia Mafiosa: Mafia e democrazia nell’Italia dei Comuni (1946-1991)
E-book333 pagine4 ore

La Democrazia Mafiosa: Mafia e democrazia nell’Italia dei Comuni (1946-1991)

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Info su questo ebook

Un libro appassionato, che offre una nuova prospettiva allo studio e all’analisi del rapporto tra enti locali e mafia. Dalle elezioni amministrative del 1946 alla approvazione della legge sugli scioglimenti dei consigli comunali per mafia del 1991, per la prima volta viene ricostruita la storia del funzionamento dei comuni, del legame con i grandi avvenimenti internazionali e nazionali e del perché siano occorsi quarantacinque anni di storia repubblicana per dotarsi di uno strumento di difesa contro l’invadenza delle mafie nella democrazia locale.
Attraverso la capillare ricostruzione di tutti gli scioglimenti anticipati dei comuni dal 1946 in poi, lo studio documenta le priorità politiche che hanno condizionato il controllo ministeriale sui governi locali e l’incapacità della democrazia italiana di reprimere la gestione diretta dei municipi da parte delle mafie.
L’ipotesi del libro è chiara: non infiltrazione, condizionamento, ma un modo diverso di declinare la democrazia, quello di raggiungere il potere con il voto democratico, in un modo tranquillo, pacificato, contando paradossalmente proprio sulla visibilità, sulla propria storia, sulla conoscenza della storia locale, sulla capacità del consenso.
Negando che il problema sta dentro il funzionamento della democrazia, nella raccolta del consenso, non si è riusciti a trovare le vere contromisure alla gestione mafiosa dei comuni se non i reiterati scioglimenti.
Oggi che sul tema dei limiti e dei problemi della democrazia si è finalmente aperto un largo dibattito che non ignora l’illusorietà di pensare che “elezioni regolari implichino di per sé una democrazia regolare”, il libro ci invita a ragionare in maniera meno ortodossa su un fenomeno sul quale siamo ben lontani da una soluzione.
LinguaItaliano
Data di uscita15 mar 2017
ISBN9788868225452
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    Anteprima del libro

    La Democrazia Mafiosa - Claudio Cavaliere

    collana

    Mafie

    diretta da Antonio Nicaso

    22

    CLAUDIO CAVALIERE

    La democrazia

    mafiosa

    Mafia e democrazia nell’Italia dei Comuni (1946-1991)

    Prefazione di Nicola Gratteri

    ISBN 978-88-6822-545-2

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2016

    Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Siti internet: www.pellegrinieditore.com

    www.pellegrinieditore.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Alla gentilezza

    Prefazione

    Sfogliando le pagine del libro di Claudio Cavaliere ci s’imbatte in un’appassionata ricostruzione storica della faticosa rinascita dei comuni italiani nel secondo dopoguerra. Si tratta di una documentata prospettiva che colma una lacuna di analisi sul rapporto tra enti locali e mafia. Nella lunga vicenda intrisa di passioni, idee, voglia di futuro che ha portato alla nascita della Repubblica, la mafia non è un tempo a parte.

    Dalle elezioni amministrative del 1946 all’approvazione della legge sugli scioglimenti dei consigli comunali per mafia del 1991, l’autore ricostruisce, con metodo e rigore, le vicende del funzionamento dei comuni, del legame con i grandi avvenimenti internazionali e nazionali e cerca di spiegare perché siano occorsi qua-rantacinque anni di storia repubblicana per dotarsi di uno strumento di difesa contro l’invadenza della criminalità organizzata nella democrazia locale.

    Il libro è, quindi, necessariamente anche una breve storia sulla nascita della nostra democrazia in un periodo di forti contrapposizioni ideologiche che hanno avuto un loro specifico peso nel fare diventare la mafia classe dirigente in larghe aree del Paese e molti criminali gestori della cosa pubblica, contribuendo, così, a determinare la qualità della vita d’intere comunità.

    Purtroppo, non si tratta di una storia passata. La presenza mafiosa negli enti locali è un fenomeno straordinariamente attuale e ancora nessuno può pensare di scrivere su di esso una storia completa e definitiva.

    Il libro è una riflessione sui limiti della democrazia e sulle carenze di generazioni di classi politiche che hanno prima negato l’esistenza del fenomeno e, poi, tentato di relegarlo in ristrette aree geografiche del Paese, rendendolo non meritevole dell’attenzione politica. La miopia della politica, dovuta anche ad una acquiescente complicità, ha fatto diventare la mafia forza sistemica e non antisistema senza che in questa evoluzione ci fosse alcun carattere di inevitabilità.

    Gran parte del lavoro, in quanto storia della politica e dei controlli statali sugli enti locali italiani, si occupa di documentare com’è avvenuta questa ibridazione tra le istituzioni democratiche e la mafia, di come sia stato possibile (e lo sia tuttora) che i medesimi soggetti possano agire, contemporaneamente, in un ambito legale ed illegale, criminale e di rappresentanza delle istituzioni. Di come la storia della mafia incrocia la storia della democrazia locale nel nostro Paese, due traiettorie che viaggiano immediatamente in sincrono e che, solo dopo quasi mezzo secolo, si tenterà di separare.

    L’ipotesi del libro è chiara e dichiarata: non infiltrazione né condizionamento mafioso; ma un modo diverso di declinare la democrazia: raggiungere il potere con il voto democratico, in un modo tranquillo, pacifico, contando, paradossalmente, proprio sulla visibilità, sulla propria storia, sul radicamento locale, sulla capacità di procurarsi adesioni.

    La capillare ricostruzione di tutti gli scioglimenti anticipati dei comuni italiani dal 1946 in poi individua le priorità politiche che hanno orientato il controllo ministeriale sui governi locali e l’incapacità della democrazia italiana di reprimere la gestione diretta dei municipi da parte delle mafie. Eppure, guardando ai soli scioglimenti per mafia degli enti locali intervenuti dopo il 1991, oggi dobbiamo prendere atto che circa l’8% della popolazione italiana è stata amministrata da soggetti direttamente affiliati alla mafia o, perlomeno, non insensibili ai suoi desiderata, ai suoi programmi ai suoi affari. Un dato comunque enorme – anche se, con molta probabilità, rispecchia la realtà al ribasso – e che spesso ha provocato lo scivolamento verso una visione a tratti etica e morale del problema, fatta d’incandescenti sermoni, ma priva di traguardi se non quelli generici.

    Come si ricava dai documenti, negando che il problema stia dentro il funzionamento della democrazia, nella raccolta del consenso, non si è riusciti a trovare le vere contromisure alla gestione mafiosa dei comuni se non i reiterati scioglimenti, una misura che comunque interviene quando il danno alle istituzioni è già compiuto e i cittadini non possono che prendere atto che le regole formali della democrazia non sono di per sé un antidoto sufficiente senza un’autoriforma del potere politico, come ebbe modo di dire il relatore della legge sugli scioglimenti.

    Per tutto questo l’autore ci invita a ragionare in maniera meno ortodossa su un fenomeno sul quale siamo ben lontani da una soluzione. Si tratta di un monito alle popolazioni e alla politica che suggerisce di finirla con leggi monche, provvedimenti ipocriti e tampone, se si vuole combattere sul serio il controllo della mafia su ampie aree della società. La mafia costituisce un vulnus per le istituzioni e per la democrazia, per contrastarla serve l’azione repressiva, intelligente e ben strutturata, ma non va mai dimenticato che senza una presa di coscienza dei cittadini e di una loro reazione consapevole difficilmente vinceremo la battaglia. Lavori meticolosi e puntuali come questo saggio, che considero interessante per una serie di spunti originali, possono rendere intelligibili alcuni nessi del rapporto istituzioni-società reale finora erroneamente sottovalutati.

    Nicola Gratteri

    Introduzione

    […] la maffia che esiste in Sicilia non è pericolosa,

    non è invincibile di per sé,

    ma perché è strumento di governo locale […]

    Diego Antonio Tajani (deputato del Regno, 1875)

    Non si passa da Roccaforte del Greco. Bisogna proprio andarci.

    Compare all’improvviso, sullo sfondo, quando pensi che i ghirigori, le frane e le buche della ex SS 183 non finiranno di torcerti le budella. Lo vedi, appeso al nulla, su quei tre costoni a quasi mille metri di altezza, in mezzo alle forme più incredibili che può assumere l’Aspromonte.

    Terra grecanica di Calabria anche se qui l’antica lingua di Omero sembra non si parli più.

    Comune di record Roccaforte, non proprio invidiabili. Primo Comune in Italia a collezionare tre scioglimenti del consiglio comunale per mafia.

    Le elezioni comunali del 1992 e il primo scioglimento nel 1996. Poi per avere un voto utile si deve attendere il 2000. Secondo scioglimento nel 2003, nuove elezioni nel 2006 e terzo scioglimento nel 2011.

    Scontato l’ennesimo purgatorio, a maggio del 2014, alle elezioni amministrative, i roccaforticiani decidono di nuovo di non votare. O meglio imbucano nell’urna solo in sessantuno, comprese quattro schede bianche e tre nulle, meno del 12% del piccolo corpo elettorale. Niente da fare. Elezione non valida, commissariamento prorogato. A maggio 2015 finalmente il quorum, ritorna la democrazia e il nuovo sindaco.

    E un altro record: il Comune più commissariato d’Italia. Negli ultimi venti anni undici sono stati appannaggio di commissari straordinari che si sono dovuti arrampicare fin quassù per amministrare questa piccola e antica comunità.

    Al secondo posto Platì, 10 e più anni di commissariamento negli ultimi venti e al terzo posto Casal di Principe, poco più di otto anni.

    Per Roccaforte al massimo tra quattro, cinque consiliature l’oggetto del contendere non esisterà più. Dal 2001 il paese ha perso il 40% degli abitanti. L’ultimo nato risale al 2014 mentre le campane per il trapasso hanno suonato trentotto volte dal 2011. Oggi i residenti sono meno di cinquecento. Sarà difficile amministrare una terra di fantasmi.

    Dalla piazza del Comune la fiumara Amendolea in basso è un’autostrada bianca che finisce nello Jonio. La Roghudi abbandonata è un’isola tra due fiumare e al blu cobalto del mare sullo sfondo si affianca il verde grigio delle montagne intorno.

    Sulla sterrata che sale verso Gambarie, poco distante, la frana Colella, considerata una delle più grandi in Europa, sembra voler trascinare in basso una parte della Calabria e con essa questo microcosmo calabro-greco e la sua storia: quella del brigante Musolino che per nascondersi dormiva in un loculo del cimitero; del grande filologo e linguista Gerhard Rolfhs soggiornante a Roccaforte; del partigiano Perpiglia e della moglie; dell’intervento di Togliatti al secondo consiglio nazionale del PCI nel 1945 che, a guerra non ancora conclusa, trova il tempo di parlare del sindaco comunista e dei fatti di Roccaforte… un villaggio che starebbe bene in Abissinia; delle due favole di Roccaforte presenti nel libro di Calvino; dei martiri del 1848; di radio Saturno3 che già nel 1981 trasmetteva dal paese …

    Storie, come si trovano in qualunque altro dei duecentoquarantotto comuni sciolti per mafia dal 1991[1], l’anno in cui la Repubblica italiana decide di accorgersi che c’è un problema nella sua democrazia.

    Una statuaria indifferenza crollata di colpo. Di colpo, nel 1991 nasce il fenomeno.

    Perché proprio in quell’anno, dopo quarantacinque anni di storia repubblicana quasi si fosse stati colpiti alla sprovvista? Forse prima la mafia, nelle sue varie declinazioni regionali, non aveva già gestito direttamente istituzioni, risorse, enti pubblici e quant’altro?

    Questione di priorità, se è vero che la democrazia repubblicana dei primi decenni si è pensato di difenderla rimuovendo sindaci e inibendoli dall’elettorato passivo per anni con l’accusa di avere firmato appelli contro la bomba atomica, promosso manifestazioni di protesta contro i governi in carica o di avere solo espresso valutazioni ritenute non conformi.

    Questo libro nasce da un disagio, dalla insoddisfazione e quindi dalla necessità di rivisitare categorie e giudizi che sottendono al fenomeno: quelle di infiltrazione e condizionamento in primis.

    C’è una evidente autoassoluzione dentro questi due concetti che tendono a definire il problema. Una autoassoluzione incapace di vedere la criminalità organizzata impadronirsi dei meccanismi della democrazia e di conseguenza legittimarsi con il consenso come forza di governo. Ci si può illudere che i termini delimitino una casistica minoritaria che non ha a che fare con il funzionamento quotidiano della democrazia.

    Dopo settanta anni di storia repubblicana e un quarto di secolo dai primi scioglimenti, come minimizzare se quasi l’8% della popolazione italiana è stata governata ufficialmente dalla mafia? Se in alcune province si registrano punte tra il 30 ed il 40% di comuni sciolti almeno una volta? Se persino l’organo consiliare della capitale dello Stato, e non il comune da trecento abitanti, è stato giudicato meritevole di scioglimento?[2]

    Sono i numeri a dirci che non siamo in presenza di un accidente della storia politica, ma che è la democrazia a presentare dei lati oscuri di cui non si parla volentieri, forse per paura di essere etichettati come antidemocratici.

    Come studiare gli avvenimenti politici e non interrogarsi su percentuali che fanno le mafie protagoniste della storia locale e regionale? Di quella storia con il maggior impatto diretto sulle attività e sulla vita delle persone.

    Finora ci si è accontentati di una visione esclusiva di storia criminale, un elenco sempre più lungo di singoli casi eludendo il tema della democrazia, del suo funzionamento, della capacità di generare problemi da correggere e risolvere.

    Quella degli enti locali sciolti per mafia è invece una storia di governi e sgoverni, parte integrante della evoluzione o involuzione della democrazia, storia politica, sociale e (in)civile con cui milioni di cittadini sono stati e sono chiamati a confrontarsi.

    La mafia già di suo non è un tempo a parte della nostra storia a maggior ragione quando questi uomini diventano gestori della cosa pubblica e determinano i fatti della vita quotidiana di intere comunità.

    Boss di primo livello si sono esposti direttamente nelle competizioni elettorali, garantendosi con l’elezione, col consenso, una patente di democraticità. E quanto accaduto non può comprendersi se non preso nel suo insieme, accostando i fatti gli uni agli altri, ricostruendo il tema storico del controllo sugli enti locali, sul loro funzionamento e uso. L’uso selettivo degli episodi ha invece finito per scalzare le spiegazioni contestuali o politiche riducendo il fenomeno ad un insieme di fatti isolati, ogni caso un caso a sé, sui generis. Una maniera rassicurante di affrontare il problema evitando di indagare se questi lunghi e ripetuti fatti sono parte integrante della nostra storia politica che di colpo ci appare non solo storia di valori positivi ma anche di disvalori, sistema di influenza sui partiti, sulla vita istituzionale, struttura di potere che influenza e determina (non condiziona) il sistema politico.

    L’ipotesi del libro è chiara: non infiltrazione, condizionamento, ma un modo diverso di declinare la democrazia, quello di raggiungere il potere con il voto democratico, in un modo tranquillo, pacificato, contando paradossalmente proprio sulla visibilità, sulla propria storia, sulla conoscenza della storia locale, sulla capacità del consenso.

    Non si sostiene che politica e mafia sono la stessa cosa, tantomeno si va alla ricerca dei rapporti con la politica considerato che il rapporto è implicito nel concetto e nella definizione storica e sociologica. Ciò che si sostiene è che le organizzazioni criminali non hanno bisogno di creare istituzioni parallele, di fare saltare le fondamenta dello Stato democratico. L’esistente serve benissimo allo scopo, si può vivere ed operare all’interno delle funzioni dello Stato senza dover rinunciare alla propria storia criminale. L’ibridazione delle istituzioni avviene con regole e leggi che rimangono apparentemente il principio organizzatore della vita delle comunità.

    Come prevenire, ammortizzare tali problemi se diamo per scontato che la democrazia non può generare problemi quando scopriamo quotidianamente che la democrazia non basta a sé stessa?[3].

    Se nella prima fase della sua storia l’incapacità della democrazia italiana di vedere il problema e conseguentemente di difendersi è dovuta a precise scelte di priorità politica che individuavano altrove il pericolo al consolidamento delle istituzioni repubblicane, l’avvio della stagione degli scioglimenti è stato affrontato dai partiti politici cavalcando il virtuosismo retorico del complotto, l’attentato alla democrazia diretta, la spoliazione della volontà popolare, l’uso politico contro gli avversari.

    Negando che il problema sta dentro il funzionamento della democrazia, nella raccolta del consenso, non si è riusciti a trovare le vere contromisure se non i reiterati scioglimenti, cosicché il dibattito ha assunto toni schizofrenici riconoscendo il tema del radicamento delle mafie senza essere conseguenti nei confronti dell’attecchimento nelle strutture sociali, civili e politiche, perpetuando i vetusti cliché del corpo estraneo, del cancro, dell’infiltrazione, della mala pianta.

    Col tempo la cronaca ha fatto pulizia dell’altro strano dibattito sulla presenza o meno delle mafie nel nord Italia. Attraverso gli scioglimenti di enti locali in regioni non meridionali, abbiamo la possibilità di poter descrivere una storia comune che esula dai contesti territoriali senza dover necessariamente applicare griglie di lunghissimo periodo al fenomeno, concentrandoci solo sul tema degli enti locali nel periodo repubblicano.

    Le centinaia di decreti di scioglimento dei comuni sono diventate storia in tanti libri. Attraverso di essi ci sembra di sapere tutto quello che c’è da sapere, fatti, cifre, nomi dei clan che infeudano i territori. Questo libro ha la pretesa di parlare di ciò che si conosce meno, non dei singoli casi ma di quello che precede, di quella storia mancata che conduce dritti all’emergenza mafia nei comuni italiani e di come si è giunti, all’interno di un grande gioco in cui hanno pesato molto gli avvenimenti nazionali ed internazionali, a sciogliere una parte di Repubblica per criminalità.

    Per questo il libro si ferma proprio al 1991, alla data cioè dell’approvazione della legge sugli scioglimenti delegando ai soli dati statistici il racconto di quanto accaduto dopo. Si è preferito, attraverso la capillare ricostruzione di tutti gli scioglimenti anticipati dei comuni dal 1946 in poi, documentare le priorità politiche che hanno condizionato il controllo ministeriale sui governi locali e la conseguente incapacità della democrazia italiana di reprimere la gestione diretta dei municipi da parte delle mafie.

    Oggi sul tema dei limiti e dei problemi della democrazia si è finalmente aperto un largo dibattito che non ignora l’illusorietà di pensare che elezioni regolari implichino di per sé una democrazia regolare, cosicché gli scioglimenti dei Comuni per mafia ci invitano a ragionare in maniera meno ortodossa su un fenomeno sul quale siamo lontani da una soluzione.

    Il titolo di questo libro non può che richiamare l’ultimo testo di Panfilo Gentile, Democrazie mafiose, pubblicato nel 1969 due anni prima della sua morte. Gentile si meritò una citazione polemica di Nenni in una delle prime sedute della Camera dei Deputati data la sua antica vocazione polemista dettata da uno spirito antiretorico e non conformista. Nel suo volume il termine mafioso si riferisce alla già evidente decomposizione dei partiti a strumenti di potere, ad un’Italia già formata da una fitta e inneficente Pubblica Amministrazione, ad uno Stato debole e al servizio dei clienti politici.

    Ma questa è un’altra storia.

    [1] Dpr al 31/12/2016. Si parla di comuni sciolti per comodità espositiva ma è chiaro che ad essere sciolti anticipatamente sono gli organi elettivi in carica.

    [2] "[…] Nella sua relazione, la Commissione non ha formulato specifiche proposte relativamente al Municipio di Ostia, considerando la questione assorbita dalle conclusioni che postulano la sussistenza dei presupposti per lo scioglimento dell’Organo consiliare di Roma Capitale […]". Allegato al DPR 27/08/2015, Gazzetta Ufficiale n. 214 del 15/09/2015.

    [3]Z. Bauman, E. Mauro, Babel, Editori Laterza, Roma-Bari, 2015, p. 3.

    1. Le prime elezioni amministrative

    nell’Italia dell’ansia e delle passioni

    1.1 Preludio

    Parlare dei Comuni italiani significa avere in mano un filo e poterlo srotolare indietro nel tempo più di quanto si possa immaginare. Fare i conti con storie, significati e prospettive diverse.

    Questa storia invece inizia a guerra ancora in corso, nell’Italia divisa a metà dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia nel 1943, con il primo governo militare di Badoglio.

    Il 4 aprile 1944 è il giorno in cui nella risiera di San Sabba entra in funzione il forno crematorio del campo di sterminio. È anche il giorno in cui con il regio decreto legge luogotenenziale n. 111, vengono disposte norme transitorie in attesa di poter indire le elezioni per l’amministrazione dei comuni e delle province.

    Dopo diciotto anni viene reintrodotta la figura del sindaco[1] ed è attribuito ai prefetti il compito di provvedere alla temporanea nomina dei primi cittadini e degli assessori in attesa delle nuove elezioni.

    L’inverno seguente, quello del ’44-’45, è ricordato in quasi tutta Europa come l’inverno della fame. Il 2 febbraio 1945 l’Italia è ancora divisa dalla linea Gotica. Churchill e Roosevelt partono per la conferenza di Jalta. A San Benigno, in provincia di Cuneo, tredici giovani tra i diciotto e ventisei anni vengono uccisi per rappresaglia dai nazifascisti. Lo stesso giorno con decreto legislativo luogotenenziale n. 23, emanato dal Consiglio dei ministri presieduto da Ivanoe Bonomi, viene esteso il diritto di voto alle donne.

    Bisogna aspettare il 7 gennaio 1946 affinché, con decreto legislativo luogotenenziale n. 1, sia disposta la ricostituzione delle amministrazioni comunali su base elettiva e recepita per il corpo elettorale l’innovazione introdotta col voto femminile.

    Tutto ricomincia da qui. In un incrocio continuo di date e di eventi a conferma del forte legame tra storia delle autonomie e storia del paese, tra un passato incombente e un futuro incerto, in una Italia accomunata da una cosa sola: la distruzione.

    La guerra, risalita attraverso la penisola, dall’estrema punta della Sicilia alle Alpi coinvolgendo quasi tutta la popolazione civile non ha tralasciato ponti, viadotti, porti, ferrovie, città senza una qualche forma di devastazione.

    I lutti sono immensi e dopo Unione Sovietica e Germania, in occidente le maggiori perdite di militari sono quelle dell’esercito italiano. Solo nel 1947 si conclude il rimpatrio di tutti gli italiani, circa un milione e trecentomila, bloccati all’estero come prigionieri, deportati o internati.[2]

    Nel 1945 il tasso di mortalità infantile è di 103 ogni mille nati vivi e per scendere sotto i 50 bisogna giungere al 1956. Per capire la gravità basta pensare che oggi il tasso è di circa il 3 per mille. Solo nel 1948 l’età media dei maschi italiani supera la soglia dei sessanta anni.

    Gli italiani, nel biennio ’45-’46 vivono praticamente in condizioni di stenti. Nel luglio del 1946 la razione del pane è di 250 grammi e ancora nel 1947 sono i cittadini peggio alimentati di tutta la parte occidentale. Focolai di tifo, vaiolo e colera sono segnalate in varie aree del paese.

    Un italiano su due in condizione attiva è lavoratore agricolo con una divisione percentuale che riproduce la classica separazione del paese tra nord e sud: Basilicata, Abruzzo, Calabria, Marche, Molise, con oltre sei attivi su dieci. Si tratta nella stragrande maggioranza di braccianti, salariati stagionali, lavoratori di un settore arretrato e la cui proprietà terriera è in gran parte concentrata in poche mani.

    I senza tetto sono milioni. Nella sola città di Napoli oltre centoquarantamila persone nel 1948 sono privi di abitazioni e ricoverati in situazioni di emergenza. Nel 1953 solo in Sicilia duecentodiciannovemila famiglie vivono ancora in ricoveri di fortuna.

    In Miracolo a Milano, il film del 1951 di Vittorio De Sica, i protagonisti sono i baracchesi, persone senza casa che abitano alla periferia della città e una delle frasi del film "… vogliamo una casa in cui vivere, in modo che noi e i nostri figli possiamo ricominciare a credere nel futuro", rappresenta l’obiettivo per milioni di persone.

    Altrettanto precaria la condizione dell’ordine pubblico. La guerra, la presenza di eserciti di varia nazionalità e di incerta definizione se alleati o nemici, la spaccatura dell’Italia, la guerra di liberazione, hanno provocato il collasso della legge e delle normali procedure di uno Stato. Il conflitto è stata una esperienza di quotidiana degradazione e larghe fasce della popolazione sono costrette a compiere reati per sopravvivere. Il 15 dicembre 1945 un articolo sulla nuova Stampa, riportando un lungo elenco di fatti di cronaca afferma: "[…] tutti vedono come non esista una sicurezza pubblica in Italia". Nel 1946 il numero di omicidi nel Paese (con esclusione dell’anno di guerra 1945) è il più elevato dal 1880 ad oggi.

    C’è troppo poco di tutto, tranne di armi. Oggi si sa con certezza che tonnellate di armi sono finite nei depositi clandestini dei partiti, di gruppi più o meno organizzati pronte ad essere usate.[3]

    Il processo che De Gasperi, nella prima seduta dell’Assemblea costituente, indica come "il più grande rivolgimento politico della storia politica moderna d’Italia si avvia nella più catastrofica indigenza"[4] e in un paese armato.

    È un’Italia percorsa da passioni irrefrenabili e da un’ansia di non farcela altrettanto grande. La fine della guerra è stata idealizzata come il momento che avrebbe risolto i problemi della miseria, della disoccupazione, del degrado. Ma invece del paradiso molti si ritrovano in condizioni peggiori di prima.

    La nascente democrazia italiana non sembra in grado di rispondere ai colossali problemi del dopoguerra. Ad essa i cittadini affidano l’obbligo di costruire velocemente un futuro migliore. Ma quale?

    A questa condizione si

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